II. PENSARE E PENSARE PER CONCETTI

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La coscienza non è la condizione perché si dia un mondo, 

bensì la condizione affinché,

attraverso la sfera del sentire e del pensare,

 se ne viva e se ne rifletta uno.

1. La coscienza pura

È convinzione comune di tutti gli uomini che esista un io in ogni persona, anzi che la persona è proprio quell'io particolare che fa esperienza del mondo. Io scrivo questa pagina, e non un altro. Sono io che prendo le multe in divieto di sosta, e non il mio vicino di casa. Sono io che pago le bollette del telefono, e non lui; sebbene anche lui le sue. Io mi affatico a dipanare il filo spesso contorto della mia esistenza, che sarà ad esempio diverso da quello del mio amico Francesco. Il centro della mia storia e dei miei atti è una identità che mi porto dietro sin dalla nascita, con tutte le sue predisposizioni o chiusure, le sue forze e le sue debolezze. Certo si può anche mettere in discussione questo nucleo fondamentale della vita di ognuno e farlo svanire nel nulla, così come si può mettere in discussione qualsiasi cosa nella vita. La scure dello scetticismo e del nichilismo possiamo usarla in qualsiasi momento ed essa non risparmia niente e nessuno, nemmeno il cinguettio dei passeri. E comunque lo facciamo, per esercizio dialettico o per necessità di mettere alla prova la nostra capacità critica. Ma poi, una volta fatta piazza pulita di tutto, nel momento in cui meno ce l'aspettiamo, salta fuori una voce e ci dice: "questo sei tu!". Ci guardiamo allo specchio e diciamo, in verità un po' avviliti dopo la fatica della scure: "sì, quello sono io; io e nessun altro!". E allora l'aver prodotto tanto scompiglio è servito solo a farci capire che c'è qualcosa di inevitabilmente incancellabile nell'uomo, il suo Io. Un Io con due attributi primari: il pensare e il sentire. Cartesio non avrebbe dovuto dire soltanto penso dunque sono, ma anche sento dunque sono; intendendo con ciò il sentire cosciente, non quello di un segnale che passa dalla periferia al cervello. Un uomo in coma ha il passaggio del segnale ma non sente.

Tuttavia l'aver concluso che esiste un Io che sente e pensa in modo del tutto unico e particolare è cosa ben diversa dall'aver stabilito che cosa esso sia. Si presume che il nostro modo particolare di sentire e pensare si distingua nettamente da quello del nostro vicino di casa, altrimenti non è più nostro e non è particolare. Sarà magari quell'altro sentire e pensare che è comune a tutti, che ci dice quanto costano oggi i computer o i broccoli, come funziona il secondo principio della termodinamica o il teorema di Pitagora, ma esso non ha niente di specificamente nostro. Invece è proprio il nostro che cerchiamo, quella particolare modalità che contrassegna sentimenti e pensieri allo stesso modo in cui la nostra andatura caratterizza i nostri passi e la nostra espressione i nostri gesti o i movimenti del volto. Così, per scoprire chi siamo, dobbiamo andare a cercare quali sono le nostre differenti reazioni di fronte alla realtà che ci circonda; realtà che è una e invariabilmente quella, ma i cui modi di percepirla variano appunto a seconda delle persone che ne fanno esperienza. E non è impossibile, per quanto resti sempre una ricerca senza fine: a forza di esperienze si impara sì a capire come si è fatti, ma solo un passo alla volta, lentamente e infinitamente. 

