II. PENSARE E PENSARE PER CONCETTI

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Un fenomeno si dà sempre in una trama

di altri fenomeni, ai quali esso è legato

in una unità intricata e indissolubile.

3. Lo scarto fenomenologico — parte seconda

Col discorso appena fatto abbiamo riguadagnato la distinzione delle due facce del soggetto trascendentale in modo diverso rispetto alla classica distinzione kantiana, che vedeva da una parte i fenomeni e dall'altra, irraggiungibili, i noumeni. Adesso ci troviamo di fronte soltanto a fenomeni di superficie e fenomeni profondi, i primi che si adattano al per sé allontanato e i secondi al per sé avvicinato. La correzione terminologica è importante per quel tanto che ci porta a rivalorizzare di una modalità di rappresentazione che era stata assimilata sic et simpliciter alla vaga rappresentazione di un punto limite del pensiero, mentre in realtà è rappresentazione di ciò che si manifesta in profondità e che è sempre presente in ogni attività della mente. L'apparenza non si esaurisce nell'apparire ma rimanda ad altro apparire, sempre contingente e distruttibile, epperò più nascosto. I veli dell'apparenza si sfogliano quasi come i veli di una cipolla. L'esplorazione della conoscenza passa di continuo da strati superficiali a strati più profondi, senza raggiungere mai un termine che metta fine al viaggio. Forse l'errore di Kant consiste proprio nell'aver tralasciato questa possibilità di sfoglio infinito, o forse nel non aver voluto accettare che il passaggio dalla superficie al mondo sommerso potesse non avere fine il noumeno doveva essere per lui solo l'estrema frontiera che trattenesse il pensiero dal suo naufragio. Ciò che a questo punto non si manifesta davvero, il noumeno in senso kantiano o un possibile altro ente, comunque lo si voglia chiamare, anche se dovesse esserci è del tutto inoperante e radicalmente inesprimibile e indicibile, perché esso non provoca ripercussione alcuna sul nostro vario sentire e percepire, sulla nostra coscienza e quindi sul nostro rappresentare, qualunque esso sia.

La conclusione appena toccata ci riconduce allora nel grande cammino inaugurato dal pensiero di Husserl, che ha cercato di chiudere la forbice tra fenomeni e noumeni, tra trascendentale e trascendente, facendo capire che non ha senso parlare dell'apparire ad esempio delle cose udibili o odorabili per contrapporlo al loro in sé. Può avere senso per la vista, ma quando si afferma che una cosa è diversa da come appare visibilmente, si ammette implicitamente che essa sia raggiungibile o esprimibile in qualche modo. La liquidazione della distinzione operata da Husserl è stata quindi, dal nostro punto di vista, una conquista molto importante, anche se spesso fraintesa e misconosciuta. Per la coscienza non si danno altro che fenomeni, realtà vera e non apparente, perché la coscienza è soprattutto consapevolezza del sentire fenomenico. Una coscienza che non avesse più alcun fenomeno cui rivolgersi verrebbe a cadere anche come coscienza e come intelligenza.

Tuttavia anche a quest'ultima conquista si deve muovere una critica correttiva, che riguarda l'aver trascurato la differenza tra la manifestazione profonda e quella meno profonda o di superficie, per cui lo scarto della pagina precedente diventa nella giusta prospettiva aperta da Husserl fenomenologico. Se noi non captiamo l'apparenza delle cose ma le cose stesse in quanto fenomeni, è anche vero che si danno diversi livelli di fenomenicità. Ciò che si chiamava realtà e apparenza con una terminologia kantiana, non è altro che una diversa manifestazione dell'essere: una più profonda e un'altra meno, una più vicina alla radice vitale dell'essere e una più lontana. Ed ecco la correzione che va fatta a nostro avviso alla riflessione husserliana.

