Eugenio Battisti          
 
storico e critico d’arte (1924 - 1989)

 

Biblioteca di storia e critica d’arte  e archivi della  corrispondenza
Roma Viale dei Quattro Venti 166

Alcuni saggi:
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Dal centro di calcolo al minicomputer: alcune esperienze di catalogazione e classificazione relative alle arti

 

Vorrei esporre qui alcuni risultati raggiunti, mediante l'uso del calcolatore, nella manipolazione di dati o di immagini, anche se si tratta di esperienze non sistematiche, nate solo dal desiderio di controllare direttamente anche nell'ambito delle nostre discipline la potenzialità delle strumentazioni elettroniche che stanno diventando sempre più duttili ed accessibili. Queste esperienze sono state possibili per merito della straordinaria competenza di Ray Masters, presso la Pennsylvania State University, cui si deve la originaria programmazione grafica dei personal Olivetti ed un grosso incremento del centro di calcolo interfacoltà; e quindi di Pier Luigi Bandini, succedutogli presso il Dipartimento di Architettura. E la prima osservazione da fare è proprio questa: anche nel nostro campo i progressi sono possibili solo quando si acquista direttamente una qualche capacità operativa.  

Assai più complesso come uso di macchine, anzi al limite della tecnologia attuale per la quantità di dati richiesti, è stato l'esperimento, solo parzialmente realizzato, condotto con una équipe di studenti di architettura guidata da Pierluigi Bandini, di ricostruire il processo di anamorfosi cui dovettero inevitabilmente essere sottoposti i disegni preparatori del Correggio per la Cupola dei Duomo di Parma, prima, di diventare i cartoni esecutivi. Essi infatti furono deformati, cioè ridotti o allungati in altezza, a seconda della curvatura della cupola e dello stazionamento dei riguardanti in modo che l'effetto finale risultasse plausibile.

Storia dell’arte e società  (1963)

 

Per risultare uno strumento utile di indagine storica, la sociologia (in qualsiasi modo la s’intenda, meglio però secondo un’accezione assai larga, come studio dei rapporti fra le manifestazioni culturali e la società) o deve consentire la scoperta di nuovo materiale artistico, o deve essere la via per interpretare in modo più aderente capolavori e situazioni già note. In realtà, le due possibilità si integrano, in quanto la nostra conoscenza è sempre una scelta, condizionata da interessi personali o di gusto, e nuove interpretazioni consentono, effettivamente, di scoprire, o meglio accogliere nel museo immaginario nuovi capolavori, relegando nei depositi altre opere suscettibili di minor attualità. Posta così la domanda, è inevitabile rispondere in modo positivo, riconoscendo cioè l’efficacia, indiscutibile, di queste indagini; e lamentando caso mai la loro esiguità numerica, giacché, in realtà, possediamo solo dei saggi, fatti un po’ a caso, si direbbe soltanto per esplorare quali campi siano più redditizi. Trivella­zioni, insomma, che non coprono né tutta l’area che va dal tardo antico all’età contemporanea, né tutto l’ambito topografico, né la vastissima casistica a cui ormai sembra lecito rivolgersi con mezzi sociologici. In tale situazione prudenza vuole che, al posto di sintesi e di conclusioni generiche, s’intensifichino invece le trivellazioni, specialmente quelle sui periodi più ricchi di diffe­renziazioni e di polemiche stilistiche. Prudenza vorrebbe anche che molte delle conclusioni affrettate cui giungono i critici dell’arte contemporanea fossero controllate su una migliore cono­scenza sociologica del passato…

 

 

Un panorama culturale da ricomporre

 

Come si vede, l'Italia è da ricostruire, mediante frammenti or­mai dispersi, anche se numerosi centri d'arte sono talmente densi da sembrare unità complete. Quest’archeologia vivente è fra le esperienze più affascinanti. Anche degli insediamenti più antichi ci sono reliquie visibili. Completi villaggi estivi rimangono in­tatti, o quasi, ad esempio presso il passo di S. Pellegrino, sopra Moena in Val di Fassa, e insediamenti di poco modificati nei secoli si vedono specialmente nelle valli che confluiscono a Tu­res (soprattutto verso la Vetta d'Italia); e le baite costruite con tronchi d’albero interi si riferiscono a tecniche anteriori al taglio delle assi, cioè all'invenzione della sega, e alla sua meccanizza­zione mediante mulini azionati dal’acqua, che ancora sussistono (ma prossimi alla rovina) nell'Alto Adige.

 

Mentre l'800 ha decisamente improntato le nostre città, fornen­dole dei decorosi arredi urbani (lampioni, insegne, giardini e aiuole) e di sculture all'aperto di un numero e di una qualità che nessun'altra nazione al mondo può vantare, il nostro secolo non è riuscito a controllare esteticamente l’ampliarsi delle zone edificate, cosicché troviamo squallide periferie anche là dove le singole abitazioni sono pretenziose e talvolta di buon disegno.