Dopo aver detto ciò il discorso sull'Io si potrebbe anche chiudere, se non sorgesse un'altra domanda con la rispettiva ed inevitabile esigenza di risposta: "Se io sono qualcosa di particolare che sente e pensa, sarò anche qualcosa a prescindere da ciò che viene sentito e pensato? Il mio essere ha una sua indipendenza rispetto alla realtà? E se sì, che sembra ovvio, in che cosa essa consiste?". Le risposte a queste domande sono quelle che secondo noi fanno nascere il famoso problema dell'Io puro. Simili domande, anche se legittime, sono destinate a rimanere senza risposta. Si può anche provare a dimostrare che l'Io puro è quello che contempla le Idee o le essenze nella loro limpidezza o purezza, ma ciò che questo significhi davvero è molto difficile da capire. C'è un alto livello di incomprensibilità nel processo che porta alla contemplazione delle essenze, il che lascia il processo stesso avvolto nel più profondo mistero. Quello che vale per l'Io puro vale per tutta la dimensione trascendentale, la quale rimane fondamentalmente misteriosa. A nostro avviso si può dire solamente che la pura coscienza transcendentale esiste e noi ne facciamo esperienza attraverso il nostro sentire e pensare, ma spiegarla no; a meno che non si voglia scendere a livello di fisiologia cerebrale o di psicologia empirica. Ma questo sarebbe un altro tipo di indagine rispetto a quella fenomenologica, alla quale inevitabilmente si collega il nostro discorso sulla Teopoietica.

Viceversa è molto più facile spiegare e dimostrare le condizioni che permettono l'io puro, cioè quegli stati particolare del nostro essere in cui la spontaneità di una visione eidetica o la concentrazione su un'essenza ci permette di capire un qualcosa sul quale in altri momenti non facciamo altro che affaticarci. Ebbene questa concentrazione dell'anima, questa spontaneità eidetica è quella che conta veramente in un'indagine sulla purezza dell'Io. Essa, che consegue alla "messa tra parentesi del mondo" e conduce alla "riduzione" studiate in Fenomenologia, è ciò che importa veramente. In una prospettiva del genere il problema dell'Io puro si trasforma nell'esigenza di un Io raccolto, concentrato e spontaneo. Si potrebbe anche chiamarlo Io veggente o illuminato, con una formula che evoca la meditazione degli asceti buddisti. Di questo Io o della purezza dei fenomeni che in esso si presentano è più facile parlare, perché ognuno di noi sa bene cosa vuol dire.

A questo punto allora le questioni centrali divengono la condizione per la purezza dei fenomeni che si presentano all'io e la strategia per realizzare tale condizione, non più il problema di che cosa sia un io puro. La purezza dell'io non ci interessa più, mentre attira la nostra attenzione quella dei fenomeni che nell'io si manifestano. In fondo Idee per una fenomenologia pura significa forse proprio quello: idee per una purezza dei fenomeni della coscienza. Una volta stabilito questo, anche la seconda parte del titolo della principale opera husserliana si trasforma; perché l'attenzione alla purezza dei fenomeni comporta la necessità di scoprire come deve essere una filosofia che voglia insegnare tale purezza, come deve muoversi, la sua dinamica di approccio alle cose. Ebbene il suo movimento interno schiude l'orizzonte di una particolare fenomenologia filosofica: il suo voler essere una filosofia fenomenologica ci conduce all'obiettivo correlato e in definitiva prioritario di una particolare fenomenologia filosofica. Il suo essere in quanto fenomenologia sta nel suo modo di costituirsi, di farsi, e da questo modo di farsi non può essere scissa. È su questa fenomenologia della costituzione filosofica che la Teopoietica mette l'accento in modo particolare, nella consapevolezza che la strategia di un modo fenomenologico di fare filosofia sia altrettanto importante di una teoria fenomenologica in quanto tale. Proiettandosi verso gli innumerevoli orizzonti del fare e delle sue strategie, il vedere stesso si esplica e si chiarisce. Il theoréin si delinea più nettamente nelle condizioni atte a costituirlo. Attenzione però: esso si può anche ottenebrare, se si concede più del dovuto a questo momento. Ovviamente quello che qui abbiamo detto riguarda una teoresi teopoietica, cioè una teopoiesi, che è importante ma non è l'aspetto peculiare della Teopoietica. Essa, in accordo coi principi esposti nella terza pagina di questo sito, è innanzitutto un'attività narrativa e poetica complementare a qualsiasi teoresi, e tale deve continuare a essere.

 

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