Abbiamo detto che la coscienza è soprattutto consapevolezza del sentire fenomenico, ma adesso vogliamo ricordare che la qualità fondamentale di questo sentire, cioè lo scorrere, il fluire, che trova il suo rispecchiamento nel concetto di temporalità, nello snodarsi della tensione tra presente, passato e futuro — a volte opprimente e frustrante come succede nella Cura —, e nell'idea più ampia del vorticoso mutamento delle cose tutte, è sostanzialmente teopoieticità, ovvero sviluppo narrativo e poetico più rappresentazione. Questo aspetto, già sottolineato nelle pagine iniziali, comporta subito una domanda: qual è la parte della coscienza che tende a fissare il fluire stesso; a riconfigurare il mutamento come il trapasso continuo di stati discreti in altri stati discreti, da ritagliare da tutto il processo del divenire e considerare a parte? E non ci sono altre risposte: essa è l'astrazione, che si serve di entità immobili, pietrificate nelle idee, nei concetti e nelle concatenazioni causali, ed è in conflitto perenne con l'altra, quella più consistente, più processuale e magmatica che abbiamo fatto coincidere col sentire fenomenico. In quale di queste due parti rientra la sfera eidetica di cui parlava Husserl? Nella prima o nella seconda? Si potrebbe rispondere che rientra in tutte e due, e sarebbe corretto; però allora per quello che rientra nella prima parte essa andrebbe ridefinita come rappresentazione espressiva, e con un linguaggio diverso da quello che si adatta alla seconda, regno della rappresentazione intellettiva. Ora non ci risulta che questo sia stato fatto, se non nelle opere dei poeti, dei romanzieri, e di qualche filosofo-poeta, dove la rappresentazione fenomenica è intellettiva ed espressiva allo stesso tempo, e include sia l'intuizione eidetica che quella sensibile. La famosa riduzione eidetica della riflessione husserliana si riduce in effetti a ciò che resta dopo aver operato uno scarto, che è in verità parte integrante della conoscenza stessa. La vita c'è finché la vivi, quando la spieghi non c'è più: si perde nelle mille concatenazioni dell'attività categoriale. Un fiore è vivo ad esempio nella sua fruizione immediata. Appena lo smonti con l'analisi esso scompare. Ed è viva anche l'attività eidetica stessa allorché l'uomo ne racconta il suo misterioso accadere, specie se vuole capire qualcosa che lo fa stare male. Non lo è invece se abbandona questa dimensione narrativa.

Ogni vissuto ha pertanto due modalità di rappresentazione, una intellettiva, in relazione alla struttura astrattiva e causativa della coscienza, e un'altra espressiva, nella misura in cui si accorda sia con la natura costitutiva del soggetto trascendentale che col tessuto materiale ed esistenziale del suo vario esperire e sentire. La prima circoscrive tutto il dicibile, la seconda tutto l'esprimibile. Tra le due c'è una continua interazione, ma esse non coincidono. Quando si combinano con una forte dominanza del dicibile si ha una elaborazione teoretica, mentre se ne ha una poetica o poietica quando la combinazione diventa a dominanza espressiva. E indipendentemente dal peso che si voglia dare ad entrambe le modalità, ciò che importa è rendersi conto che non esiste nell'io che cerca di rappresentarsi il mondo una decisa identificazione tra le due, come non esiste neppure una netta separazione. Esse sono così intrecciate che non si darebbe nessuna dicibilità senza la sua dose di esprimibilità, e viceversa nessun discorso sarebbe espressivo se non riuscisse a dire e designare secondo le forme costitutive del soggetto trascendentale. Se l'atteggiamento teoretico classico è stato dominante per secoli e secoli, la causa di ciò è da attribuire ad una deprecabile forzatura del pensiero filosofico.

Per questa ragione, il discorso teoretico va ridefinito come discorso teopoietico: l'uomo che vive e che pertanto si rappresenta il mondo e la vita, si connette sia ai fenomeni profondi che a quelli superficiali, cercando di volta in volta di esprimerli nel modo anzidetto. Ma quello che tradizionalmente fa il filosofo nel tentativo di obbedire ad una rappresentazione rigorosa è una specie di forzatura, con la quale egli rigetta o rifiuta una buona parte della sua fenomenicità, per poter convogliare tutta la sua energia interiore sulla rimanente, a vantaggio soltanto di un'intricata catena di inferenze, concetti e deduzioni astratte, che mantengono un minimo di presa sulla coscienza altrui solo a condizione di riferirsi ancora a una materia sensibile che traspare e si esprime nella teoria nonostante tutto. Per questa ragione si dice anche che la filosofia dei filosofi è pesante, mentre quella degli uomini comuni più colorita ed espressiva. In realtà l'uomo comune attinge di più al fenomeno profondo (in senso noumenico, e cioè della radice vitale) anche se non ha in mano gli strumenti adeguati per tradurre la sua intensità di sentire in robusta teoresi. Va da sé che il rifiuto in questione non potrà mai essere totale, pena la incomprensione stessa di qualsiasi teoria. Il tragitto fenomenologico di un evento è sempre vario: esso può partire dal sentimento per passare al giudizio e infine alla rappresentazione, oppure dalla rappresentazione per passare al giudizio e al sentimento o al sentimento e poi al giudizio. E così deve essere. Questa varietà, spesso ingarbugliata e dolorosa, non può essere cancellata, ma va vista come una sorta di connessione continua e interattiva tra soggetto e mondo, tra vita e rappresentazione.

Alla luce delle presenti considerazioni, lo scarto dei fenomeni profondi, della loro modalità espressiva a vantaggio delle entità astratte, dell'intellezione e dei rapporti di causalità, risulta uno strappo illegittimo di realtà da quel vasto dominio fenomenico che contrassegna la vita trascendentale, ovverosia la vita dell'anima.

 

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