La Macchina Arrugginita                                      

Un problema storico permanente

 

Eugenio Battisti

 

 

 

 

Il sole sta bagnando lentamente le bianche facciate; di quando in quando si sentono i colpi di campana ritmici e cristallini delle chie­se, e le fucine, tutte le fucine della città, le fucine nere, le fucine silenziose durante la not­te, cominciano a cantare.

 

AZORIN, Un’elegia, da Los Pueblos

 

L’archeologia industriale, coraggiosamente espansa, potrebbe anche divenire una disciplina autonoma, ma curiosamente non tanto per una sua auspicata specializzazione, quanto per la mancanza, almeno fino a questo momento di precisi confini. Non si capisce, infatti. perché in un mondo laico, com’è prevalentemente il nostro, non debba divenire il pendant, di segno opposto, della storia delle religioni. Benché finora non sia neppure immaginabile un suo programma di fondazione, mediante apporti interdisciplinari, come quello, che ha dato luogo al co­stituirsi della prossemica (con sovvenzioni, se non erro, del National Institute of Mental Health statunitense e della Wenner‑Gren Founda­tion for Anthropological Research), c’è oggi una larga confluenza d’in­teressi, una pubblicistica diffusa ad ogni livello, un desiderio genera­lizzato di inventario, tutela, riuso e comprensione, che indica, final­mente, il bisogno conscio non di esorcizzare il passato industriale, e di osteggiare quello contemporaneo, ma di impadronirsene collettiva­mente. Quanto è accaduto, specialmente in Italia, fra l’anno del primo congresso internazionale, a Milano, nel giugno del 1977[1], e questa pri­mavera del 1982, è quasi incredibile.  Quasi tutte le amministrazioni locali, quando non hanno già compiuto massicci recuperi (è il caso di Torino), hanno programmi per lo meno ambiziosi e giustamente in quanto se gli anni Settanta hanno visto il prolificare dei musei conta­dini, quasi certamente gli Ottanta saranno caratterizzati dall’espansione e diffusione di quelli industriali, in edifici storici restaurati, che diven­teranno anche centri culturali e di quartiere.

 

Di fronte ad un progresso così rapido, conviene ricordare anche a noi stessi i dati della situazione precedente, e rivolgere un grato ricordo ai fondatori della disciplina, che sono riusciti a creare interesse e con­senso. I primi scavi e restauri, scientificamente condotti in Europa ‑ se si trascurano le ricostruzioni post‑belliche e gli sporadici interventi ad esse connessi ‑ sono databili agli anni 1958‑1959; la cultura materiale, come capitolo specifico di ricerca e documentazione, venne inclusa solo nel 1964 nel programma del grande catalogo dei beni culturali, che procede fra enormi difficoltà specialmente burocratiche. La problema­tica stessa dell’archeologia industriale, dal punto di vista teorico, risale agli anni Sessanta, e nonostante lo sforzo di creare dei centri di tutela e di documentazione, e soprattutto di salvare i monumenti minacciati di distruzione, restava attuale il quadro d’insieme dato per l’Europa da Kenneth Hudson nel 1971:

 

La politica delle varie nazioni circa la conservazione varia grandemente. In alcuni paesi ‑ l’Italia e la Spagna ne sono un chiaro esempio ‑ i monumenti in­dustriali godono d’un prestigio relativamente basso, in paragone con quelli archeo­logici e dei grandi periodi artistici considerati, invece, una gloria nazionale e sfruttati, insieme al caldo del sole, come massima attrattiva turistica. In altri pae­si, come la Repubblica Democratica Tedesca, la Cecoslovacchia ‑ essi sono invece altissimamente considerati come testimonianza e simbolo delle classi lavoratrici e della loro storia, ricevendo un adeguato finanziamento, mentre i castelli, le chiese ed i palazzi nobiliari sono relativamente posti in sottordine.[2]

 

       Anche la lista, data dallo Hudson, che annoverava per l’Italia il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano, quello dell’Automobile a Torino, la fabbrica di spaghetti della ditta Agnesi di Oneglia e degli ombrelli a Gignese (Novara) non poteva essere quasi ampliata, in con­trasto con il moltiplicarsi dei musei dedicati alla cultura contadina, purtroppo quasi mai all’aria aperta.[3]

 

La sensibilizzazione dell’opinione pubblica per opera dei mass media che l’hanno resa attenta ai temi dell’archeologia industriale ovviamente va assai al di là, oggi, sia di questi dati che del quadro concettuale con cui essi erano presentati. Il bisogno di autoidentificazione con il pro­prio passato collettivo fonda la richiesta della popolazione di Panna per un recupero, ad uso sociale, possibilmente prestigioso dell’involucro murario dello Zuccherificio Eridania, dove quasi tutti hanno lavorato nei momenti di punta stagionali; l’interesse per i giovani delle scuole medie di Brescia per una esplorazione diretta della tradizione di lavoro tecnico che li porta ad impeccabili pubblicazioni, edite da Grafo ed ap­poggiate dall’Assessorato alla Cultura; i sorprendenti risultati della ri­cerca in campo e documentaria sulle industrie dello Stretto di Messina, o la copertura giornalistica fornita, ampiamente, dal Mondo (4 dicem­bre 1981), e dalle varie reti televisive, hanno la loro motivazione non tanto nella scoperta d’una prima trascurata storia della tecnologia, quan­to nella certezza di poter, in tal modo, rivivere una cronaca perduta di gesti, operazioni fisiche, percorsi collettivi, azioni di gruppo, invenzioni personali, adattamenti di emergenza, soddisfazioni, proteste, frustra­zioni, mutamenti, di cui le “fabbriche d’arte” sono l’involucro ed il locus privilegiato, e che di là s’irradiano su tutta la società, quella vera. Si tratta, insomma, di ricevere altre informazioni, più confuse, più incerte, ma più intense.

 

Vorremmo qui auspicare ch’esse rimangano così, a lungo. Archeologia industriale ha bisogno, e come! dei tempi lenti e meditati della ricerca accademica, che caratterizzano ad esempio gli ormai famosi studi di Poni, o la diligentissima storia dei lanifici veneti di Franco Barbieri[4], ma ha anche una gigantesca funzione formativa da svolgere, quella che Carandini nella relazione introduttiva al Convegno di Roma, 1978, ha indicato: «fare a pugni con le attuali strutture accademiche e burocratiche», esprimere «la complessità della società in cui viviamo e della cultura nuova, che solo a fatica riesce ad esprimersi», e più specificamente, impedire che ci si identifichi «con un unico sistema di produzione, con un’unica serie di tecniche», cui aggiungerei, sul piano della costruzione teorica, il bisogno di riscrivere Il Capitale di Marx e gli scritti politico-economici dell’Ottocento sulla base di “una esplorazione più ampia e comparata della condizione operaia.” Perché questo accada, non bisogna tanto evitare il divenir di moda degli argomenti, che giustificherà e provvederà nel prossimo futuro le necessarie spese di recupero e restauro, quanto l’appiattimento critico già insito nel concetto di “rivoluzione industriale”, modellata sulla ripartizione delle grandi età storiche nei manuali scolastici, per cui essa è associata con le conseguenze della rivoluzione francese (certamente non fondata su una organizzata protesta operaia), con i moti liberali della borghesia dell’Ottocento (guidati, spesso, da giovani imprenditori), con la rivoluzione tecnologica degli scienziati e quella commerciale dei banchieri e degli speculatori continentali. La condizione industriale esiste da millenni, anche se ristretta ai pochi fonditori, agli schiavi che lavoravano nelle miniere (presto sostituiti da uomini liberi, ad alta paga), alle officine di mattoni, vasi, alle vetrerie, all’immenso lavoro di taglio e sbozzatura delle pietre, alla manutenzione degli edifici, specialmente militari, e delle navi. Una specie di vergogna ha soppresso, fino a ieri (e l’espressione non è metaforica) la considerazione del costo finanziario delle grandi imprese edilizie, del massiccio apporto alle finanze statali dato dalla produzione mineraria, specialmente in Italia (cioè nel Tirolo, nel Bresciano, nel Volterrano, alla Tolfa, in Calabria e in Sicilia). Sembrerebbe giunto il momento di raccogliere le tracce, a volte cospicue, di questa immensa attività (per non parlare di industrie addirittura scomparse dalla memoria, come quella del cotone che ha atteso il volume di Maureen Fennell Mazzaoui, dello scorso anno, per un quadro complessivo, nonostante che l’importazione del materiale grezzo, nel 1319, costituisse l’87% del traffico del porto di Genova. E proporle per un giudizio, agli storici dell’economia, da cui per ora ci arriva il massimo delle informazioni; allo stesso modo in cui l’archeologia non solo documenta (o smentisce) i dati delle cronache, ma ne fornisce altri, inattesi.

