Eugenio
Battisti
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Alcuni
saggi:
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Vorrei esporre qui alcuni
risultati raggiunti, mediante l'uso del calcolatore, nella manipolazione di
dati o di immagini, anche se si tratta di esperienze non sistematiche, nate
solo dal desiderio di controllare direttamente anche nell'ambito delle nostre
discipline la potenzialità delle strumentazioni elettroniche che stanno
diventando sempre più duttili ed accessibili. Queste esperienze sono state possibili
per merito della straordinaria competenza di Ray Masters, presso la
Pennsylvania State University, cui si deve la originaria programmazione grafica
dei personal Olivetti ed un grosso incremento del centro di calcolo
interfacoltà; e quindi di Pier Luigi Bandini, succedutogli presso il
Dipartimento di Architettura. E la prima osservazione da fare è proprio questa:
anche nel nostro campo i progressi sono possibili solo quando si acquista
direttamente una qualche capacità operativa.
Assai più complesso come uso
di macchine, anzi al limite della tecnologia attuale per la quantità di dati
richiesti, è stato l'esperimento, solo parzialmente realizzato, condotto con
una équipe di studenti di architettura guidata da Pierluigi Bandini, di
ricostruire il processo di anamorfosi cui dovettero inevitabilmente essere
sottoposti i disegni preparatori del Correggio per la Cupola dei Duomo di
Parma, prima, di diventare i cartoni esecutivi. Essi infatti furono deformati,
cioè ridotti o allungati in altezza, a seconda della curvatura della cupola e
dello stazionamento dei riguardanti in modo che l'effetto finale risultasse
plausibile.
Storia dell’arte e società
(1963)
Per risultare
uno strumento utile di indagine storica, la sociologia (in qualsiasi modo la
s’intenda, meglio però secondo un’accezione assai larga, come studio dei
rapporti fra le manifestazioni culturali e la società) o deve consentire la
scoperta di nuovo materiale artistico, o deve essere la via per interpretare in
modo più aderente capolavori e situazioni già note. In realtà, le due
possibilità si integrano, in quanto la nostra conoscenza è sempre una scelta,
condizionata da interessi personali o di gusto, e nuove interpretazioni
consentono, effettivamente, di scoprire, o meglio accogliere nel museo immaginario
nuovi capolavori, relegando nei depositi altre
opere suscettibili di minor attualità. Posta così la domanda, è
inevitabile rispondere in modo positivo, riconoscendo cioè l’efficacia,
indiscutibile, di queste indagini; e lamentando caso mai la loro esiguità
numerica, giacché, in realtà, possediamo solo dei saggi, fatti un po’ a caso,
si direbbe soltanto per esplorare quali campi siano più redditizi. Trivellazioni,
insomma, che non coprono né tutta l’area che va dal tardo antico all’età
contemporanea, né tutto l’ambito topografico, né la vastissima casistica
a cui ormai sembra lecito rivolgersi con mezzi sociologici. In tale
situazione prudenza vuole che, al posto di sintesi e di conclusioni generiche,
s’intensifichino invece le trivellazioni, specialmente quelle sui periodi più
ricchi di differenziazioni e di polemiche stilistiche.
Prudenza vorrebbe anche che molte delle conclusioni affrettate cui
giungono i critici dell’arte contemporanea fossero controllate su una migliore
conoscenza sociologica del passato…
Un
panorama culturale da ricomporre
Come si vede, l'Italia è da ricostruire,
mediante frammenti ormai dispersi, anche se numerosi centri d'arte sono
talmente densi da sembrare unità complete. Quest’archeologia vivente è fra le
esperienze più affascinanti. Anche degli insediamenti più antichi ci sono
reliquie visibili. Completi villaggi estivi rimangono intatti, o quasi, ad
esempio presso il passo di S. Pellegrino, sopra Moena in Val di Fassa, e
insediamenti di poco modificati nei secoli si vedono specialmente nelle valli
che confluiscono a Tures (soprattutto verso la Vetta d'Italia); e le baite
costruite con tronchi d’albero interi si riferiscono a tecniche anteriori al
taglio delle assi, cioè all'invenzione della sega, e alla sua meccanizzazione
mediante mulini azionati dal’acqua, che ancora sussistono (ma prossimi alla
rovina) nell'Alto Adige.
Mentre l'800 ha decisamente improntato le nostre città, fornendole dei decorosi arredi urbani (lampioni, insegne, giardini e aiuole) e di sculture all'aperto di un numero e di una qualità che nessun'altra nazione al mondo può vantare, il nostro secolo non è riuscito a controllare esteticamente l’ampliarsi delle zone edificate, cosicché troviamo squallide periferie anche là dove le singole abitazioni sono pretenziose e talvolta di buon disegno.
L'Italia che ci è stata consegnata è un tessuto complesso e fragile: per conservarla, assai più che l'imbalsamazione, serve una capacità di intervento creativo ad altissima qualità. Ma perché questo sia possibile è necessario che chi opera, e il pubblico che riceve, abbiano rispetto per l'antico, piacere per il nuovo e ambizione, virtù o vizio che, nel passato, rese il nostro Paese, per molti versi, unico al mondo.
