I. IL PROBLEMA E I PRINCIPI


 

Per fare il punto su tutta la questione

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Un modo globale di fare filosofia

La Teopoietica è dunque una proposta potenzialmente ricca di fertili sviluppi in ogni frontiera dell'umana ricerca, su cui diciamo adesso qualcosa di più preciso. 

Essa si colloca all'incrocio di tre grandi indirizzi di pensiero del nostro tempo: quello fenomenologico, quello positivista-analitico e quello esistenzialista. A tutti e tre essa attinge, apportando con cautela delle correzioni e degli aggiustamenti, per costruire una visione più unitaria e armonica dell'uomo e del mondo. Innanzitutto qualche considerazione (estremamente povera rispetto alla ricchezza e alla complessità dell'argomento) per quanto riguarda il primo, la Fenomenologia.

Il grande pregio della Fenomenologia è quello di aver messo in evidenza come la vita dell'uomo si riduca alla dinamica interiore delle essenze eidetiche, alla capacità della mente umana di coglierle, coltivarle ed esprimerle. Una vita povera dal punto di vista eidetico è una vita scialba, insignificante, piatta, per quanto essa possa essere ricca di conoscenza positiva di qualsiasi genere. Ora le sole vie possibili per dare luce all'universo delle essenze e dell'interiorità sono l'epoché e la riduzione fenomenologica: la prima ha la funzione di sospendere l'atteggiamento naturale, di metterlo tra parentesi, la seconda di schiuderne il senso risalendo alla sua origine e alla sua fonte. E fin qui il percorso husserliano (che richiama quello di altri grandi pensatori che hanno battuto la medesima strada come Cartesio) è di straordinario fascino ed efficacia. L'allontanamento dall'atteggiamento naturale, però, comporta a lungo andare anche un affievolirsi delle essenze, un loro annebbiarsi, perché noi siamo nonostante tutto (e diremmo fortunatamente) costituiti anche di natura: l'atteggiamento naturale ci è proprio tanto quanto l'atteggiamento eidetico. La filosofia è costretta a ritornare di continuo al mondo naturale per rinverdire e risvegliare le essenze stesse. Tuttavia essa fa ciò col collo storto, malvolentieri, poiché al fondo vi è sempre l'implicita convinzione che la natura sia di un gradino più bassa rispetto alla coscienza. 

La dimensione naturale, dice implicitamente il filosofo che opera la riduzione e l'epoché, è priva di valore se non viene illuminata dalla coscienza. Secondo noi, il punto critico della fenomenologia è soprattutto qui; ed essa lo condivide con tutta la filosofia moderna, specie da Cartesio in poi. Se nel mondo antico la Natura era un tempio sacro che partecipava dell'ordine divino e delle idee (la metessi platonica ne è un esempio), nel mondo moderno è divenuta bruta oggettualità che si riempie di senso solo attraverso la meditazione dell'uomo: il suo essere sta nell'esser percepita e indagata dalla mente dell'uomo e secondo le modalità dell'Io trascendentale. L'argomento forte è ancora qui il cogito di Cartesio prima (il pensiero che fonda l'essere) e poi più avanti quello successivo con Berkley: esse est percipi. Entrambi gli argomenti sono forti, ma hanno avuto l'effetto di mettere in ombra l'altro argomento altrettanto forte: che niente potrebbe essere pensato o percepito se non fosse già pronto a farsi pensare e percepire. La coscienza fonda l'essere nella stessa misura in cui l'essere fonda la coscienza. Il mondo della natura salva la coscienza così come la coscienza salva il mondo della natura. Se c'è qualcosa di essenziale nella coscienza, vi è parimenti qualcosa di essenziale nella natura. La natura ha un'anima anch'essa, una sua interiorità che non va soffocata né misconosciuta. Per fare un esempio basti pensare alla bellezza di un paesaggio o di un fiore al suo dischiudersi. Non c'è bisogno di alcuna riduzione per coglierla; essa è lì, è immediatamente data. E se anche c'è bisogno della riduzione, è sempre lì, alla natura e all'atteggiamento naturale, che bisogna tornare per viverla davvero. Rimarrebbe a questo punto molto da dire sulla descrizione fenomenologica, su cui evitiamo di addentrarci al momento per le difficoltà che contiene e per non rendere la presente pagina troppo lunga. Vi diciamo soltanto che secondo noi al termine descrizione andrebbe sostituito quello di narrazione, perché esso è più vicino a un discorso "non predicativo" (l'unico che pare si possa praticare riguardo le essenze) più di quanto lo sia il termine descrizione.