 

Come slogan, cioè come avvio iniziale, la definizione, per quanto provvisoria, di archeologia industriale, potrebbe funzionare benissimo. Essa evoca, giustamente, il mistero delle civiltà sepolte (in questo caso, spesso cancellate dalla damnatio memoriae); rimpiange l’avventuroso passato prossimo celebrato dal Balletto Excelsior, in un momento di eccessivo pessimismo, dovuto alla crisi del tardo capitalismo, incapace di rinnovarsi e di competere con le nazioni in via di sviluppo, alla deca­denza della classe economica, che mira a vantaggi quasi puramente estemporanei; al crescere della conflittualità urbana. a livello di guerriglia invece che di rivoluzione politica (come l’Ottocento francese seppe fa­re); al declino della città, come centro collettivo di produzione. Vorrei che il rimpianto divenisse esaltazione, glorificazione della fabbrica ot­tocentesca da cui è nato il nostro benessere attuale (costruito sul su­dore e sul sangue, ma innegabile e ridistribuito alla maggioranza dei cittadini); desse omaggio alla vivacità, intelligenza, gusto per il rischio degli imprenditori e dei tecnici che nella realtà, assai meglio che sul pal­coscenico della Scala[5], seppero trionfare sulla natura, costruendo impos­sibili ferrovie prima attraverso le Alpi, poi nell’India e nel Perù, va­rando flottiglie lacustri e fluviali, riducendo le distanze a quozienti di tempo/velocità, internazionalizzando i brevetti e le invenzioni di qua e di là dell’Atlantico, e servendosene immediatamente senza tempi mor­ti come dimostra il quasi contemporaneo sfruttamento del telefono, ecc. Essi evitarono le lentezze burocratiche, svicolarono attraverso gli intrighi dei parlamenti, violarono in pace e in guerra i confini politici e le dogane ‑ senza incertezze esistenziali, senza scrupoli ma anche, per lungo tempo e in molte aree, senza gli ipocriti ladrocini di adesso.

 

Far archeologia di questa civiltà vicina e leggendaria, irrecuperabile e paradossalmente già fotografata e filmata, richiede altrettanta rab­bia, che nostalgia. Non si visitano gli squallidi villaggi operai, urbani o no, dell’Ottocento senza avere ripugnanza per la pulita ed asettica alie­nazione di oggi; ma farne l’archeologia indizia, come ha ben commentato Gimpel un crollo di tensione produttiva[6]; si scava, infatti, solo ciò che è sepolto da masse di detriti ideologici o fisici. Inoltre, men­tre l’allontanamento dei vecchi dalle case, la concentrazione d’ogni as­sistenza medica negli ospedali, le autoambulanze sulle. autostrade cancel­lano il senso della morte normale, lasciandone gli aspetti eccezionali in preda dei mass media, sotto forma di massacri di guerra, attentati, omicidi politici, stragi in mezzo alla nebbia o lungo le rotte aeree, im­provvisamente, dopo più di trent’anni di paralisi politica ci si accorge, con terrore, che la falce del tempo continua a mietere; il mutare delle condizioni di mercato, l’incapacità di adottare i dovuti rinnovamenti d’impianto dimostrano, inoltre, di avere la stessa potenza distruttiva delle fortezze volanti; l’abbandono d’uso ‑ già strumento massimo di conservazione capace d’ibernare per millenni arcaici procedimenti ope­rativi, costumi di gruppi artigiani, preziosi contesti ambientali ‑ an­nienta in pochi anni le spavalde costruzioni in cemento armato, rade al suolo fabbriche, smantella porti e ferrovie, mentre nuove abitudini so­ciali ed ideologie, glorificanti la pigrizia ed il disimpegno, conducono non solo all’eliminazione dei posti di lavoro, ma della stessa volontà di fare. Tale distruzione è universale, come dimostrano chilometri e chilo­metri quadrati di filande abbandonate dal Biellese a Messina, da Stra­sburgo alla Catalogna, e così nell’Asia, nell’Australia, in America. Essa è avvenuta silenziosamente mentre gruppi di intellettuali, basandosi su una visione del tutto parziale dei rapporti fra tecnica e potere, lanciava manifesti ecologici, senza supporre che avrebbero accelerato la crisi e che presto sarebbero stati ripresi dalla destra economica e com­mercializzati. Al balletto Excelsior, del 1881, fece così da commemora­zione la scenografica distruzione di una gigantesca macchina inutile di Tinguely, nel Museum of Modern Art, a New York, nel 1960 (già costruita d’altronde con frammenti archeologici), i cui resti, chissà dove saranno un giorno gettati, oggetto di scavo in uno di quei depositi di rifiuti urbani che il prossimo secolo, senza più materie prime, conside­rerà essenziali miniere.

 

Nella confusione di oggi, soprattutto in materia economica, è diffi­cile capire se ciò che scrivo è pessimistico o ottimistico. La civetta di Minerva apre gli occhi quando il giorno è passato, ma nello stesso tem­po, col suo stridio, è profetica. L’archeologia industriale sembra pre­sentarci allo stesso tempo il passato ed il futuro, quando fra trenta, cinquant’anni saranno obsolete anche le ultimissime fabbriche silenzio­se e discrete, senza fumi e senza animazione, che accolgono nei loro parchi ben tenuti piccoli zoo, anzi si pubblicizzano come santuari per la Wild Life, scompaiono sotto terra mediante terrazze coperte da pra­ti, o diventano schermi trasparenti, entro cui le nuvole, i tramonti, si specchiano ora per ora. Molti si sono abituati a lavorare nell’arcadia di queste grandi serre, sotto il perenne fogliame di alberi tropicali, con gli scoiattoli che corrono fra scrivania e scrivania; l’azzurro delle tute è progressivamente scolorito, fino a diventare il camice bianco dei pro­grammatori. Diceva una pubblicità scolastica di pochi anni fa, in una metropolitana: “Che capiterà di te quando questo microcircuito imparerà il tuo mestiere?” Nessun avviso, di salvaguardia, è oggi pronunziato ufficialmente, anzi le università e le scuole si riducono, del tren­ta‑quaranta per cento; ed è quasi certo che il camice bianco sarà buttato via, presto, per una camicia normale indossata da un borghese di mez­za età.