Quando,
come e perché nasce l’interesse per
l’archeologia industriale nel nostro Paese?
L’archeologia
industriale in Italia ha una data di nascita precisa: il 1977 a Milano, in
occasione del I Congresso internazionale della disciplina, da un gruppo di
giovani miei laureati che avevano fatto ricerche sull’École des Ponts et des
Chaussées di Parigi, che fu la prima grande scuola di genio civile del mondo.
Sono gli anni da noi del successo di Braudel, dell’interesse per la storia
della vita comune, quella non scritta contrapposta alla storia esclusivamente
politico diplomatica. E non trascurerei l’interesse tutto italiano per lo
studio delle tradizioni popolari e il mondo contadino. E sono anche gli anni in
Italia dell’abbandono da parte dei monopoli industriali dei grandi complessi di
tipo ancora ottocentesco, del rifiuto operaio e poi del tramonto rapido della
catena di montaggio, e della crescente reazione della gente, all’ultimo stadio
della società tecnologica. Questo spiega il rapido successo dell’archeologia
industriale nel nostro Paese. La materia, anche se per ora non esiste nessuna
cattedra universitaria attivata, è nel programma del corso di laurea in beni
culturali ed è assai ben vista dal CNR e dal Ministero dei beni culturali, che
hanno dato vita, tramite le Soprintendenze, ad una buona catalogazione di parte
del territorio nazionale. Insomma, i finanziamenti non mancano e interventi da
parte degli assessorati per esempio come quelli che da anni sta facendo il Comune
di Torino, credo non abbiano paragone nel mondo.
Intanto
ricordare a tutti che, proprio per ragioni storiche e archivistiche, e non per
nostalgia è necessario conservare una certa percentuale di fabbriche antiche,
che del resto sono poche. Per lo più infatti abbiamo a che fare con dei
contenitori svuotati, spesso spettacolosi, bellissimi. Demolirli perché non si
sa quale funzione attribuirgli sarebbe uno spreco. Teniamo anche presente che
gran parte di questi edifici non hanno divisori all’interno quindi sono per
definizione moderni e che del resto le funzioni degli edifici cambiano spesso
nel tempo. Certo, l’ideale sta nel trovare delle destinazioni che rispettino lo
spirito originario. Ma quello che a me fa paura è solo il falso restauro, non
l’idea di mettere dell’architettura contemporanea dentro quella moderna.
Naturalmente, se ci sono invece delle parti con macchine antiche, queste
debbono diventare un museo vero e proprio.
La politica delle varie nazioni circa la
conservazione varia grandemente. In alcuni paesi - l’Italia e la Spagna ne sono
un chiaro esempio - i monumenti industriali godono d’un prestigio
relativamente basso, in paragone con quelli archeologici e dei grandi periodi
artistici considerati, invece, una gloria nazionale e sfruttati, insieme al
caldo del sole, come massima attrattiva turistica. In altri paesi, come la
Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia - essi sono invece
altissimamente considerati come testimonianza e simbolo delle classi
lavoratrici e della loro storia, ricevendo un adeguato finanziamento, mentre i
castelli, le chiese ed i palazzi nobiliari sono relativamente posti in
sottordine.
Far archeologia di questa civiltà vicina e
leggendaria, irrecuperabile e paradossalmente già fotografata e filmata,
richiede altrettanta rabbia, che nostalgia. Non si visitano gli squallidi
villaggi operai, urbani o no, dell’Ottocento senza avere ripugnanza per la
pulita ed asettica alienazione di oggi; ma farne l’archeologia indizia, come
ha ben commentato Gimpel un crollo di tensione produttiva; si scava, infatti,
solo ciò che è sepolto da masse di detriti ideologici o fisici. Inoltre, mentre
l’allontanamento dei vecchi dalle case, la concentrazione d’ogni assistenza
medica negli ospedali, le autoambulanze sulle. autostrade cancellano il senso
della morte normale, lasciandone gli aspetti eccezionali in preda dei mass
media, sotto forma di massacri di guerra, attentati, omicidi politici, stragi
in mezzo alla nebbia o lungo le rotte aeree, improvvisamente, dopo più di
trent’anni di paralisi politica ci si accorge, con terrore, che la falce del
tempo continua a mietere; il mutare delle condizioni di mercato, l’incapacità
di adottare i dovuti rinnovamenti d’impianto dimostrano, inoltre, di avere la
stessa potenza distruttiva delle fortezze volanti; l’abbandono d’uso - già strumento
massimo di conservazione capace d’ibernare per millenni arcaici procedimenti
operativi, costumi di gruppi artigiani, preziosi contesti ambientali - annienta
in pochi anni le spavalde costruzioni
in cemento armato, rade al suolo fabbriche, smantella porti e ferrovie, mentre
nuove abitudini sociali ed ideologie, glorificanti la pigrizia ed il
disimpegno, conducono non solo all’eliminazione dei posti di lavoro, ma della
stessa volontà di fare. Tale distruzione è universale, come dimostrano
chilometri e chilometri quadrati di filande abbandonate dal Biellese a
Messina, da Strasburgo alla Catalogna, e così nell’Asia, nell’Australia, in
America. Essa è avvenuta silenziosamente mentre gruppi di intellettuali,
basandosi su una visione del tutto parziale dei rapporti fra tecnica e potere,
lanciava manifesti ecologici, senza supporre che avrebbero accelerato la crisi
e che presto sarebbero stati ripresi dalla destra economica e commercializzati.
