III. CIÒ CHE SAPPIAMO DI NOI

 

1. La coscienza: conoscenza e autocoscienza

Quello che in genere si chiama coscienza non è qualcosa che corrisponde ad un singolo stato della mente, bensì a diversi. Di questi almeno tre presentano un particolare interesse: la coscienza come prendere atto di qualcosa, la coscienza come prestare attenzione a qualcosa e la coscienza come sapere in cosa esso consista. Io posso ad esempio prendere atto di un incidente o di una malattia ma non per questo sono in grado di darne delle spiegazioni. Ogni giorno prendiamo atto di tante cose che ci arrivano attraverso le informazioni quotidiane e di cui non abbiamo conoscenza alcuna o abbiamo una conoscenza molto superficiale. Lo stesso vale per il prestare attenzione, anche se questo è un livello di consapevolezza più alto. Ora la domanda è: in quale dei tre stati viene mobilitato l'apparato trascendentale del soggetto? Certamente in tutti e tre, perché in tutti e tre c'è una appercezione; nondimeno è solo negli ultimi due che si scatena l'intreccio categoriale ed eidetico. È solo in esso che la mente va a cercare quei pensieri che in modo puntuale e rigoroso debbono produrre la conoscenza di un dato fenomeno. La domanda adesso è: dove si trovano quei pensieri, da dove si originano? È l'uomo stesso che li produce e che li ha sotto il suo controllo? Be', qui la risposta non è più tanto certa come nella prima domanda. Qui è lecito nutrire dei seri dubbi.

Se fosse l'uomo stesso a creare quei pensieri, essi dovrebbero nascere facilmente in tutti gli uomini, visto che è molto difficile, se non impossibile, distinguere tra l'apparato trascendentale di un individuo e quello di un altro. Eppure i fatti smentiscono questa ipotesi. Molti uomini non hanno avuto, sebbene si siano trovati in condizioni simili, i pensieri di Kant, di Husserl o di Einstein. E tutti indistintamente non possono decidere cosa pensare così come non si decide cosa sognare. I pensieri vengono non si sa da dove e non si sa per chi. Perfino le condizioni che permettono il loro venire alla luce sono avvolte in una certa oscurità. Ad alcuni uomini sono venuti dei pensieri risolutivi nei momenti più strani e quando meno se lo aspettavano. Ne sono una testimonianza la famosa mela di Newton o l'anello del benzene di Kekulé. Naturalmente molti dicono che sono delle leggende. Va bene. Anche ammesso che lo siano, rimane sempre il fatto che la spontaneità di un pensiero non può essere controllata da ciò che chiamiamo coscienza. La coscienza può dirigere l'attenzione su un fenomeno, tenere vicino o lontano un pensiero dopo il suo originarsi, sbloccare o inibire un impulso, un desiderio, ma non può crearli. Essi sono, certo, da qualche parte, forse in noi, forse fuori di noi, forse in un mondo a parte, forse in un iperuranio o nella mente di Dio che ce ne fa grazia, ma rimangono seri dubbi sul fatto che siano un tutt'uno con l'apparato trascendentale del soggetto. Esso è lo strumento atto a recepirli, a captarli, a elaborarli, ma non a farli nascere da zero. Forse c'è una dimensione immateriale invisibile con cui sono impastate tutte le cose, i pensieri appunto, le essenze spirituali, e la nostra mente non fa altro che collegarsi con questo vario ed infinito cosmo.

Che cosa dunque possiamo dire di sapere della dimensione trascendentale, della coscienza e di questo io-penso? Ben poco. Possiamo dire che le entità trascendentali sono il centro di ogni nostra asserzione, quasi dei postulati della ragione teoretica, così come l'io-voglio e la libertà sono postulati della ragion pratica. Ma da ciò non discende che ne abbiamo conoscenza. E per quanto riguarda l'io-penso come autocoscienza, e non come elemento base dell'apparato trascendentale, bisogna sottolineare anche un altro aspetto molto importante.

Se la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, così come vuole il principio dell'intenzionalità, l'autocoscienza non è in primo luogo un pensiero ma un sentire. Vediamo di spiegare.