 

L’archeologia industriale ha già dato il suo apporto a questa pa­ranoia, creando processi di compenso. E’ proprio nei paesi più tecnolo­gicamente avanzati ch’essa è divenuta scenografia sociale, con visite guidate, per le famiglie durante i week‑end; che gli editori hanno pro­dotto album  sempre più splendidamente illustrati[7], proponendo la celebrazione dei tempi in cui le cattedrali divennero nere, i contadini   si abbrutirono negli slum, i bambini furono torturati fino diventare organismi macchine. I ricchi executives, nelle ore di ozio, si sono invece consorziati in gruppo per creare immensi modellini ferroviari, entro cui i merci corrono fra vecchie fabbriche, miniaturizzate in uno stato di semi-abbandono, fra acciaierie annerite, valicando fiumi inquinati da detriti industriali, rallentando in smistamenti sbrecciati, fra cumuli di pneumatici, pile di casse adorne di vecchi marchi pubblicitari, tutto realizzato con migliaia di dollari per costruirsi, nello scantinato, un’ulti­ma spiaggia paleotecnologica,[8] mentre di giorno in ufficio si decide se l’auto solare sarà prodotta in Usa, in Giappone o in Germania.

 

Naturalmente. ci sono altri risultati, più concreti e limitati, da met­tere in conto. come il recupero e a volte la salvaguardia di molte strut­ture anonime, o di architetti misconosciuti, fantasiosamente funzionali, spontaneamente modernisti, a volte – come venne già riconosciuto da­gli scrittori del Settecento – sublimi nel senso più letterale del ter­mine. All’archeologia industriale va il merito di aver rimesso in circola­zione, cavandoli dai depositi e salvandoli dalla distruzione, se ancora in commercio, gli ultimi oggetti documentati dai cataloghi delle espo­sizioni di un secolo fa, di tipo sempre più vario e di costo sempre più accessibile, destinati ad accostarsi l’uno all’altro, nel più pittoresco di­sordine non solo alla fine del ciclo nel salotto borghese ma già nei pa­lazzi di vetro, sulla base dei principio: chi primo arriva meglio espone (e li abbiamo visti, in vero e quasi in loco, nella strabiliante ricostru­zione filologica della Esposizione Mondiale di Filadelfia del 1876 com­piuta dalla Smithsonian a Washington).

 

Gli storici dell’arte e dell’architettura (e chi scrive si ritiene sostan­zialmente uno di loro) sono stati presi contropiede e scavalcati da que­sto massiccio recupero ideologico e monumentale, nonostante una bi­bliografia specifica rispettabile, che si apre con lo studio, sempre fon­damentale, di N. Pevsner sui Pionieri del Movimento Moderno da William Morris a Walter Gropius, 1936, che abbiamo già letto, tra­dotto in italiano, nel 1945, dove, a pp. 28‑31 c’è una cronologia accu­rata dei grandi mutamenti tecnici e sociali, ed un capitolo, il V, è dedicato all’architettura degli ingegneri. D’altronde l’inefficacia, pratica, dei nostri sforzi è dimostrata dalle continue sconfitte, fino ad anni recenti. di fronte alle distruzioni indiscriminate di monumenti, anche politicamente e socialmente essenziali, come la Maison du Peuple di Bruxelles. Recentemente siamo stati scavalcati anche nel quadro dello studio della cultura materiale, che così si è polarizzata attorno ad altre discipline ed autori, come Fernand Braudel, la cui prima edizione di La Civilisation Matérielle et Capitalisme, 1967, ignorando per prin­cipio le pubblicazioni in italiano non citava gli accuratissimi ed antici­patori studi di Giuseppe Cocchiara, e quelli, ancor più antichi, di Raf­faele Corso e del Pitrè. Questo scavalcamento delle ricerche di storia degli oggetti e degli artisti dovuto, in gran parte, alla nostra incapacità di costruire una teoria, costituisce, per altro, una forma di colonizzazione culturale, e rende difficili agganci con i problemi locali, anzi re­gionali; mentre tende a troncare la continuità con le ricerche prece­denti. Ad ogni modo la difficoltà specifica resta quella di uscire, senza dilettantismi, dal nostro ambito disciplinare, per associarsi all’antro­pologia, alla storia dell’economia, del diritto, della tecnica. Nel caso museografico, per di più, si richiede un capovolgimento dalla salvaguardia, magari rinforzata con un’aura estetizzante, del capolavoro unico da vedere di lontano, in condizioni totalmente artificiose di collocamen­to, illuminazione e contesto, ad un allestimento che inviti a manipolare gli oggetti (come in alcune sezioni del Museo della Tecnica di Monaco di Baviera), che nel caso degli arnesi significherebbe far riacquistare, almeno momentaneamente, collettive abitudini d’uso, e addirittura una sensibilità fisica al peso, allo sforzo. In genere, questa funzione didat­tica, nei più di 170 musei e collezioni catalogati dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, e affidata a volontari; non è introdotta nell’università se non a Firenze, dal Natalini che ha chiesto agli stu­denti di costruire anche dei modellini degli strumenti agricoli, mentre tutto l’impegno erudito e accademico sembra essere rivolto alla cataloga­zione, che è certo un passo necessario, anzi è quello iniziale, ma che solo per 8 località in Italia è stata eseguita in maniera interdisciplinare[9]; mentre tanto per la cultura materiale quanto per quella industriale la funzione e l’uso dovrebbero predominare sullo studio della forma.

 

Non è però il caso di ripetere qua le autocritiche che gli archeologi hanno fatto a se stessi, e che sono state esplicitate, soprattutto, dal Carandini[10]; l’archeologia industriale, se ha un modello a cui ispirarsi, per mantenere la necessaria complessità e densità di problemi, è l’an­tropologia, ed è in questo senso, e per queste connessioni, che ha già interessato, in termini creativi, gli artisti, concettuali e no.

 

