II. PENSARE E PENSARE PER CONCETTI

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4. Narrazione fenomenologica e specificità della filosofia

 

Quanto fin qui è stato detto riporta in primo piano l'esigenza, già più volte prefigurata in queste pagine, di una interezza del processo conoscitivo dell'uomo. Conoscere non significa più soltanto descrivere essenzialmente delle oggettività fenomeniche, bensì rendere visibile l'intricato processo delle condizioni all'interno del quale il processo stesso si verifica. Conoscere significa mostrare il terreno in cui una visione essenziale nasce, si sviluppa e giunge a compimento.

Il teoreta che vorrà mostrare tutto ciò dovrà allora trasformare la descrizione fenomenologica in una narrazione fenomenologica. Egli dovrà in questo modo impegnarsi a dare una risposta a tutte quelle domande che si incrociano con la sua vita teoretica. Come e perché si viene in possesso di un'idea? Come e perché si arriva a formulare una teoria? Quali sono le condizioni, i limiti e le possibilità esistenziali, materiali e mentali che conducono allo stato nascente di quel processo che sfocia nella sistemazione del pensiero in concetti ben articolati, ipotesi, spiegazioni e interpretazioni del mondo, della natura e dell'uomo?

La risposta a tutte queste domande comporta necessariamente una prospettiva di indagine in cui il mondo teoretico si pone insieme al suo fare, al suo creare, al suo poiéin. Il racconto di come egli sia riuscito ad elaborare le sue teorie, a portarle a termine, diviene così l'apertura di un intricatissimo universo di grande interesse filosofico: quello che oggi si usa definire come pensiero poetante o come poesia pensante. Se lo scopo della fenomenologia era, nell'intenzione di Husserl, riportare la filosofia e perfino la scienza al mondo della vita, allora questo passaggio dalla descrizione alla narrazione si rende necessario ai fini di avere buona filosofia e buona scienza. O forse sarebbe meglio dire in prospettiva. Infatti, questa fusione, auspicata dalla teopoietica, tra descrizione e narrazione è solo la speranza di un nuovo corso per avere buona filosofia e buona scienza. E adesso qualcosa sulla filosofia e le essenze.

 

Se la visione delle essenze è indispensabile al procedere di ogni conoscenza, la filosofia non è scienza di essenze non più di quanto lo siano la geometria o l'aritmetica, la fisica o la genetica. Il discorso husserliano delle essenze è un discorso giustissimo, ma nel senso che la filosofia si fonda sulle essenze così come ogni scienza. Senza le essenze e la corrispettiva visione essenziale, semplice e complessa di un fenomeno, nessuna filosofia e nessuna scienza sarebbe possibile. Non solo nessuna filosofia o scienza, bensì nessun metaracconto o interpretazione del mondo, sia dal punto di vista dell'esserci che del tradizionale essere. E questo in buona pace della filosofia heideggeriana e della sua ramificazione italiana nel cosiddetto pensiero debole. Che la filosofia o le altre scienze abbiano il compito di dirci come stiano le cose relativamente ai fenomeni che prendono in considerazione, ci sembra fuor di dubbio. Di che cosa pretendono parlare se non della verità di ciò che esaminano? Caso mai il problema è lì, nel tipo di discorso: teoretico o teopoietico. Il primo è un discorso che esclude l'esserci di colui che lo pratica, il secondo invece ve lo include, lo rende parte integrante del processo, ve lo lascia fluire, lo temporalizza. Ecco, è questa la differenza tra un pensiero vivo e un pensiero morto, tra un pensiero che vuole essere autenticamente offerente di verità e uno che al contrario vuole allontanarsene e rimanere soltanto nella dimensione combinatoria e inferenziale dell'infinito scacchiere dell'eidos.

 

Ma se la filosofia è una scienza come tutte le altre, e come tutte le altre può essere più o meno viva, può fare uso di un per sé avvicinato o allontanato, così come si è detto nelle pagine precedenti, rimane sempre il compito di stabilire il campo di indagine del filosofo, la specificità del discorso filosofico rispetto a quello delle altre scienze. Di quali fenomeni si occupa dunque il filosofo?

Per rispondere a questa domanda, bisogna considerare, così come fa a volte il senso comune, che il discorso filosofico nasce nel momento in cui si prende in esame qualche fenomeno da un insolito punto di vista, da un punto di vista radicalmente differente rispetto ai punti di vista delle altre indagini della realtà, strutturate o meno in protocolli e procedure consolidati e condivisi. È filosofo colui il quale pone un interrogare differente su ciò che ci è dato. Questa capacità di indagare un mondo fortemente differenziale ci sembra la specificità di ogni discorso filosofico. La filosofia è dunque indagine razionale dei fenomeni dell'universo differenziale. Cosa vogliamo dire con questo? Vogliamo dire semplicemente che se nel corpo di un fenomeno più o meno noto si innesta la variante di un punto di vista abbastanza insolito, allora tutto quello che ne consegue fa parte a buon diritto di una indagine filosofica. E quando questa indagine non sarà più insolita o meglio comincerà a strutturarsi, diverrà l'indagine di una scienza specifica, di una nuova scienza per così dire.

