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Antonio Bianchi

3. Il pensiero storico-politico, tra Machiavelli e Muratori

 

La Cronaca riminese 1830-32 di Bianchi è, secondo Zuffa, una "originale e personalissima rielaborazione di dati raccolti via via che accadevano i fatti".

Lo spirito della narrazione "è dichiarato dall'apophtegma preposto ai fatti del 1831", in cui si legge: "Tiberio domandò a Batone per qual motivo mai non cessavano i Dalmati e Pannoni di ribellarsi ai Romani, rispose: Voi ne avete tutta la colpa giacché mandate a custodir la greggia non cani o pastori, ma lupi" (ms. 628, p. 212).

Ciò, aggiunge Zuffa, significa che "la licenza rivoluzionaria è cosa certamente riprovevole, ma non meno riprovevole è il malgoverno che la provoca. Infatti il Bianchi, che ha sempre parole di disprezzo per gli insorti, vivacemente qualificati per "canaglia", "forsennati", "fanatici" e "faziosi" e che non risparmia neppure il generale Zucchi definito "traditore" o "imbecille" e "capo di una banda di ladri", non ha miglior concetto dei pontificî, funzionari o militari che siano, ed esprime la convinzione che se i primi avessero agito con prudenza, le cose sarebbero andate meglio sotto il loro governo, che non quello della Santa Sede e la maggioranza della popolazione ne sarebbe stata contenta". Per cui, alla fine, "l'ordine portato dalle truppe austriache di occupazione rappresentava il male minore". (42)

Bianchi -prosegue Zuffa- fa un quadro "veramente desolante" della situazione nelle Legazioni, lui che "non è un partitante o un fazioso, ma un uomo d'ordine, dedito alla religione, alla famiglia e ai buoni studî; non un giacobino, né un filo-francese che abbia da rimpiangere un felice passato ricco di onori e di pubbliche cariche e nemmeno un generico laudator temporis acti".

Nella Nota che segue la Cronaca, Bianchi -scrive Zuffa- appare "come un solitario che registra obiettivamente i fatti, li studia e li giudica con occhio sereno, disapprovando le intemperanze popolari, ma indagando anche sulle cause profonde che le hanno provocate e in parte le giustificano". Per Bianchi, l'Amministrazione dello Stato doveva passare nelle mani di tecnici esperti nei singoli rami. E doveva cessare lo sfruttamento delle province da parte del governo centrale.

"In breve", afferma Zuffa, la voce di Bianchi è quella di "un galantuomo che vorrebbe fosse instaurata una sana amministrazione della cosa pubblica, e pur non manifestando idee particolarmente avveniristiche, ci può illuminare assai bene su di uno stato d'animo che stava maturando nella coscienza di certa borghesia colta del territorio legatizio, aliena sì dalle intemperanze "patriottiche", ma nauseata dagli abusi e dal disordine del potere costituito e pronta, quindi, ad accogliere anche le più radicali riforme di struttura, fermo restando il principio della sovranità".

"La circostanziata e documentata denuncia" di Bianchi, "quasi un preludio agli azegliani Fatti di Romagna", è per Zuffa "una diagnosi precoce" che non fu esaminata da nessun altro dopo Tonini.

Sul malgoverno di quei giorni, Bianchi racconta un episodio emblematico: quando il 23 luglio 1826 a Ravenna si sparò contro il Legato di Romagna cardinal Agostino Rivarola (43) , con il ferimento di un canonico che gli sedeva accanto nella carrozza, a Rimini alcune persone di pessima fama calunniarono (allettate dal premio promesso) "varj individui, che furono carcerati": "poco mancò che" essi "non fossero giustiziati, tanto bene avevano ordite le accuse que’ scellerati". Dopo nove mesi di "rigorosa prigionia", vennero liberati perché dichiarati innocenti: "ma ciò non poté ritornare in vita due di quegli infelici morti dai stenti e dalla passione". Commenta Bianchi: "Per dare una qualche soddisfazione al pubblico per tanta ingiustizia commessa fu condannato a qualche anno di detenzione il meno colpevole de’ calunniatori". (44)

Né meglio andava "la morale", essendovi un "accrescimento di dissolutezza sotto il governo ecclesiastico", tanto che i fanciulli "esposti" nello "Spedale" di Rimini nel 1832 furono 530, contro i 262 del 1816. Per questo "accrescimento di dissolutezza", Bianchi indicava due cause: la prima "è, che l'autorità ecclesiastica crede bene di obbligare a congiungersi in matrimonio quelle persone fra le quali sono accadute illecite cognizioni, cosa di cui sanno prendere partito tante donne specialmente del basso popolo". La seconda, il "non essere permesse le pubbliche meretrici, che salvano tante donne dalla pubblica seduzione di chi a qualunque costo cerca di dar sfogo a tale istinto, e così in vece di venti meretrici di professione, ne fanno diventar cento per seduzione".