Pensare qualcosa significa in genere pensare qualcosa di diverso dal soggetto stesso, specie se in un dato momento il soggetto pone attenzione ad un fenomeno o è concentrato su un'azione. Il soggetto può pensarsi pensante mentre pensa qualcosa in un momento successivo all'atto stesso: nello stesso momento in cui pensa qualcosa non può pensarsi. Se penso qualcosa, allora non penso me stesso. Al contrario il soggetto può sentire di pensare qualcosa nello stesso momento in cui lo fa, così come sente i movimenti delle braccia mentre nuota. È questo sentire cosciente che in un istante successivo più o meno lontano si trasforma attraverso la memoria in solo pensiero. È come se il soggetto dicesse: «Caspita, mi ricordo di aver pensato "quella cosa lì", quindi io sono un essere pensante». Alla Cartesio, egli direbbe: «Penso, non ho dubbi, quindi sono un essere pensante, ma soprattutto questo essere pensante dimostra inequivocabilmente il mio stesso essere e l'essere delle cose intorno a me in quanto contrapposte al pensiero». Ma la certezza di quel pensare è un sentire, di cui non c'è più traccia nel procedimento cartesiano. Una parte fondamentale del processo viene saltata a piè pari come se non fosse importante, mentre è essa che avvalora tutto il resto. Qui, poi, il tentativo di cogliere, sempre attraverso il ricordo e la memoria, tutti gli aspetti e le caratteristiche di ciò che significa "pensare qualcosa" e "pensarsi come pensante qualcosa" butta definitivamente il fenomeno del sentire nell'oblio.

Riassumendo allora, io posso trasformarmi in oggetto di pensiero cosciente solo attraverso il ricordo e la memoria. Nel momento stesso in cui penso,  invece, posso solo sentirmi coscientemente pensante ma non pensarmi. Quindi l'io-penso è un sentire. Io penso significa inizialmente io sento di pensare e dopo nel ricordo io divento oggetto del mio pensiero. A voler far coincidere inoltre il pensare e il pensarsi senza il ricordo, si andrebbe incontro alla contraddizione del regressus ad infinitum. Ogni io che si pensa ne richiederebbe un altro di ordine superiore per essere "oggetto di pensiero". Un uomo sente presentemente il proprio pensare così come sente l'acqua fredda sulla pelle o il movimento delle gambe mentre cammina. È una percezione immediata, automatica, che solo dopo, nel momento successivo al suo verificarsi, momento che può essere vicinissimo o lontanissimo, si trasforma in puro pensiero, in pensiero astratto.

Adesso la questione: io empirico, particolare, e io puro universale. Anche qui le acque della filosofia sono da sempre molto agitate e forse non ci sarà mai il modo di rasserenarle. Comunque... Le domande qui sono due. La prima: come può la spiegazione di un singolo fenomeno essere estesa a tutti gli altri fenomeni non presi in considerazione e divenire universale? La seconda invece è: come può una conoscenza di un individuo particolare divenire comprensibile e condivisibile per tutti? Se la conoscenza fosse solo una conquista individuale, non dovrebbe finire relegata nel solipsismo? A voler negare l'universalità del conoscere, sia per quanto riguarda il soggetto che l'oggetto, si avrebbe come conseguenza inevitabile il solipsismo o lo scetticismo estremo. Il portato di verità del conoscere svanirebbe nel nulla: ognuno si racconterebbe la propria storia, ognuno si costruirebbe la propria verità e si finirebbe nel relativismo degli antichi sofisti. Ora, per uscire dall'impasse, si può seguire la strada di Kant o quella di Husserl ma vi sono anche altre possibilità. È sempre giusto fare altre speculazioni finché non si arriva a qualche soluzione "definitiva". Ad esempio, per quanto riguarda Kant, si può dire che ogni nostro modo di conoscere le cose è anche un modo di darsi a conoscere delle cose (modi che sono infiniti), e accettare questo principio come un postulato per ogni indagine razionale. Poi si può aggiungere che negli uomini come nelle cose vivono invisibilmente ed immaterialmente tutte le idee e tutti i pensieri possibili e immaginabili. Quando un uomo parla non fa altro che risvegliare nei suoi simili ciò che in implicite esiste già in loro. La comprensione condivisa non è altro che un passaggio dall'universo dell'implicito al mondo dell'esplicito. E per quanto riguarda Husserl si può dire che l'uomo raggiunge delle visioni essenziali perché la natura è già veicolo di essenze. All'uomo spetta solo il compito di individuarle attraverso una mente raccolta e contemplativa, che include automaticamente in sé la sospensione dell'atteggiamento naturale e dei giudizi correnti. Ecco, questa potrebbe essere una speculazione alternativa in grado di salvare l'idealismo razionalistico e i procedimenti empirici della conoscenza. Sarebbero delle proposte che avrebbero delle illustri ed approfondite anticipazioni nel pensiero di Platone, di Spinoza e di Leibniz. E non si capisce perché le loro risonanze si siano affievolite nel corso del tempo e nello sviluppo della filosofia contemporanea.

 

 

AVANTI

 

INDIETRO