Relativamente all'indirizzo positivista-analitico, va osservato che ha avuto l'indiscutibile merito di riconoscere alla Natura una sua indipendenza dal soggetto, una sua legge, e l'altrettanto indubbio demerito di considerarla qualcosa da manipolare a vantaggio dell'uomo allorché siano state conosciute le configurazioni nomotetiche che presiedono ai suoi fenomeni. Queste leggi, sebbene riformulate attraverso la prospettiva kantiana e gli apporti di tutta la filosofia della scienza contemporanea, rendono la natura un insieme di processi e di meccanismi che si possono montare e smontare come ci pare, a nostro uso e consumo. La natura è passiva, non sente né patisce alcunché, segue le leggi che ad essa sono state assegnate (non si sa bene da chi) e niente di più. Se nel mondo antico esse salvavano i fenomeni nobilitandoli, oggi li condannano ad una ignobile schiavitù. I processi naturali sono sottomessi alla legge, e quindi sottomessi anche all'uomo che si è impadronito della legge carpendone le chiavi e i segreti. Ma che cos'è quest'uomo che analizza, compone e scompone secondo il principio di ragione? È ancora un uomo in armonia col mondo che lo circonda e con se stesso in quanto ente di natura, oppure è qualcosa che si è estraniato da qualsiasi retto sentire, pensare e giudicare? La risposta non è difficile se guardiamo agli effetti perniciosi della scienza e della tecnica sugli equilibri ecologici ed ambientali, per non dire di quelli più nefasti sulla nostra salute psico-fisica. La natura sottoposta al principio di ragione è una natura che si è ridotta a macchina, magazzino e discarica, del cui degrado ci si accorge solo quando viene a turbare l'atmosfera accogliente e confortevole delle nostre case, dei nostri salotti, delle nostre città, oppure quella idilliaca delle nostre campagne. Insomma riconoscere alla natura e alle sue leggi una loro indipendenza rispetto al soggetto significa riconoscere anche una loro sacralità, una loro inviolabilità, la possibilità di un diverso modo di rapportarvisi e un limite al principio di ragione. Significa ridare spazio alla bellezza originaria ed autentica degli enti. Ma questo non è avvenuto, e ancora non avviene. La scienza tratta con dati, misure e fatti, piuttosto che con cose vive…

La filosofia dell'esistenza infine, come ultimo punto di riferimento per la Teopoietica.

Nella "nausea" di Sartre, così come nell'angoscia di Heidegger, vi è un senso di desolazione da cui è difficile liberarsi. L'esistenza si svuota, diviene inconsistente, il nulla si spalanca sotto i nostri piedi. Sono innumerevoli le situazioni della nostra vita in cui proviamo tutto questo. E una volta che sia stato vissuto è impossibile cancellarlo. Compito di ogni filosofia oltre che di ogni vita è quello di indagarlo e circoscriverlo per saperlo fronteggiare, per non lasciarsene risucchiare.