 

 

Bianchi accusa il potere temporale di non aver provveduto a "un buon corpo di leggi" (provocando in tal modo la corruzione dei "primi impiegati del governo"), e di aver reso i popoli "insubordinati e maggiormente demoralizzati". Nell'esporre la sua analisi, egli valuta negativamente i mutamenti storici, italiani ed europei, avvenuti negli ultimi anni. I moti del 1830 in Francia, Belgio e Polonia sono liquidati come una "epidemia rivoluzionaria". Quelli riminesi del ’31, legati al "Tifo costituzionale" diffusosi inizialmente a Bologna, vengono considerati una "buffonata" che rimpiazza "le solite mascare" del carnevale.

A questi giudizi sulla realtà contemporanea, Bianchi affianca prima l'invocazione alla "infinita Misericordia Divina", e poi (quasi per trovare conferma autorevole alle proprie pessimistiche opinioni), una citazione da Lodovico Antonio Muratori con cui chiude la Nota sul 1831: "e quando mai mancheranno guai alla terra paese de’ vizi".

Bianchi crede nei rimedi imposti dall'alto, confidando nell'azione di governi ‘illuminati’ a cui attribuisce il compito di guidare quegli uomini che, ai suoi occhi come a quelli di Nicolò Machiavelli, dovettero apparire sempre e soltanto "tristi".

L'esame della "realtà effettuale", condotto con i mezzi offerti dalle nuove scienze sociali, non approda in Bianchi alla consapevolezza che i cambiamenti storico-politici verificatisi tra la seconda metà del 1700 ed i primi decenni del 1800, sono il frutto di una cultura che cerca di rompere -pur tra difficoltà e contraddizioni- con le antiche concezioni autoritarie del potere. Saldamente convinto che a modificare la vita degli Stati non possano essere i popoli con le loro istanze di democrazia, Bianchi non avverte che allora, in molta parte dell'opinione pubblica sia borghese sia proletaria (per usare termini classici della cultura del suo tempo), i governi sono considerati come l'espressione della volontà dei cittadini, e non di una investitura religiosa o dinastica.

La parola "cittadino" è ignorata da Bianchi che parla unicamente di "sudditi". Per lui, "liberale" è parola riprovevole. La gioventù che manifesta per strade e piazze, viene detta "discola, irreligiosa, imprudente" che pensa soltanto di "ottener mezzi da mangiare e divertirsi". Il lessico -vagamente reazionario- usato da Bianchi, non ammette dubbi e non lascia spazio ad alcuna simpatia verso quegli eventi.

 

 

Dei suoi umori politici si possono trovare efficaci espressioni nel ms. 628 sotto la data del 1796: "Se per mezzo secolo i nostri paesi stettero in pace, in quest'anno si cominciò a provare gli effetti della terribile rivoluzione francese, cominciata già in Parigi nel 1789 coll'apertura degli Stati generali, rivoluzione che produsse incalcolabili disastri nel Mondo intero, e che seguiterà a produrne chi sa per quanto tempo". Bianchi non distingue tra le premesse democratiche degli Stati generali, e la tragica conclusione della rivoluzione.

Nel discorso storico sul xviii secolo, Bianchi (che non dimentica mai un inquadramento dei dati locali nel contesto nazionale ed europeo), tralascia qualsiasi accenno alla rivoluzione americana, i cui contenuti economici non avrebbero dovuto sfuggire a lui che si dimostra tanto attento alle novità delle idee rappresentante ad esempio nell'Antologia, la rivista toscana fondata nel 1821 da Gian Pietro Viesseux, della quale era lettore, stando almeno alle annotazioni geologiche che abbiamo indicato.