 

L'Italia che ci è stata consegnata è un tessuto complesso e fra­gile: per conservarla, assai più che l'imbalsamazione, serve una capacità di intervento creativo ad altissima qualità. Ma perché questo sia possibile è necessario che chi opera, e il pubblico che riceve, abbiano rispetto per l'antico, piacere per il nuovo e ambizione, virtù o vizio che, nel passato, rese il nostro Paese, per molti versi, unico al mondo.

 



 

Quando, come  e perché nasce l’interesse per l’archeologia industriale nel nostro Paese?

L’archeologia industriale in Italia ha una data di nascita precisa: il 1977 a Milano, in occasione del I Congresso internazionale della disciplina, da un gruppo di giovani miei laureati che avevano fatto ricerche sull’École des Ponts et des Chaussées di Parigi, che fu la prima grande scuola di genio civile del mondo. Sono gli anni da noi del successo di Braudel, dell’interesse per la storia della vita comune, quella non scritta contrapposta alla storia esclusivamente politico diplomatica. E non trascurerei l’interesse tutto italiano per lo studio delle tradizioni popolari e il mondo contadino. E sono anche gli anni in Italia dell’abbandono da parte dei monopoli industriali dei grandi complessi di tipo ancora ottocentesco, del rifiuto operaio e poi del tramonto rapido della catena di montaggio, e della crescente reazione della gente, all’ultimo stadio della società tecnologica. Questo spiega il rapido successo dell’archeologia industriale nel nostro Paese. La materia, anche se per ora non esiste nessuna cattedra universitaria attivata, è nel programma del corso di laurea in beni culturali ed è assai ben vista dal CNR e dal Ministero dei beni culturali, che hanno dato vita, tramite le Soprintendenze, ad una buona catalogazione di parte del territorio nazionale. Insomma, i finanziamenti non mancano e interventi da parte degli assessorati per esempio come quelli che da anni sta facendo il Co­mune di Torino, credo non abbiano paragone nel mondo.

 

Intanto ricordare a tutti che, proprio per ragioni storiche e archivistiche, e non per nostalgia è necessario conservare una certa percentuale di fabbriche antiche, che del resto sono poche. Per lo più infatti abbiamo a che fare con dei contenitori svuotati, spesso spettacolosi, bellissimi. Demolirli perché non si sa quale funzione attribuirgli sarebbe uno spreco. Teniamo anche presente che gran parte di questi edifici non hanno divisori all’interno quindi sono per definizione moderni e che del resto le funzioni degli edifici cambiano spesso nel tempo. Certo, l’ideale sta nel trovare delle destinazioni che rispettino lo spirito originario. Ma quello che a me fa paura è solo il falso restauro, non l’idea di mettere dell’architettura contemporanea dentro quella moderna. Naturalmente, se ci sono invece delle parti con macchine antiche, queste debbono diventare un museo vero e proprio.

 

 

La Macchina Arrugginita

La politica delle varie nazioni circa la conservazione varia grandemente. In alcuni paesi - l’Italia e la Spagna ne sono un chiaro esempio - i monumenti industriali godono d’un prestigio relativamente basso, in paragone con quelli archeo­logici e dei grandi periodi artistici considerati, invece, una gloria nazionale e sfruttati, insieme al caldo del sole, come massima attrattiva turistica. In altri pae­si, come la Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia - essi sono invece altissimamente considerati come testimonianza e simbolo delle classi lavoratrici e della loro storia, ricevendo un adeguato finanziamento, mentre i castelli, le chiese ed i palazzi nobiliari sono relativamente posti in sottordine.

 