Inoltre, se è stato inevitabile scivolare in qualche riferimento alla cultura materiale ed al suo attuale fascino, va sottolineato come rispetto ad essa la cultura industriale si caratterizza per la stessa brutalità con cui le periferie ottocentesche hanno distrutto l’ambiente rurale. Mentre l’utensile. anche in ferro, è un perfezionamento del braccio umano ano scopo di estenderne, quasi illimitatamente, le funzioni, senza staccarsene ed una volta raggiunto il suo fine, tende a conservare la forma che at­traverso successivi adattamenti è risultata più consona all’uso previsto (ciò accade nella sega, nel martello, ecc.),[11] l’industria è esclusivamente in funzione della fabbricazione entro programmi rigidi di un certo pro­dotto, la cui misura, forma, qualità e novità sono decise sulla base di compromessi economici, cioè sul loro massimo grado di commerciabi­lità al minimo costo in un certo momento storico ed ambito topografi­co. Gli utensili che essa usa sono altamente specializzati, in genere costosi, limitati di numero e di tipo, il prodotto stesso è semplificato all’estremo (solo ragioni di concorrenza, cioè di pubblicità, possono indurre ad abbellimenti ed aggiunte), le apparecchiature produttive vengono cinicamente modificate, anche in peggio, sulla base delle flut­tuazioni degli utili, e quindi tutto il sistema, se non avviene una crisi duratura che lo congeli, è instabile e provvisorio. Inoltre l’industria producendo logora e consuma se stessa, in un duplice senso: usurando gl’impianti, che devono essere rinnovati, e saturando il mercato, invec­chia il suo prodotto che man mano perde di attrattiva, perché imitato dai concorrenti, divenuto consuetudinario, passato di moda, scaduto di qualità rispetto al prezzo, o viceversa. La sopravvivenza sta nel rinnovarsi costantemente, ma contrariamente a quanto la pubblicistica e la pubblicità suggeriscono, non si tratta necessariamente di progresso, ma solo di adeguamento alla situazione generale, entro un sistema dove, normalmente, a tempi brevi il prodotto cattivo, a basso costo, caccia quello pregiato e sofisticato. E’ evidente che in questo discorso non rien­tra l’autentica sperimentazione tecnologica e imprenditoriale, che in­venta i nuovi prodotti o li migliora con eccezionali innovazioni (come potrebbero essere i microcalcolatori, le macchine fotografiche e cinepre­se a sviluppo istantaneo, i video dischi, ecc.), ma anche per questi mi­racoli il momento innovativo sta all’inizio della produzione, il prezzo di vendita deve pagare decenni di sperimentazione (ciò che i concor­renti evitano con evidenti vantaggi copiando o ricorrendo allo spio­naggio industriale), e per motivi d’invecchiamento di gestione, diffi­cilmente il progresso procede nel tempo, ma in genere è seguito da uno stanco sfruttamento e l’abbiamo visto in giganti come Nobel, Solvay, ecc. L’archeologia industriale si trova così per lo più priva della possibilità di salvare e mantenere attivi, a scopo museografico e didattico gl’im­pianti d’avanguardia che proprio per la loro vitalità rapidamente si usu­rano, ma ha a che fare, normalmente, con una tradizione manifattu­riera di seconda e terza mano. che s’ispira passivamente a modelli lon­tani, senza finalità utopiche o progressiste, e va valutata secondo categorie lontanissime da quelle cui ci hanno abituato le artes liberales: individualismo, diversificazione, sperimentazione, genialità. Ciò che emer­ge, in cambio, è un ricchissimo quadro di operosità collettiva, con ritmi ora rapidi, ora rallentati, con confini topografici in espansione o in riduzione, con grafi produttivi in rapida ascesa o improvvisa ca­duta in quanto determinati dai mutamenti altrettanto collettivi e di­namici del mercato. Ma, e qui nasce un paradosso, gli esiti, alla fin fine, sono costanti: la ferrovia, il telegrafo, il telefono sono uguali in tutto il mondo benché siano stati disegnati e progettati da individui diversi, realizzati in più luoghi mediante oculate scelte decisionali; né presumibilmente potrebbero essere diversi. La mobilità tipologica è solo nella fascia alta, quella di massima sperimentazione (oggi in mano alle supernazionali) o in quella minima, dove le strutture si fanno dia­lettali e si può usare, come metodo d’indagine, quello elaborato per l’architettura vernacolare. La civiltà industriale nel suo complesso, è univoca; cambiamenti sono possibili solo a lungo termine, quasi mai so­no anticipati o previsti da mosse di carattere personale. Le grandi svol­te sono create da crisi improvvise, o da una concorrenza a livello plane­tario. Così, e come se assistessimo ad una corsa che assomiglia crudelmente ad una gara automobilistica, dove i limiti di velocità sono impo­sti dai motori e dalle gomme, mancano campioni da primato, ed i van­taggi possibili sugli avversari si riducono a decimi, centesimi di secondo. Tutto sta fermo (come chiunque lavora in uno stabilimento conosce per esperienza), eppure tutto si muove.

 

Anni fa, e precisamente nel 1949, Ortega y Gasset, pensando all’evo­luzione del modo di vedere artistico, aveva suggerito di usare un altro sistema di documentazione, che potesse suggerire, in modo dinamico, come nel cinematografo, il ritmo e la contemporaneità dei mutamenti.[12] L’idea, che potrebbe trasformarsi oggi in un quadrante elettronico o in una mappa computerizzata, decennio per decennio, sarebbe estremamen­te utile anche per saltare al di là dei limiti che oggi l’archeologia indu­striale s’impone, e che coincidono praticamente con la creazione di for­me artificiali di energia, come il controllo della pressione del vapore compresso in pistoni, eliminando, fra i falsi criteri di giudizio, anche quello di una economia statica e stagnante, per secoli e secoli.[13] La sto­ria europea e quella del vicino oriente ‑ e non si può che dar ragione in proposito, a Robert S. Lopez[14] ‑ hanno conosciuto non solo periodi di intensa produzione agricola e manifatturiera, degna,come livello di occupazione, di quella sette‑ottocentesca, ma improvvisi fiorire di‑ fortune e d’imperi commerciali ‑ all’inizio del Trecento la rete mercantile italiana si era estesa dalla Groenlandia alla costa cinese di fronte a Formosa ‑ che si riflessero immediatamente in fenomeni di. accre­scimento e congestione urbana, nel rinnovamento a breve distanza di anni delle cinte murarie, nel costituirsi di masse operaie. Ai periodi di prosperità seguirono altrettanto drammatiche crisi, dovute, assai spes­so, a situazioni politiche, militari, sanitarie determinatesi a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, con drammatici mutamenti di rotte marittime.[15] Gli esempi sono innumerevoli: possiamo citare Amalfi, so­lo ora oggetto di recupero filologico, che sembra essere stata una città di grattacieli, ma che giace, in parte, sotto il mare a causa d’un disa­stro geologico che ne fece sprofondare la zona del porto. In pieno Rina­scimento, sorte analoga ebbe Cremona, salita alla notorietà mondiale ed alla ricchezza, per pochi decenni, a causa di un economico tipo di stoffa da lei prodotto, e poi divenuta una tipica città del silenzio tut­tora trascurata e pressoché sconosciuta. La gravità delle catastrofi com­merciali é verificabile a Venezia, costretta a cedere la flotta di stato ai privati e ad abbandonare, di colpo, nel Cinquecento, le rotte prima fa­ticosamente conquistate ai Turchi. E’ questa dinamica, che vorremmo vedere riprodotta in quella specie di film che Ortega y Gasset auspicava, la cui fine ha costellato l’Europa e probabilmente l’Asia di città morte, divenute perciò santuari turistici, ha lasciato sopravvivere solo chiese e palazzi, cioè gli aspetti di capitalizzazione non produttiva, ed oggi porta rapidamente alla distruzione immani stabilimenti, mentre salva edifici pubblici e banche, dando così spunto ad arbitrarie inter­pretazioni del Medioevo in chiave religiosa, del Rinascimento in chiave umanistica; come sempre accade allorché le due culture si separano, e la parola è lasciata esclusivamente ai letterati.