D'altra parte, proprio l'Antologia può essere per Bianchi un modello ideale di paternalismo riformistico e di liberalismo cattolico. Dopo il 1830, l'Antologia imposta il suo discorso sulle prospettive post-rivoluzionarie, chiedendosi, con Viesseux, se il popolo deve "conquistare a un tratto la sua emancipazione come un discolo; o se egli, da noi assistito, debba prepararsi gradatamente" (45). Si osservi la consonanza ideologica, non casuale, tra Viesseux e Bianchi, espressa dal termine "discolo" che appare sia nello scrittore dell'Antologia sia nel savignanese.

La Nota alla Cronaca del 1831 è il documento che meglio esprime, oltre ai limiti di un moderatismo giustificabile ampiamente nel contesto dell'epoca, anche un atteggiamento che segna il passaggio di Bianchi dal campo storico a quello politico, quando svolge un discorso in cui è coinvolto il futuro della società nella quale opera. In tal modo egli dimostra anche l'utilità delle storie locali, da compilarsi non tanto per esclusivi scopi eruditi, quanto per meglio indagare sulla situazione presente e sulle prospettive che da esse emergono.

Riflessi di questo moderatismo si notano altresì nell'interpretazione del passato. Si consideri il giudizio sulla crisi della Repubblica di Roma: "Mariò chiamò sotto le bandiere la feccia del popolo, che non ha alcun interesse di serbar l'ordine da cui deriva il rispetto della proprietà, desiderando anzi il disordine nel quale spera di poter arricchire" (ms. 628, p. 156).

 

 

Nella raccolta di documenti preparatori al suo lavoro, Bianchi spazia dalle notizie statistiche a quelle giudiziarie. Un caso simbolico, che tuttavia non trova sviluppo nel ms. 628, è quello relativo ad un sacerdote, don Filippo Onesti, sui cui apparve nel 1840 una Diffesa presso la Sacra Congregazione dei Vescovi (46), che Bianchi ricopiò -non integralmente- nel ms. 637 (cc. 58-63). Da essa apprendiamo che Don Onesti, per la sua passione musicale che lo portava a frequentare i teatri, aveva già ricevuto dal vescovo Francesco Gentilini un "Formale Monitorio" che l'invitava ad "astenersene per l'avvenire". Nel luglio 1838 era stato poi accusato da una "vilissima donnicciola" di Saludecio di aver commesso nei suoi confronti "alcuni atti osceni" in chiesa, mentre ella assisteva alla Messa. Identificato dal marito della donna, don Onesti venne subito ‘processato’ dal vescovo e cacciato da Rimini.

Nella Diffesa emergono il dramma umano del sacerdote segregato lontano dalla famiglia, rimasta senza sue notizie; ed il comportamento autoritario del vescovo che, davanti al padre di don Filippo umiliatosi a chiedere notizie del figlio, risponde con arroganza: "Io non ho più che fare con esso, né egli ha più che fare con me".

Forse don Onesti, a dispetto del cognome che portava, non era quello stinco di santo che la Diffesa vuol accreditare. Nel ms. BGR 1742 di Filippo Giangi (c. 7), infatti si ricorda che il sacerdote già nel 1830 era stato inviato "agli esercizi a Montiano a seguito a mala sua condotta per affari donneschi". A questo episodio probabilmente aveva voluto alludere il "Monitorio" vescovile ordinando a don Onesti di star lontano, non solo dai luoghi di spettacolo, ma pure "a quacumque fœminarum familiaritate" ed "a suspectis conversationibus". L'autore della Diffesa avvertiva però che tali frasi potevano "forse trarre gl'ignoranti e i maligni a sinistre interpretazioni" non rispondenti al vero.