Far archeologia di questa civiltà vicina e leggendaria, irrecuperabile e paradossalmente già fotografata e filmata, richiede altrettanta rab­bia, che nostalgia. Non si visitano gli squallidi villaggi operai, urbani o no, dell’Ottocento senza avere ripugnanza per la pulita ed asettica alie­nazione di oggi; ma farne l’archeologia indizia, come ha ben commentato Gimpel un crollo di tensione produttiva; si scava, infatti, solo ciò che è sepolto da masse di detriti ideologici o fisici. Inoltre, men­tre l’allontanamento dei vecchi dalle case, la concentrazione d’ogni as­sistenza medica negli ospedali, le autoambulanze sulle. autostrade cancel­lano il senso della morte normale, lasciandone gli aspetti eccezionali in preda dei mass media, sotto forma di massacri di guerra, attentati, omicidi politici, stragi in mezzo alla nebbia o lungo le rotte aeree, im­provvisamente, dopo più di trent’anni di paralisi politica ci si accorge, con terrore, che la falce del tempo continua a mietere; il mutare delle condizioni di mercato, l’incapacità di adottare i dovuti rinnovamenti d’impianto dimostrano, inoltre, di avere la stessa potenza distruttiva delle fortezze volanti; l’abbandono d’uso - già strumento massimo di conservazione capace d’ibernare per millenni arcaici procedimenti ope­rativi, costumi di gruppi artigiani, preziosi contesti ambientali - an­nienta in pochi anni le spavalde costruzioni in cemento armato, rade al suolo fabbriche, smantella porti e ferrovie, mentre nuove abitudini so­ciali ed ideologie, glorificanti la pigrizia ed il disimpegno, conducono non solo all’eliminazione dei posti di lavoro, ma della stessa volontà di fare. Tale distruzione è universale, come dimostrano chilometri e chilo­metri quadrati di filande abbandonate dal Biellese a Messina, da Strasburgo alla Catalogna, e così nell’Asia, nell’Australia, in America. Essa è avvenuta silenziosamente mentre gruppi di intellettuali, basandosi su una visione del tutto parziale dei rapporti fra tecnica e potere, lanciava manifesti ecologici, senza supporre che avrebbero accelerato la crisi e che presto sarebbero stati ripresi dalla destra economica e com­mercializzati. Al balletto Excelsior, del 1881, fece così da commemora­zione la scenografica distruzione di una gigantesca macchina inutile di Tinguely, nel Museum of Modern Art, a New York, nel 1960 (già costruita d’altronde con frammenti archeologici), i cui resti, chissà dove saranno un giorno gettati, oggetto di scavo in uno di quei depositi di rifiuti urbani che il prossimo secolo, senza più materie prime, conside­rerà essenziali miniere.

 

 

“do yourself” utopia (1972)

Per comprendere, in termini ampi, Soleri ed il successo delle sue conferenze ed iniziative negli ambienti universitari americani, conviene conside­rarlo uno dei profeti della do-yourself utopia. Egli, ovviamente, protesterebbe (ed ha protestato) per questa interpretazione. Ma si tratta di obbie­zioni terminologiche più che sostanziali. Utopia per lui, etimologicamente, è il non luogo, cioè i sob­borghi, o l’abitato sterilmente immerso nella na­tura. Ma utopia, storicamente, è il tentativo di fon­dare e conservare una società migliore, meglio or­ganizzata, dunque, più compatta, unitaria ideologi­camente o per mezzo di vincoli esterni, o interni, o con entrambi i mezzi. Ed il do-yourself, già sotto­prodotto della produzione industriale (cioè vendita di prodotti standardizzati finiti solo a mezzo, allor­ché era più conveniente per il fabbricante troncar­ne il processo), sta ora diventando una potente al­ternativa morale, se non economica, alla società di massa ed al consumismo.

 

 

La Maxi Utopia (settembre 1968)

Ed è qui che gli adulti dovrebbero, mettendosi le mani sulla coscienza, scendere giù dalle cat­tedre e dagli uffici. La collaborazione non ha niente a che fare con la riforma dell’università, non è un seminario con un numero più ristretto di allievi, ma un nuovo tipo di cultura, cioè di ridiscussione ab ovo su una serie enorme di problemi (politici, religiosi, economici, morali, sessuali, giuridici, di comportamento, di entertainment), tutti quelli oggi ritenuti vitali. I giova­ni chiedono che la società metta a loro disposizione degli strumenti di giudizio e di meditazione con la stessa facilità e prontezza con cui, interessatamente, li copre di dischi microsolco e di manifesti. Essi sognano una società, in certo senso neo-tribale, in cui l’arte della vita - a tutti i livelli - possa venire appresa per apprendistato diretto, cioè collaborando ciascuno nei limiti delle proprie capacità con gli esperti più anziani. Se dovessimo applicare questa forma di rapporto fra specialista e apprendista, bisognerebbe introdurre, nelle università, una grande quantità di posti per apprendisti-insegnanti; si dovrebbero fare le ricerche in équipe con un gruppo di collaboratori (non “negri”, ovviamente), e difatti l’unico modo in cui negli ultimi anni l’università è servita è con la sua capacità, occasionalmente, di dar luogo a posti di la­voro, di inventare iniziative - magari enciclopedie - cui gli allievi potessero collaborare. Purtroppo, il più delle volte si è trattato di imprese collettive solamente a scopo speculativo, autoritariamente dirette.

 

Link con autori e studiosi che hanno menzionato l'opera di Eugenio Battisti

 

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Segue la stampa e la riedizione di scritti di Eugenio Battisti fra i quali:

Arte teatro e società
Scritti di archeologia industriale

Incoraggia i giovani studiosi di arte contemporanea a studiare gli anni sessanta e settanta.

 


 

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Last update: 30-12-1999

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