Insomma, per dirla in breve, il differenzialismo è l'anima di ogni pensiero filosofico. Ad esempio, quello che noi qui andiamo dicendo è filosofico perché porta una discontinuità differenziale rispetto alle correnti di pensiero già esistenti ed accreditate. E così è stato nella tradizione tutte le volte che un filosofo ha inteso indagare in una direzione differente rispetto ai punti di vista già esistenti. Il passaggio dagli antichi filosofi della natura a Socrate non è stato forse una discontinuità differenziale? E quello da Socrate a Platone o da Platone ad Aristotele è stato forse diverso? È stato diverso il passaggio dall'idealismo tradizionale alla fenomenologia di Husserl? C'è una discontinuità differenziale anche quando un bambino chiede alla mamma se il sole non si stanca di levarsi ogni mattina o dove è andata adesso la nonna che è morta. Discontinuità differenziale è stato Kant rispetto al razionalismo e all'empirismo precedenti, Newton rispetto al meccanicismo secentesco o Einstein rispetto alla fisica di Newton.

La discontinuità differenziale più tipica è comunque quella dei bambini. Le battute qui sotto riportate ce lo ricordano in modo evidente.

 

- Mamma, perché le persone grandi si stringono la mano quando si incontrano?

- Perché sono amici.

- Cosa vuol dire essere amici?

- Essere amici… vuol dire essere contenti di stare insieme e volersi bene.

- Allora tu e papà non siete amici.

- Perché?...

- Perché non vi stringete mai la mano quando vi incontrate.

- Gli amici si stringono la mano se si incontrano di tanto in tanto. Se si incontrano tutti i giorni non lo fanno più, ma si vogliono sempre bene e sono contenti di stare insieme. Io e papà stiamo sempre insieme…

- Allora con la signora Giulia qui di fronte tu e papà non siete amici.

- Sì che lo siamo. Perché?

- Perché non vi incontrate tutti i giorni, non state quasi mai insieme e quando vi incontrate non vi stringete mai la mano.

- Già, è vero; ma siamo lo stesso amici.

- Lo stesso?

- No, non lo stesso. Non lo so… Ci penserò e poi te lo dico. Adesso, però, preparati che è tardi e devi andare a scuola.

 

Ecco, certe domande dei bambini, forse di tutti i bambini, tentano di uscire dal mondo comune, scontato, per entrare nel mondo differenziale. Gli enti del mondo differenziale possono essere una infinità, e tutte le volte che li si indaga si fa un’indagine filosofica. La mitologia antica, le ricerche dei presocratici, la metafisica di Platone o di Aristotele che cosa sono state se non lo scatenarsi di una ontologia differenziale? Quest’altro esempio ancora, sempre preso dal mondo dei bambini, può essere illuminante.

 

- Mamma, chi ha messo tutte quelle stelle nel cielo?

- Chi le ha messe?... Non so, qualcuno le ha messe…

- Le ha messe così, come tu metti le stelle sull’albero di Natale…?

- Forse, non so… Magari chiediamo a Babbo Natale la prossima volta che viene a portarci i regali.

- Eh sì, lui sa tante cose dei desideri di noi bambini… e di certo saprà anche quello.

 

Ecco potremmo andare avanti a non finire su quelle situazioni e stati d’animo che fanno scaturire un’indagine non comune su enti comuni che entrano così a far parte dell’ontologia differenziale. Quando questi enti rientrano nell’ontologia comune, o perché vengono strutturati all’interno di un’indagine scientifica o semplicemente perché l’uomo smette di farsi certe insolite domande, allora finisce l’indagine filosofica, ne cominciano altre o non ne comincia nessuna e si considerano gli enti nel modo più consueto, comune, senza più interrogarli in modo filosofico.

 

Quello che qui stiamo dicendo comporta che le partizioni classiche della filosofia in morale, estetica, teoretica, politica eccetera sono a nostro avviso inutili. Basterebbe soltanto una Filosofia generale, legata allo sviluppo storico e ai differenti punti di vista dei vari pensatori, e una Filosofia onto-regionale, legata alle riflessioni nei vari campi dell'essere e dell'esistere. Nient'altro.

 

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