Un altro sacerdote riminese, don Alessandro Berardi (1801-33), faceva parlare di sé in quegli anni per motivi politici, tradizionalmente considerati dalla Gerarchia ecclesiastica ben più gravi di quelli erotico-sentimentali. Il suo nome non appare apertis verbis nel ms. 628 di Bianchi che ne fa soltanto un velato accenno, quando parla della stampa di "impolitiche invettive contro la Corte di Roma" (c. 215). L'allusione è al testo di don Berardi apparso anonimo nel marzo 1831, con il titolo di Lettera di un sacerdote dell'Emilia, in cui si sostiene che la fine del potere temporale era una provvidenziale liberazione per la Chiesa. (47)

Don Berardi aveva svolto attività politica nel Comitato Provvisorio del Governo distrettuale di Rimini, "con esplicito assenso del Vescovo" (48) del tempo, mons. Ottavio Zollio, passato alla storia cittadina per aver gridato "Viva la Religione! Viva la Libertà" da una finestra del suo palazzo, ad un gruppo di "donzelle" che transitavano sventolando "la bandiera nazionale", come scrisse un periodico forlivese, L'Emilia, in data 9 febbraio 1831 (49). Scomparso il 10 maggio 1832 mons. Zollio, per don Berardi spirarono venti diversi: fu posto ufficialmente sotto accusa per quella troppo celebre Lettera, ma le sue precarie condizioni di salute gli evitarono gravi punizioni. (50)

Il 20 novembre ’32 don Berardi dettava il testamento, concludendolo con parole che rivendicavano in piena coscienza il suo ruolo svolto nel Comitato: "Io penso che il Clero abbia bisogno di lumi per riparare, per quanto è possibile, ai mali che sovrastano una società miserabile e lacerata dallo spirito di fazione". All'inizio del testo, aveva invece posto una dichiarazione autobiografica ("Io sono nato povero e muoio povero"), di chiara ispirazione cristiana, ma pure di velata critica nei confronti di certi suoi confratelli.

Chiamato dal nuovo vescovo Gentilini, il 6 dicembre ’32, a sottoscrivere una "Ritrattazione", per rinnegare lo scritto dell'anno precedente e la sua attività pubblica, don Berardi si sarebbe "umilmente" rifiutato, secondo il cronista Filippo Giangi. La morte chiudeva l'esistenza terrena di don Berardi il 2 marzo 1833, ma non le polemiche su quella "Ritrattazione" che il vescovo ufficialmente invece dava per avvenuta. (51)

 

 

Nella stessa parte sul 1831 dove Bianchi accenna alle "impolitiche invettive contro la Corte di Roma" (p. 215), incontriamo un altro giudizio rivelatore: "libertà ed uguaglianza" sono "le incantatrici parole (per gl'inesperti) […], che in fine poi degenerano in libertinaggio, ed in tirannia di fazione". Nell'emettere questi giudizi, Bianchi si identifica in quei "pacifici cittadini" (p. 212) che si pongono di "mal umore" davanti a sollevazioni e a violenze, ma che non amano neppure i birbanti i quali, "sotto il manto di proteggere la Religione", e gridando "Viva Maria (motto ch'era sempre in bocca di quella canaglia)", commettevano "ladrerie e insolenze" (p. 205, anno 1799).

Bianchi legge gli eventi del 1831 ripensando alle "fanatiche e vergognose bambocciate" importate dalla Francia rivoluzionaria (p. 204), dalle quali derivò un governo repubblicano "che costò tanto sangue e tanti guai per consolidarsi", e a cui successe infine un nuovo potere dispotico, con la "incoronazione di Napoleone in Re d'Italia" (p. 207, anno 1805): "Non piacque certamente il dover ritornare sotto l'assoluto dominio di un solo, ma colla speranza d'essere governati con buone leggi, e ben regolate amministrazioni, vi si sottomisero tutti allegramente, tanto più che si supponeva che non fosse intorbidata per un pezzo la pace" (ib.).

Sembra che non ci sia rimedio ai governi dispotici. Si legga il passaggio su di un episodio del 1796 (p. 203): "la Corte di Roma, mancando ai patti dell'armistizio", rispose ai popoli di Romagna che "le nostre carte erano vecchi cenci, e che i Sovrani non patteggiano coi sudditi". Bianchi annota: "punto di meditazione". Ancora più chiaro è il discorso sul comportamento del Papa dopo l'occupazione alberoniana di San Marino, a cui fu restituita "con raro esempio" la libertà, visto che "non era paese da poter smugnere" (p. 200, anno 1739).

