II. PENSARE E PENSARE PER CONCETTI

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Al di là di un fenomeno

ci sono solo altri fenomeni,

più nascosti e profondi,

in un processo continuo e senza fine.

2. Lo scarto fenomenologico parte prima 

È ormai risaputo che c'è una reciproca interazione tra intelligenza e sfera del sentire nell'accezione più ampia; al punto che una vita povera di stimoli sensitivi porta col tempo necessariamente al declino dell'intelligenza. E le intuizioni — sia di entità sensibili che non sensibili —, che sono la premessa indispensabile per ogni forma di rappresentazione, rientrano senz'altro in questa sfera più vasta della sensitività. Estremamente istruttiva è la particolarità della lingua inglese, nella quale ragionevole o sensato si dice anche sensible. E noi stessi, nel negare valore logico ad una frase, diciamo che è priva di senso, intendendo implicitamente con ciò che le parole mancano di un qualsiasi aggancio con le possibili esperienze del sentire. è vero anche che in molte circostanze l'attività di comprensione risulta disturbata da un'eccitazione del sentire, dal ribollire delle immagini, delle emozioni e dal turbinio degli stati d'animo travolgenti, ma è solo un episodio, temporaneo, che non influisce alla lunga se non positivamente sull'intera dinamica dell'intelligenza.

Tuttavia una lunga tradizione ha finito per attribuire un peso negativo alla sensitività, considerandola in molti casi un ostacolo all'intelligenza teoretica. Si è guardato soprattutto ad un concetto speciale di intelligenza, che viene a essere implicato dalla teoresi ma che non identifica il vero processo della comprensione: il capire a fini teoretici è una particolarità del capire più originario, che viene senz'altro prima di qualsiasi teoresi. Molti uomini capiscono benissimo, forse anche meglio di filosofi esperti, ma non elaborano filosofie o teorie che tendano a organizzare l'esperienza all'interno di un sistema complessivo di spiegazioni astratte, a costruire una Weltanschauung, per esprimerci con un termine arcinoto. Pur essendo alla radice molto vicini, il capire dell'uomo comune e quello del teoreta divergono ad un tratto in modo netto. Non è un caso l'atteggiamento elitario di tanta filosofia o anche della scienza nei confronti dei comuni mortali. Basterebbe citare per tutti la diffidenza di Eraclito per la massa o qualche esempio di scienza divulgativa per rendersi conto di questa divergenza. Ma che cosa allora caratterizza in modo particolare il filosofo nell'intreccio dei suoi pensieri? La risposta è: lo scarto fenomenologico. Egli cioè lascia fuori dalla sua costruzione tutto quello che non si adatta alla fredda architettura delle astrazioni o non rientra nei requisiti di coerenza e correttezza dei concetti esplicativi. Questo in molti casi preserva il filosofo dalle confusioni del pensiero comune, ma in molti altri non lo salva dall'estrema aridità delle sue elucubrazioni. Per tale ragione molti filosofi sono soliti accompagnare le loro teorizzazioni a un buon repertorio di esempi, di aneddoti o di storie che le possano rendere più accattivanti. Ma uno stile così, più vivace, non  cambia la sostanza del nostro discorso, anzi la avvalora ancor di più. L'esistenza di uno stile teoretico così fatto apre il campo a una serie di questioni che vanno ben oltre lo stile stesso, ed entrano nel cuore stesso della teoresi, nel nocciolo della sua funzione esplicativa, proponendone una sua variante. Perché una cosa rimane sicura: il fine del teoreta è sempre e comunque quello di spiegare, mentre quello del teopoieta, che in queste pagine si tenta di tratteggiare e definire, è ad un tempo di spiegare ed esprimere, con l'occhio sempre puntato sulle possibili sfasature di un processo rispetto  all'altro, su come in altre parole la spiegazione possa tradire l'espressione o quest'ultima falsare completamente la prima.

Adesso vediamo che cosa egli scarta, partendo da una distinzione ormai classica: fenomeni e noumeni.

Questi ultimi, nella filosofia kantiana, non sono raggiungibili per via intuitiva o categoriale ma esistono, e se esistono saranno inevitabilmente costitutivi del mio sentire e del mio pensare. Il singolo Io, per il solo fatto di essere, vivere e apparire agli altri, è noumeno. Ogni essere vivente sente di essere non una vuota parvenza ma una cosa in sé, un fondamento di vita profondo e inoppugnabile, anche se non può dirlo con gli strumenti della razionalità. Sente per l'appunto, sebbene non possa dimostrarlo e spiegarlo. È un senso profondo a dirci ciò, che si aggiunge agli altri cinque più comuni da cui zampilla la scienza. È quel sentire che permette ad ogni uomo di fondarsi come individuo in grado di percepire la propria fenomenicità, il proprio esserci, dotato di volontà,  desideri, speranze e progetti, accanto ad altri individui che lo riconoscono allo stesso modo perché vi si riconoscono. Ed è sempre questo sentire ciò da cui non si può prescindere in qualunque teoresi, che la costituisce necessariamente.

Un'obiezione che si può fare a Kant consiste nel rilevare che non si può ammettere l'esistenza dei noumeni e poi tralasciare l'influenza di questi sulle rappresentazioni. Bisogna prenderla in considerazione. Va bene che di essi non si può "parlare", ma lascia molto perplessi il fatto che i livelli più fondamentali della realtà non si possano ritrovare nell'attività di rappresentazione. Che cosa mai si rappresenta la coscienza se può prescindere dal suo sentire? Niente. È naturale perciò che non ne prescinda affatto ma ve lo includa, più o meno esplicitamente. La mia rappresentazione del mondo può essere più o meno lontana dal sentirmi vivo in me stesso, come noumeno, e quando lo è troppo produce degli svuotamenti di significato anche all'interno delle varie forme del rappresentare e del conoscere.

Tenendone conto, invece, occorre ammettere che ci sono due volti della rappresentazione trascendentale: uno più vicino all'in sé che tutti siamo, che tutti possiamo sentire, e un altro più lontano. Quanto più un fenomeno viene spinto verso la punta massima della sua dimensione categoriale, tanto più esso si fa astratto e lontano dalle cose in se stesse. C'è allora immancabilmente una rappresentazione avvicinante, che valorizza il noumeno di ognuno, base e fondamento di tutto, nonché tutta la sfera del pre-categoriale, ed è quella che spinge ad una rappresentazione espressiva, al per sé più vicino al nostro sentire, e quindi, nella misura in cui il sentire è già noumeno, rivolge la mente verso l'in sé. Ma se il noumeno si fa sentire, e può entrare a far parte del singolo percepire e rappresentare, è ancora il caso, secondo la terminologia kantiana, di chiamarlo con questo nome, o non sarà più giusto eliminarlo ed usare quello di fenomeno radicale di vita, più profondo, senz'altro diverso da quello dei fenomeni legati ai cinque sensi ordinari, ma sempre fenomeno? La risposta dice senz'altro di sì. La coscienza ha sempre a che fare con fenomeni, ovvero con processi che si manifestano col suo diverso sentire, col suo diverso intuire. Le rappresentazioni non sono altro che risonanze del "profondo", sull'onda del quale esse cavalcano gli innumerevoli intrecci e deduzioni della logica formale e trascendentale.

Questi due aspetti della rappresentazione umana convivono in ogni viva esperienza, sono ogni esperienza, e toglierne o privilegiarne uno a scapito dell'altro vuol dire operare uno scarto. E adesso qualcosa di più sull'aggettivo fenomenologico che vi abbiamo attaccato...

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