 

C’è un’altra componente, troppo trascurata, che si dovrebbe rievocare, nel quadro degli attuali interessi per il territorio, e che ha un significato primario per la storia industriale: e cioè la collocazione dei giacimenti minerari, la cronologia del loro sfruttamento e del loro abbandono, facendo nascere nel primo caso nuove città, anche di più decine di migliaia di abitanti, e nel secondo, riducendo plaghe larghissime alla miseria e, a causa dei detriti abbandonati, allo squallore, accom­pagnato dai primi esempi documentati di rivolte operaie.[16] Solo chi è av­vertito cercherà di deviare dai consueti itinerari della passeggiata do­menicale sui monti della Tolfa per individuare le antiche cave di allu­me, che resero prospero e battagliero lo stato pontificio nel Quattro­cento; o si accorgerà delle rovine delle fornaci e degli imbocchi, non del tutto franati, delle antiche miniere nell’incantevole valle Aurina, ai piedi della Vetta d’Italia, che come suggerisce il suo nome determinò, ai suoi tempi, fenomeni di febbre dell’oro. Là dove c’è il ferro, la tra­dizione risale addirittura ad epoca classica, o, in Val Camonica, alla preistoria, senza alcuna interruzione, come senza interruzione si evol­sero le zone minerarie e poi industriali della Gran Bretagna, dove si conservano i più prestigiosi resti dell’archeologia industriale.[17] Basta cer­care, fortunatamente, per ritrovare, a volte in quadri apocalittici di ro­vine, la storia del lavoro organizzato delle passate civiltà. La stessa di­namica. costruttiva e distruttiva non più di fortune economiche, ma del territorio stesso, che da foresta diventa campo coltivato, poi degenera in canneto o palude,[18] va registrata in agricoltura, come indicano i flussi commerciali di esportazione o importazione del frumento, altret­tanto variabili che quelli dei manufatti; anche qui l’abbandono ha fatto scambiare per luoghi di culto quelle imprese ferocemente monopoli­stiche che erano i monasteri,[19] mentre il perdurante disprezzo per l’agri­coltura ha fatto trascurare le immani opere compiute anche nelle no­stre terre per terrazzare i declivi (analoghi manufatti sono considerati meraviglie dai turisti che visitano il Perù), la trasformazione della pianura padana da una palude con isole (per cui le cattedrali di Mo­dena, Cremona si specchiavano, come a Venezia, su canali) in terra fer­ma.[20] Certo, va tenuto presente, ancor più che per la produzione manifatturiera (nell’ambito della tessitura peraltro del tutto competitiva con quella attuale, sia in qualità che in quantità), che ci troviamo di fronte ad un basso tasso di produttività, dato il basso reddito delle se­menti,[21] la povertà di macchine automatiche ed anche i più corti pe­riodi di lavoro (tenendo conto delle numerose festività, e della lunghez­za variabile delle ore a seconda delle stagioni), e ad una densità d’inse­diamento, più simile a quella rada del Canada che a quella dell’Olanda; che i tempi di trasporti e comunicazione erano lenti (ma sul mare benché la navigazione sia divenuta più regolare non si sono ridotti che di poco, nonostante la meccanizzazione), che gl’intervalli di spazio fra individuo ed individuo, città e città, considerati positivi socialmente da Engels, negativamente dal Genovesi, non si erano consumati e cor­rosi.

 

E’ importante, perciò, compiere una verifica, spesso sorprendente, dei dati quantitativi: nel Seicento la produzione di seta della sola Verona quasi raggiungeva quella attuale di tutta Italia; calcolando che con una balla si potessero fare 7 vestiti, Bruges nel 1313 produsse da sola la stoffa per provvedere l’abito annuale a circa 650.000 persone.[22] Più in­dietro ancora nel tempo, a Bologna, nel 1294, su una popolazione di circa 50.000 abitanti, ne risultano 36.000 iscritti ad un’arte, o parenti di un iscritto.[23] Quello che è altrettanto significativo, è che questo svi­luppo, proprio come accade oggi quando non esiste un solo monopolio, avvenne collettivamente; senza coordinazione repressiva, in breve tem­po (a partire dal secolo XII), in virtù di ambizioni e rischi di singoli, di decisioni di piccoli gruppi, di concorrenza intelligente, accompagnata da una gara per accaparrarsi i tecnici migliori, sempre in viaggio da una città all’altra, per dar consulenze, altamente retribuite.

 

Questo mio intervento, che mira ad allargare, quasi indefinita­mente, i confini cronologici (cosa saranno state le, industrie dell’elleni­smo?)[24] e quelli geografici (che cosa è la pianura padana bonificata in confronto alla sistemazione a risaie di immensi territori in Asia, ed alla canalizzazione, attraverso millenni, dei loro giganteschi fiumi?), può sembrare irriverente verso i risultati ottenuti mediante una fatico­sa filologia, cioè con scavi, lavori d’archivio, di biblioteca; suona ana­cronistica di fronte ai problemi, urgenti, di catalogazione, conservazio­ne e restauro, trascura la pressione diretta costituita, ormai, da vari gruppi di studio aventi quasi ovunque, una radice e quindi un territorio regionale, e rischia di essere giornalistica rispetto all’onesto positi­vismo anglosassone e statunitense cui l’archeologia industriale nostrana si rivolge, come modello. Tuttavia il mio contributo, anche se contrap­pone brutalmente i problemi difficilmente risolvibili della macrostoria a quelli ben tangibili della microstoria, invoca, non esorcizza, la filologia e la ricerca specifica. Anzi.

 

Un’attrattiva dell’occuparsi di problemi recenti è la possibilità di valersi di documenti immediatamente decifrabili in genere nella pro­pria lingua. E’ disponibile inoltre una documentazione grafica, a volte fotografica; la trattatistica è abbondante anche se solo dopo un difficile training è possibile comprendere la gravità dei problemi sottintesi in certi sviluppi tecnologici e commerciali.[25] Negli studi di archeologia in­dustriale, che dovrebbero essere interdisciplinari e non bloccati crono­logicamente, si riflette, invece, già il tipico difetto legato ad una idea ristretta di specializzazione, o meglio alla struttura del département, cioè del monoistituto universitario anglosassone: il docente, sia per ragioni didattiche che di carriera, è legato ad una periodizzazione artificiosamente conclusa in se stessa, ed evita di sfiorare gli ambiti di com­petenza dei colleghi che coprono argomenti anche analoghi di un pe­riodo anteriore o posteriore. Spesso diventa un tipo di orgoglio (ma alla base sta la lotta per la sopravvivenza) il dichiarare, ad esempio da parte di uno studioso dell’Ottocento, di non sapere niente del dadaismo o del rococò, quindi in certo senso è lecito per il docente porsi ad un livello di consapevolezza e responsabilità culturale inferiore a quello d’un graduate student. Ora ciò va benissimo nell’ambito dell’archeologia industriale per un paese che non ha una lunga stratificazione storica (dato il massacro e la distruzione delle civiltà autoctone), e che acquista la sua indipendenza e la sua coscienza di classe nel grandioso momento in cui “the mechanization takes command”. Ma come si potrebbe discutere, anche solo a finalità di conservazione e restauro, la situazione del Macello ottocentesco di Roma dimenticando che al suo fianco sorge il Testaccio, cioè la montagna costruita artificialmente con gli scarichi delle navi olearie, che si affaccia al Tevere dove c’era l’anti­co porto urbano. La sedimentazione asiatica ed europea è impressio­nante, anche se si manifesta a livelli più vistosi e condizionanti nel campo dell’archeologia commerciale.[26] Non c’è quasi un importante mer­cato che non s’imposti sul tracciato di un foro, o trattandosi di città di nuova fondazione, non ne imiti i caratteri (ad esempio nei portici con­tinui circondanti la piazza maggiore, nella presenza di una chiesa colì, nella contiguitá del palazzo comunale che sostituisce la funzione del­l’antica basilica, ecc.).