Rispettoso della Religione, Bianchi appare molto critico nei confronti della Chiesa cattolica come istituzione. Oltre al brano già ricordato ("non era tutta virtù nella gerarchia Ecclesiastica", p. 165), e sul quale si era appuntata l'attenzione di Nardi con la proposta di levarlo dal testo, citeremo il giudizio negativo sulle Crociate, la cui "tanta multitudine […] composta delle persone più scelerate" era dovuta all'"uso o piuttosto l'abuso, che ad ogni peccato erano imposte da certi canoni penitenze gravose che duravano anche anni, dalle quali però i ricchi potevano redimersi con danaro secondo le tasse prescritte" (pp. 174-175).

È una prosa degna di Muratori, nei cui Annali incontriamo questo passo: "La santa città di Gerusalemme, che avrebbe dovuto ispirare in tutti i suoi abitanti cristiani la divozione e il timore di Dio, già era divenuta il teatro dell'ambizione, dell'incontinenza e degli altri vizi che accompagnano il libertinaggio; e questi si miravano baldanzosi fra quelle genti" (52).

Bianchi, nel capitolo dedicato al sec. xiv, ritorna sull'argomento: "Non mancarono le solite Crociate, non già pel conquisto di terra Santa, che questo punto era già trascurato affatto, meno però che sotto tal titolo si seguitava a far pagare decime, tasse ed oblazioni, ma pel vicendevole massacro de’ popoli Cristiani; anche a quest'epoca era brutto il sentire che per fini politici si scomunicasse e dichiarasse eretico un Principe, peggio poi quando il Principe scomunicato restava superiore nella guerra, o veniva ad un trattato a danni di qualcun'altro, diveniva subito buon Cristiano e dilettisimo figlio" (p. 183).

Segue una citazione da Giovanni Villani : "O chiesa pecuniosa e vendereccia, come i tuoi pastori t'hanno sviata dal tuo buon e umile e povero stato, e cominciamento di Cristo?". (53)

Quando, poco dopo (p. 186), leggiamo in Bianchi: "Grandi devastazioni soffrì la povera Italia per queste Sante Crociate, e per le sumentovate Compagnie assoldate ora da un partito ora dall'altro", sembra di trovare riproposti i giudizi di Machiavelli, che facevano risalire la "ruina d'Italia" all'"essere in spazio di molti anni riposatasi in su le arme mercenarie" (54), e all'"imperio temporale" della "Chiesa che ha tenuto e tiene questa provincia divisa" (55).

Narra Bianchi che, per "sostenere" le guerre d'Italia (p. 195, sec. xvi), "si seguitò ad imporre decime al clero, e vendere le indulgenze, col pretesto di far guerra agl'infedeli". Il sacco di Roma del 1527 è attribuito da alcuni storici "alla mala fede del Papa, facendo guerra e pace or coll'uno or coll'altro, secondo le speranze che aveva d'ingrandire lo Stato proprio e quello de’ parenti". Anche nel sec. xvii "si seguitava a far la guerra ad uso de’ barbari, benché vi fossero Cardinali e Prelati alla testa" (p. 199).

L'opinione negativa espressa da Bianchi sull'uso strumentale della Religione ("in tutti i tempi", quando "un partito vuole opprimere un altro che sia di diverse opinioni, cerca di farlo sotto il manto di legge, o di Religione", p. 158), ribalta un celebre pensiero di Machiavelli: "Quelli principi o quelle repubbliche le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione" (56).

Là dove si discute del compito dei sovrani i quali, scrive Bianchi, attendono "piuttosto a’ piccoli vantaggi proprj che all'utile generale" (p. 199, sec. xvii), sembra invece di ascoltare l'eco del proemio guicciardiniano alla Storia d'Italia, in cui si sostiene che a "coloro che dominano" viene "la potestà conceduta […] per la salute comune" (57).

L'aspetto più significativo della lezione che Bianchi ricevette dalla lettura di Muratori sta forse in queste righe che incontriamo negli Annali: "la verità non può già chiamarsi guelfa o ghibellina"; "il principal credito della storia è la verità e il giudicar […] delle operazioni degli uomini per ispirar ne’ lettori l'amore della giustizia e del retto operare e l'abborrimento a ciò che sa di vizio" (58).

 

Vai ai capitoli successivi:

4. Nel retrobottega dello studioso

5. Appendici

6. Note al testo

7. Nota aggiuntiva

8. Tavola abbreviazioni

9. Lettera di Luigi Nardi

10. Appendici

1. Vita oscura di un bibliotecario gambalunghiano

2. Dalla Geologia alla Teologia

 

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