Il primo dipinto
informale di Pollock è Eyes in the heat, del '46,
anche se il dripping sarebbe venuto solo l'anno dopo con Enchanted forest, Cathedral, Full fathom five;
in quest'ultimo appaiono anche chiodi, spago, materiali estranei. Tornando a Eyes in the heat, esso fa parte di una
serie intitolata Sounds in the grass,
in cui è incluso anche Shimmering substance, la
cui tavolozza tenue suggerisce un'estasi lieve, infantile. I Sounds in the grass sembrano infatti,
con la loro materia densa, pastosa, ricondursi ad atmosfere estive e calde, da
ambientare in campagna. E' indicativo che Pollock si fosse trasferito con la
moglie a Springs, East Hampton: in lui rimase
sempre fondamentale una sorta di panismo, di fusione uomo-natura, in simbiosi
con le energie cosmiche.
Non fu Pollock ad
inventare il dripping, la cui paternità è assai incerta; si è già detto che
Hofmann lo usava, così come lo stesso Pollock ebbe modo di assistere ad un
dripping ante litteram nell'atelier di Siqueiros; anche surrealisti come Ernst
avevano utilizzato questa tecnica, associandola magari al frottage; ma di
sicuro fu Pollock ad elevarla alla massima potenza, facendone il suo più tipico
ed efficace strumento espressivo. Nel background del pittore di Cody, così come
di molti altri suoi contemporanei, era sicuramente presente l' Ulisse di Joyce, il cui "flusso di
coscienza" letterario può benissimo essere associato al flusso della vernice
nel dripping. Viene superato il confine - o meglio la frontiera - della
mediazione intellettuale dell'arte, che diventa pura gioia del fare,
interazione diretta con la materia. Il risultato del dripping è stato
efficacemente definito come una "sindone", la testimonianza
bidimensionale di un'azione tridimensionale. In questo senso, alcuni vedono
Pollock come precursore dell'arte come performance, come happening che esiste
solo nell'attimo in cui è eseguito ed ha bisogno di una documentazione esterna.
Un senso di effimero che si ricollega, ancora una volta, alle pitture di sabbia
degli indiani, che si distruggevano appena completate. Pollock stesso
affermava:
Con la tela sul pavimento, mi sento più
vicino, più come se fossi parte del
dipinto. In questo modo, posso camminarci intorno, percorrere i quattro i lati
e andarci dentro, alla maniera degli Indiani del West che dipigono con la
sabbia.
Questa
dichiarazione testimonia anche in maniera semplice quanto fosse importante la
letterale simbiosi dell'artista con l'opera.
In Enchanted forest, ci si
addentra nel bosco fatato, che però è un groviglio, un labirinto. Full fathom five
ha un titolo un po' più ambiguo. Fathom significa "braccio", inteso
come misura di profondità (quindi ecco di nuovo il tema dell'immersione, della
compenetrazione col cosmo); ma "full fathom" è anche un'espressione
idiomatica che significa "piena comprensione", capire a fondo. Per
Pollock dunque la pittura diventa strumento di conoscenza diretta, ora che si è
liberata di un certo citazionismo che aveva caratterizzato i periodi
precedenti. Le opere informali di Pollock
nascono da un desiderio di espressione non viziato da alcuna convenzione
culturale o stilistica, ribadendo il bisogno di un ritorno al primitivo inteso
come spontaneità, come libero flusso dell'anima.
Un metodo di pittura è la naturale
espressione di una necessità. Voglio esprimere i miei sentimenti, piuttosto che
illustrarli.
Pittura dunque come
religione laica, che assume aspetti rituali nella danza del dripping su tele
sempre più grandi, in cui perdersi; religone dell'attimo, del "qui ed
ora", però, perché non c'è nulla di rassicurante in opere come Alchemy o Cathedral. Sono grovigli fittissimi, reti in cui rimanere
impigliati, o al più superfici fredde su cui l'uomo non può che lasciare
superficiali graffi. Però esistono anche opere in cui le maglie della rete si
allargano e diventano quasi accoglienti (una rete che salva dalla deriva), come
in Summertime:Number 9A, o Seven. C'è poi il caso di Out of the web,
dove delle macchie dorate formano silohuettes che ricordano Mirò, e sembrano
emergere, lottando, da uno sfondo intricatissimo. Questo può essere visto come
un simbolo della duplice condizione di Pollock, uomo di frontiera e di grandi
spazi, immerso nel frenetico ambiente newyorchese. Una situazione ambigua, un
dualismo che genera altra irrequietezza, come lo scontro tra questo desiderio
di istintività e un certo pragmatismo tipicamente americano.
Il momento
immediatamente successivo è quello delle pitture nere, dove si assiste, oltre
ad una resa più grafica, ad una sorta di recupero della figura. Secondo i dettami
di Leonardo, per cui da delle semplici macchie l'artista può trarre sagome
riconoscibili, nei dipinti del '51 /'52 affiorano, più o meno percettibili, dei
volti, come fossero colti nel preciso istante in cui si formano dala materia
informe. La maggiore sintesi e sobrietà derivata dall'uso del nero viene dunque
compensata dalla tentazione della figura, che però viene appunto mostrata solo
allo stato di embrione. Queste pitture trovano la loro origine in Number 32,
del 1950. I segni neri procedono in sussulti agonizzanti, in lotta con lo
sfondo bianco: e ancora non è un caso che esista un dipinto di Pollock
intitolato Moby Dick. Pollock è
Achab, la tela è la balena bianca arpionata dalla pittura, ma che riaffiora
costantemente. Pollock, al contrario di Fontana, non concretizza l'attacco alla
tela: si limita a lasciarne la traccia. Come in un sogno, non c'è davvero lo
scontro, tutto rimane a livello rituale.
Negli ultimi anni,
prima della morte improvvisa ma forse presentita, Pollock attua una sorta di
riepilogo della propria produzione, e, anche se i risultati non sono costanti,
crea alcuni tra i suoi capolavori. Blue poles è uno di
questi: riassume in sé il ritmo orizzontale mai definitivamente abbandonato, il
dripping e le forme che emergono alla maniera di Out of the web. La dialettica tra gli squarci dritti suggeriti dai
pali blu e il classico sfondo "sgocciolato" dà vita ad un'opera
emblematica e di straordinaria potenza. Un'altra opera di importanza capitale è
The deep,
1953. Sembra un prodotto atipico, in cui l'azione che caratterizzava le
precedenti opere di Pollock viene letteralmente risucchiata - appunto - nel profondo,
e ne rimane solo una fessura scura in un mare bianco, cremoso. The deep può essere visto in vari modi,
come una ferita - stavolta sì, alla maniera di Fontana - o piuttosto come una
tregua nel mezzo delle ostilità. E' un'opera pervasa da un certo erotismo,
elegante, che comunica forse un desiderio di contemplazione; di sicuro, una sensuale
sfinitezza.
Poi, poco altro. Un
ritorno alle possibilità formali, come in Easter and the
totem, e un ultimo guizzo, con White light, del '54, dove a tornare sono i Sounds in the grass. La tavolozza qui è ancora più chiara, diventa
pura luce e al contempo barriera impenetrabile, e nonostante ritorni il
consueto groviglio, l'impressione è di nuovo quella della contemplazione e
dell'immobilità, dei ricordi più lontani.
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