Al balletto Excelsior, del 1881, fece così da commemorazione la scenografica
distruzione di una gigantesca macchina inutile di Tinguely, nel Museum of
Modern Art, a New York, nel 1960 (già costruita d’altronde con frammenti
archeologici), i cui resti, chissà dove saranno un giorno gettati, oggetto di
scavo in uno di quei depositi di rifiuti urbani che il prossimo secolo, senza
più materie prime, considererà essenziali miniere.
Per
comprendere, in termini ampi, Soleri ed il successo delle sue conferenze ed
iniziative negli ambienti universitari americani, conviene considerarlo uno
dei profeti della do-yourself utopia. Egli, ovviamente, protesterebbe (ed ha
protestato) per questa interpretazione. Ma si tratta di obbiezioni
terminologiche più che sostanziali. Utopia per lui, etimologicamente, è il non
luogo, cioè i sobborghi, o l’abitato sterilmente immerso nella natura. Ma
utopia, storicamente, è il tentativo di fondare e conservare una società
migliore, meglio organizzata, dunque, più compatta, unitaria ideologicamente o per mezzo di vincoli esterni, o interni,
o con entrambi i mezzi. Ed il do-yourself, già sottoprodotto della produzione industriale
(cioè vendita di prodotti standardizzati finiti solo a mezzo, allorché era più
conveniente per il fabbricante troncarne il processo), sta ora diventando una
potente alternativa morale, se non economica, alla società di massa ed al
consumismo.
Ed è
qui che gli adulti dovrebbero, mettendosi le mani sulla coscienza, scendere giù
dalle cattedre e dagli uffici. La collaborazione non ha niente a che fare con
la riforma dell’università, non è un seminario con un numero più ristretto di
allievi, ma un nuovo tipo di cultura, cioè di ridiscussione ab ovo
su una serie enorme di problemi (politici, religiosi, economici, morali,
sessuali, giuridici, di comportamento, di entertainment), tutti quelli oggi
ritenuti vitali. I giovani chiedono che la società metta a loro disposizione
degli strumenti di giudizio e di meditazione con la stessa facilità e
prontezza con cui, interessatamente, li copre di dischi microsolco e di
manifesti. Essi sognano una società, in certo senso neo-tribale, in cui l’arte
della vita - a tutti i livelli - possa venire appresa per apprendistato
diretto, cioè collaborando ciascuno nei limiti delle proprie capacità con gli
esperti più anziani. Se dovessimo applicare questa forma di rapporto fra
specialista e apprendista, bisognerebbe introdurre, nelle università, una
grande quantità di posti per apprendisti-insegnanti; si dovrebbero fare le
ricerche in équipe con un gruppo di collaboratori (non “negri”, ovviamente), e
difatti l’unico modo in cui negli ultimi anni l’università è servita è con la
sua capacità, occasionalmente, di dar luogo a posti di lavoro, di inventare
iniziative - magari enciclopedie - cui gli allievi potessero collaborare.
Purtroppo, il più delle volte si è trattato di imprese collettive solamente a
scopo speculativo, autoritariamente dirette.
La
fondazione Eugenio Battisti è sita a Roma, Viale dei Quattro Venti 166
Telefono
e fax 06-5806377 Prof.sa Giuseppa Saccaro ved. Battisti.
La fondazione custodisce tutti gli scritti elencati nella bibliografia di
Eugenio Battisti
compresi molti manoscritti inediti.
Cura il catalogo informatico della Biblioteca di Eugenio Battisti (18.000
schedature
di volumi e cataloghi).
Cura l'archivio della corrispondenza dello studioso (6.000 lettere schedate dal
1954 in poi).
Custodisce l'archivio fotografico delle diapositive (30.000) con 8.000
schedature.
Cura gli archivi dell'Antirinascimento in formato elettronico e gli altri
archivi
dei manoscritti elettronici.
Cura gli archivi del Marcatrè.
Segue la stampa e la riedizione di scritti di Eugenio Battisti fra i quali:
Arte teatro e società
Scritti di archeologia industriale
Incoraggia
i giovani studiosi di arte contemporanea a studiare gli anni sessanta e
settanta.
Keywords: Battisti Eugenio Battisti Arts and
society industrial archaeology utopia sociology of arts
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Last update: 30-12-1999
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Francesco M. Battisti battisti@ing.unicas.it