Più gravi che queste considerazioni pratiche, sono alcune ragioni teoriche. che hanno subito messo in imbarazzo gli archeologi inglesi. Abbiamo già esposto all’inizio di questo intervento le ragioni per cui si e tentati di far coincidere la rivoluzione industriale con quelle politiche che portarono allo stato democratico, cioè con quella americana e quel­la francese, anche se non ci furono rapporti reciproci; ma nel 1938 nella rivista “Osiris” uscì un famoso saggio di Robert K. Merton, (ispi­rato da un insigne storico della scienza, George Sarton), che cercò di descrivere statisticamente il cambio di orientamento degli intellettuali inglesi, dedicatisi in gran numero alla scienza ed alla tecnologia nella quinta e sesta decade del secolo XVII, dando luogo quindi ad una spe­cie di rivoluzione culturale, che precedette quella manifatturiera.[27] La ragione di questo studio, che ricollega in modo apparentemente diretto, puritanesimo e capitalismo, sta nella perdurante polemica, nella cultura angloamericana, fra religione e scienza, che qui si vuol superare, e nel l’ascendente d’un celeberrimo libro, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber, 1904‑1905, che ebbe il merito di far esplodere il problema della nascita della mentalità borghese al di là della storia economica e del diritto (di cui Weber era specialista) e di attribuirla al costituirsi d’un particolare stato di mente collettivo, che egli compendia in una parola, coscienziosità, e che avrebbe comportato l’enfasi sull’adempimento dei propri doveri, anche morali, in una con­cezione della vita professionale e mondana. Giocarono, forse occulta­mente sulla ipotesi weberiana elementi situazionali, come l’osservazio­ne di una preminenza quantitativa e qualitativa dei protestanti rispetto ai cattolici nella attività commerciale del suo tempo e così nelle scuole (preminenza che potrebbe però essere conseguenza d’una discriminazione sociale a favore), è ripetuta la tesi che la riforma fosse l’autentica rina­scenza dell’Occidente, rigettando ‑ dalla riforma pur così esaltata ‑ le sperimentazioni comuniste che invece ebbero in varie regioni notevo­le successo, per opera per lo più di anabattisti con la costituzione di centri manifatturieri autogestiti. Il Weber, inoltre, polemizza contro chi privilegiava, quale luogo di nascita dell’imprenditoriato moderno, la Toscana ed il Rinascimento; dettagliatissima e corretta è la sua critica all’interpretazione “capitalista” del Della Famiglia di Leon Battista Alberti, contro W. Sombart, Der Bourgeois, Monaco e Lipsia 1913, che ne aveva paragonato l’etica a quella di Franklin “Ricordati cbe il tempo è denaro [...1 Ricordati che il credito è denaro [...1  Ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo [...]”. Ma il testo scelto per il dibattito ed il paragone con gli aforismi di Franklin non erano caratterizzanti, cosicché, fra gli altri, già Alfred von Martin, nel suo articolo sul Rinascimento per una Enciclopedia della sociologia, poteva usare gli stessi argomenti per spostare la questione più in là, all’Uma­nesimo o alle arti fiorentine, approfittando del vasto materiale docu­mentario già accessibile,[28] tesi che è stata confermata dagli studi eco­nomici più recenti, i quali hanno anche spostato al Duecento l’origine del libro a partita doppia, considerato uno strumento ed un simbolo essenziale della gestione moderna.[29]

Le interpretazioni sulle origini del capitalismo sono state così tra­volte dalla discussione sulle origini stesse del Rinascimento, e sebbene sia lecito distinguere tra Millecento‑Duecento e Trecento‑Quattrocento, e magari porre come spartiacqua Petrarca, ci sono dati impressionanti, su vari versanti, che finalmente riportano la rivoluzione sociale e cul­turale all’espansione del suo massimo strumento, cioè la città, divenuta rapidamente centro commerciale, di produzione e di consumo. Mi limi­terò qui a ricordare, in ordine cronologico, che è anche di progressiva espansione, gli studi di Charles Homer Haskins sul Rinascimento del secolo XII, pubblicati già nel 1927, prevalentemente dedicati alla sto­ria intellettuale; l’Histoire du Moyen Age, di H. Pirenne, G. Cohen ed Henri Focillon, del 1933; Medieval technology and social change, di Lynn White Jr., che studia particolarmente i progressi ottenuti nella coltivazione dei campi e le macchine (il suo libro, del 1962, è dedicato a Marc Bloch); ed infine con una ulteriore e necessaria estensione nel passato, The Commercial Revolution of tbe Middle Ages, 950‑1350, 1971 e La Révolution Industrielle du Moyen Age, di Jean Gimpel, 1975.[30] Chi scrive, se dovesse scegliere un simbolo della rivoluzione in­dustriale, opterebbe per il mulino che taglia i marmi sulla Mosella così descritto da Ausonius[31]:

 

Precipiti torquens cerealia saxa rotatu

Stridensque trabens per levia marmora serras

Audit perpetuos ripa ex utraque tumultus

 

E riterrebbe fertile e positiva l’incertezza sulla data di questo testo, proprio perché la complessità dei problemi invita a continui ripensa­menti ed ovviamente ad evitare ogni conclusione definitiva.

Gli scritti che abbiamo citato sono pochissimo o punto considerati dagli archeologi industriali, e di fatto essi forniscono un contesto prov­visorio, ma non dei dati. Ma i dati si possono ricercare, e con successo, come ha dimostrato il corpus che negli ultimi anni si è andato accumu­lando di disegni tecnici quattrocenteschi, o la completa revisione della figura dell’architetto e dell’artista, dovuta a Gimpel e ad altri[32]. Le macchine, spesso, presentano prove di continuità, anche di scambi fra Est ed Ovest maggiori di quanto si supponesse (origine bizantina han­no le macchine belliche riprodotte dal Valturio). La storia economica indica la presenza di massicce concentrazioni di mano d’opera, di capi­tale.. e poco per volta sulle mappe antiche si individuano opifici e labo­ratori. Certo, è più facile girare in macchina in una delle periferie delle nostre città e situarsi su una posizione più di cronaca che di storia; intervistare i vecchi operai ha molto più fascino e dà più insegnamenti che cercare d’indurne il comportamento da fonti scritte in altre chiavi culturali e a loro ostili. Può benissimo darsi che, a parte la quantità e la velocità della produzione moderna, qualche cambiamento radicale sia avvenuto, pari d’altronde alla rivoluzionaria capacità delle masse di organizzarsi in sindacati e di assumere potere attraverso di essi, o me­diante scioperi selvaggi. Ma bisogna dimostrare che uno iato con il passato esiste. Altrimenti, il moltiplicarsi del visibile, cioè, degli stabi­limenti superstiti, a scapito del non più visivo, perché trasformato o assimilato nell’edilizia abitativa, potrebbe provocare un accecamento pari a quello che è dato riconoscere, durante il Rinascimento, nelle predizioni apocalittiche. Mi riferisco, in particolare, ad un grosso ca­talogo, per ordine cronologico, di disastri, catastrofi, mostruosità: è il Prodigiorum ac ostentorum tam coelestium tam terrestrium chronicon, di Lycostenes, edito a Basilea nel 1557. Sfogliandone le pagine, illu­strate da xilografle, la degenerazione della natura sembra aumentare in scala geometrica, segnando l’imminenza dell’apocalissi. Ma la ragione non sta nel declino dei tempi, ma nel progressivo aumentare della do­cumentazione man mano che ci si avvicina a noi. La storia del lavoro umano, delle sue macchine, delle sue organizzazioni è troppo impor­tante perché entri solo nell’ultima parte dei libri di testo per i licei.[33]