Per concludere, la Teopoietica (che prima di essere una filosofia è un modo di fare filosofia) si propone alcuni obiettivi fondamentali tra cui:

1. essere un'alternativa al tradizionale theoréin, che lascia fuori il vissuto, il Lebenswelt da cui ogni attività teoretica si origina, che noi lo ammettiamo o meno;

2. recuperare la naturalezza e la globalità del pensare, che solo in ultima istanza si trasforma in attività logico-categoriale e di astrazione;

3. mostrare lo sforzo che ogni esistenza fa attraverso il pensiero per sfuggire al nulla che la divora, e quindi nessuna filosofia può esser data senza cogliere lo scacco esistenziale in cui essa si innesta e da cui si origina malgrado tutto.

Questi dunque, a voler schematizzare, sono i componenti elementari dello stile teopoietico: il vissuto, la natura, l'esistenza. Da questi tre punti chiave discendono altre tre conseguenze operative:

1. Chi fa un'indagine teopoietica non può servirsi soltanto del linguaggio logico-analitico e concettuale, ma deve usare la Poesia e la Narrazione come espressività uniche ed insostituibili nell'evocare il travaglio cruciale del vissuto;

2. L'esposizione o la trattazione di una teoria deve richiamare sempre un intreccio naturale di esperienze effettive, in prima persona, o trasfigurate, pena la incomprensione della teoria stessa;

3. Poiché l'esserci è condizione indispensabile di ogni attività di pensiero, una buona teoria non può prescindere dall'evocare le occasioni esistenziali in cui essa è venuta maturando.

Noi, vedete, ci chiediamo ormai da molti anni come si possa chiamare una filosofia dove il theoréin si fonda col poiéin, e non troviamo altra risposta se non nella unione delle due parole. Che tipo di filosofare era quello di Platone con tutti i suoi bellissimi miti? Non era più un pensiero mitopoietico perché non aveva lo scopo di costruire una spiegazione mitica, solo di servirsene. Ma non era nemmeno teoretico, nel senso che questo termine ha cominciato ad avere da Aristotele in poi. Era una via di mezzo tra i due: aveva il compito di fissare una dottrina razionalmente rigorosa della realtà senza perdere il contributo e l'apporto, a volte davvero illuminante ed indispensabile, della sfera non razionale. Questo era, e questo è stato anche dopo di lui con uomini come Boezio, Dante, Petrarca, i mistici medievali e su su fino ai romanzi filosofici del Settecento, alle opere di Goethe e Novalis, del nostro Leopardi, e a molti autori della letteratura contemporanea come Kafka, Mann, Musil, Broch, Sartre, Hesse e Kundera, opere in cui il raccontare e il poetare hanno fatto da supporto indispensabile alle riflessioni filosofiche sull'uomo e sul mondo. Eppure tutti questi che ho citato sono considerati, a parte il caso di Boezio, di Sartre e degli illuministi, piuttosto poeti e narratori che filosofi. Come se la loro filosofia fosse qualcosa di secondario rispetto alla dimensione poetica e narrativa. Essi sono invece a nostro parere dei veri e propri teopoieti. Si tratta solo di concedere al loro peculiare modo di filosofare il valore di una vera filosofia, parallela a quell'altra che suole chiamarsi teoretica.

La teopoietica tuttavia va anche oltre la semplice questione dell'incontro tra due modalità espressive. Essa pone delle nuove domande sulla produttività teoretica. Prima fra tutte quella dell'origine di una teoria. Da che cosa nasce una teoria? Nasce solo da quella potente predisposizione all'indagine razionale che hanno alcuni individui, da quel diavolo nella loro anima che li spinge prepotentemente a spiegare e conoscere o pure da qualcos'altro? E se si tratta soltanto di questa predisposizione, dobbiamo concludere che le condizioni in cui essi vivono sono del tutto marginali e senza importanza? Possiamo prescindere del tutto dalla loro emotività, dai loro sentimenti, dagli incontri che hanno fatto nella loro vita o al massimo considerarli degli accidenti che hanno favorito o ostacolato il decorso dei loro sviluppi teoretici? Che cosa dobbiamo pensare?

 

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