Le pagine che seguono, ad ogni modo, non intendono essere pro­vocatorie in senso generale (d’altronde le idee qui esposte derivano da­gli specialisti di più campi), né fare una specie di bricolage erudito in campi non propri, ma riesumare dalla storia delle situazioni che mettano in dubbio l’esattezza di alcuni presupposti dell’archeologia industria­le: che ad esempio solo dal Settecento si abbia una concentrazione di operai in uno stabilimento o in un cantiere, con l’uso di turni di lavoro e con una rigida specializzazione, e che quindi solo da quel tempo si possa parlare di edifici o ambienti concepiti espressamente per la manifattura, che solo per l’Ottocento si possa parlare di co­scienza di classe, cioè di una precisa valutazione del plusvalore aggiunto dalla lavorazione al costo delle materie prime e non restituito ai produttori dei vari beni; che solo la nostra civiltà possa vantare inter­venti sul territorio talmente massicci da variarne l’ecologia e la strut­tura. Di fronte a questi discorsi allo storico dell’architettura vengono subito in mente gli sbarramenti industriali della Garonna del secolo XII [34], la gigantesca chiusa sul Mincio, costruita alla fine del Trecento da Domenico Fiorentino per allagare Mantova.[35] gli otto chilometri di argini fatti erigere da Brunelleschi e Donatello per deviare contro Lucca le acque del Serchio, [36] la correzione del corso dell’Arno in favore e contro Pisa [37] (per cui abbiamo disegni di gigantesche scavatrici semiau­tomatiche di Leonardo).[38] Ma le cronache di quasi ogni città padana registrano continui interventi per argini, canali, strade, e si hanno per­fino leggi per la protezione dei boschi, non solo per non impoverirne la consistenza, ma per la loro bellezza e rarità (così si salvò la pineta di Ravenna), ed è possibile considerare, sotto tutti gli aspetti, veri parchi naturali le riserve di caccia, chiuse da recinti per decine e centinaia di chilometri in tutta Europa. Per ciò che riguarda il coordinamento eco­nomico, tecnico, amministrativo e sociale del lavoro, nessun esempio di pace batte per ora l’organizzazione dei grandi cantieri delle catte­drali, sia d’oltre Alpe, e poi, in Italia, dove il sistema delle consulenze, dei concorsi, dei modelli anche in scala uno ad uno è degno delle mo­derne imprese spaziali. Le cattedrali hanno il vantaggio di rimanere su per secoli, ma quasi nessuno parla degli antichi cantieri marittimi dove in caso di guerra la concentrazione di mano d’opera doveva essere impressionante, molti secoli prima del Settecento, che oggi gli studiosi francesi privilegiano. Anche la distribuzione e specializzazione del la­voro è documentata a pieno.[39] Uno dei più antichi documenti della lin­gua italiana, un conto pisano dei primi decenni del secolo XII, indica numerose categorie, distinte in base alle prestazioni ed ai salari, cioè restaioli, fabbricanti di corde; isporani, costruttori di speroni; confe­zionatori di vele, tessitori, conciatori; segatori; manovali; palombari che solo in parte coincidono con la lista data dal Breve dell’ordine del Mare di Pisa, del 1343, che enumera “maestri d’ascia, li quali fanno o usati sono di fare legni navicabili […] serratori, chalafati, stoppaiuoli, chanapari, legatori, insaccatori et disaccatori di boldroni et di lana o vero d’altre mercie, sensali, taulari, madiari, cassettari, dipintori, copri­tori, piastrari, bottari, vagellari et brocchari, scudellari.”

Un artista concettuale ha esposto, anni fa, in un grande museo di New York le lettere, scambiate fra lui, il museo stesso ed una banca, per ottenere un enorme ed inutile prestito: sotto vetro, coprivano due lunghe pareti, facendo ammirare la saggezza di Senofonte che aveva considerato l’amministrazione un’arte degna della metallurgia. Indipen­dentemente dall’incredibile numero di operazioni successive, svolte in altro luogo e da altri specialisti, necessarie per avere una balla di panni pronta per essere spedita, il sistema di distribuzione di lavoro a domi­cilio, fra appalti e subappalti, meriterebbe una celebrazione analoga, e certo non occuperebbe meno spazio espositivo.[40] Sono state ricono­sciute venti fasi, ma la città stessa è parte del ciclo: si procura materie prime da mercati lontani (l’Inghilterra, l’Islanda) mediante scambio di altre merci o prestiti, o pagamenti mediante lettere di cambio, alimenta società che hanno indirizzi altrettanto esotici e più, e che diventano il centro di reti di trasporto, fino all’estremo oriente; tutto è in balia di un delicato equilibrio planetario, di cui solo pochissimi riescono ad in­tendere le oscillazioni.[41] Tutti però, erano capaci di valutarne le conse­guenze in proprio, a breve e lungo termine. Lo constatiamo, con estrema chiarezza, in un episodio dell’Yvain di Chrétien de Troyes, 1173-­1176, che traduciamo letterariamente pur servendoci, per facilità di lettura, di una specie di parafrasi. Vi è descritto un recinto, di pali di legno appuntiti, entro cui erano chiuse trecento o più donne, impegnate in tutti i possibili tipi di ricamo, con fili di seta e d’oro, e della miglior arte immaginabile.[42] I non pochi esempi superstiti dimostrano che que­ste lodi non sono immeritate. Le dita delle ricamatrici muovevano velo­cemente, ma le donne erano talmente povere che alcune non possede­vano neanche una cintura, tanto da apparire discinte, le loro vesti erano logore sul petto e ai gomiti, le loro camicie erano cerchiate al collo di sporcizia. Erano provate dalla fame e dal bisogno, con le facce pallide, i colli gracili e sottili. Quando si accorsero che Yvain (uno dei cavalie­ri di Re Artù) le stava guardando, si misero a piangere e, spaventate, chinarono gli occhi a terra e smisero di lavorare. Ma non per piangere sulla loro miseria. Esse sapevano che anche i cavalieri erano sfruttati, anzi condannati, in pratica, ad un servizio mortale.

Yvain cerca d’informarsi sul perché del loro pianto, e specialmente della loro miserabile condizione. La ragione era una specie di riscatto che il loro re doveva pagare, per ottenere la libertà. Così esse dove­vano consumare tutto il giorno intessendo vesti di seta, sapendo che mai avrebbero potuto acquistarsi, loro stesse, un vestito migliore di quello che ora indossavano. Per sempre, come dichiara una di loro, erano con­dannate ad essere povere, seminude, affamate, assetate, nonostante che lavorassero così duramente, perché il loro guadagno non era neanche sufficiente a sfamarsi. Il pane che potevano acquistarsi era pochissimo: un pezzo al mattino, niente alla sera, in quanto nessuna di esse riusciva a guadagnare più di 4 denari al giorno, cioè non abbastanza per il cibo e tanto meno per un abito caldo. Eppure nessuna di loro produceva meno di venti soldi con una settimana di lavoro, una somma che, di­chiarano, sarebbe bastata ad un duca per sentirsi ricco. Così, esse dico­no a conclusione dell’episodio, mentre noi siamo ridotte in tanta tnise­ria, colui per cui lavoriamo diventa ogni giorno più ricco col nostro lavoro. E noi ci affatichiamo tutto il giorno, e anche molte notti, per farlo guadagnare di più. I suoi uomini ci hanno minacciato la tortura se ci fermiamo per riposarci e così non osiamo prenderci più di un mo­mento di pausa.[43]

La testimonianza, qui riportata, è indubbiamente eccezionale, e tanto più lo diventa se si analizza meglio il contesto. Le lavoranti sa­rebbero state precettate come schiave per pagare un debito di guer­ra, ed Yvain si appresta a rischiare la sua vita contro due invincibili demoni. Questo è il quadro dell’episodio, ma il contesto è subito di­menticato ‑ tanto da far ritenere che esso sia dovuto alla necessità di giustificare, in qualche modo, il salto dal livello epico a quello dell’in­chiesta sociale. Le ragioni della tirannia sono dichiaratamente econo­miche; le donne sono totalmente libere, esse devono pagarsi il cibo e potrebbero, se ce la facessero con i soldi, comprarsi un abito caldo di lana. Il maestro che le governa non è un burocrate, ma guadagna in proprio. Lo sfruttamento è organizzato senza violenza esplicita: le ore di lavoro dipendono da un contratto a cottimo, l’internamento in un recinto permette il controllo continuo sulla qualità, l’orario e la disci­plina sono assicurate da punizioni corporali. Già il Cohen, giustamente, aveva suggerito che questa pagina riflettesse direttamente le condizioni dei tessitori dello Champagne o dell’Artois. E’ interessante il rapporto fra salario e valore del reddito prodotto: ogni lavorante è pagata 24 denari, cioè 2 soldi alla settimana per sei giorni di ricamo ininterrotto ed il valore della merce finita è 10 volte superiore. Chrétien de Troyes scri­veva per Maria di Champagne, di cui fu al servizio fra il 1173 ed il 1176, e forse la duchessa aveva particolari interessi umanitari per cui il tema dello sfruttamento femminile poteva toccarla direttamente.

Più drammatica ancora, nel quadro di una totale libertà individuale e di una servitú autoaccettata a livello di cottimo, o di ore rigidamente stabilite, la situazione dei minatori, che pur evolvendosi, ebbe certa­mente caratteri di continuità secolare, se non millenaria.[44] Sappiamo che già nel Cinquecento si usavano turni di otto ore (rispetto alle 10 ore sotto i Greci), con speciali provvedimenti per impedire che fossero con­secutivi (a causa della possibilità d’incidenti dovuti a sonnolenza), e con l’uso di lampade fornite di conta‑tempo, di richiami sonori, di comunicazioni interne con colpi battuti sulle impalcature lignee delle gallerie per mantenere un continuo contatto operativo: l’organizzazione mineraria del Cinquecento è certo una fase avanzata del processo indu­striale; le nostre informazioni dipendono, purtroppo prevalentemente dalla lettura del De Re Metallica di Giorgio Agricola, edito a Basilea in latino nel 1556, e che ebbe un’edizione italiana già nel 1563. Benché il trattato debba essere verificato sui documenti, esso riesce a dare una idea assai generale della situazione: generale nel significato di comples­so, giacché vi si tratta, ad esempio, delle malattie professionali (avve­lenamenti per agenti atmosferici, per contatto con sostanze corrosive, cadute nei pozzi per rottura di scale, per il gelo che rende scivolose le corde di sostegno, ecc.) e si accenna al progetto di un volume racco­gliente la legislazione relativa a questo ambito produttivo, che avrebbe dovuto includere ulteriori provvidenze a protezione dei minatori che non erano certo più gli schiavi dell’antichità, ma specialisti apprezzati. Agricola è preoccupato soprattutto di meccanizzare il pompaggio del­l’acqua dalle gallerie inferiori delle miniere, e rappresenta colossali sistemi ancorati a tralicci lignei che pompano, in un sistema a catena, l’acqua da un piano all’altro, facendola salire alla superficie (figg. 1 e 2). Per risolvere questo problema verrà usato nel Settecento il pistone a vapore. Egli descrive altrettanto gigantesche macchine per la ventila­zione forzata, riferendosi spesso ad esperimenti recenti, dichiarando di averli visti personalmente. Fra i pericoli del sottosuolo elenca le frane e cita un’antica catastrofe in cui perirono 400 minatori, e dà un elenco, purtroppo ancora attuale, di malattie provocate dalla polvere dei mine­rali. Ciò suggerisce una pratica secolare di lavoro.

Tutta questa organizzazione produttiva, sia nel caso delle cattedrali romaniche e gotiche, con i loro cantieri ramificati in modo da abbrac­ciare (anche in termini di proprietà) cave di pietre e marmi, depositi di sabbia. fabbriche di mattoni., fornaci di calce, foreste con alberi ad alto fusto. e con servizi includenti costruzione di strade, ponti, posti di ri­poso, carri o chiatte di grande portata, sia nel caso delle manifatture di panni che per approfittare al massimo del lavoro fatto a domicilio (e che incominciava in campagna con la filatura della lana grezza) richiedeva un ufficio commerciale, ispettori, manovali per il trasporto del prefab­bricato, depositi, stabilimenti di tintura, follatura, imballaggio e una re­te di distribuzione internazionale, per via di terra e di mare, si tradu­ceva. necessariamente, come nella città e nel territorio attuale, in una topografia caratterizzata da manufatti e rilevanze fisiche, forse recupe­rabili mediante adeguate ricerche sulle superstiti strutture murarie, as­sistite da uno spoglio ad hoc degli inventari, dei catasti e delle crona­che.[45] Questa struttura, esattamente come accade nella città ottocente­sca, o per ragioni economiche, cioè per il convergere, spontaneo, dei ne­gozi di vendita e di scambio in alcune zone privilegiate dalla rete viaria, o per ragioni legali, mediante una zonizzazione atta a consentire un automatico calmieramento (o artificiale gonfiamento?) dei prezzi per ope­ra della contiguità di ditte fra di loro concorrenti, o per preoccupazioni igieniche e di decoro (allontanando in zone periferiche, lontano dalle di­rezioni normali dei venti, le industrie ritenute nocive per i fumi, o no­iose per i rumori inerenti alla lavorazione, come fu il caso del quartiere operaio delle vetrerie di Murano, avulso per via di legge dalla città di Venezia cui faceva originariamente capo) si configura come un mosaico costituito da centri autonomi, intervallati da zone di degrado, con un valore economico della proprietà che si allinea secondo cerchi sulla base della distanza dal centro, o insiste sugli assi viari.[46] Il mosaico topo­grafico rappresenta un complesso tessuto sociale, ricco di tensioni, do­minate. regolarmente, con la violenza delle leggi, dalle categorie (leggi, Arti) degli imprenditori, che esercitano ad un tempo stesso il potere economico e quello politico, e che esprimono questo in varie imprese edilizie: costruendo la propria cappella, il proprio palazzo, parteci­pando ad opere di abbellimento urbano, e ricavandone, sempre, ulte­riori vantaggi in denaro e in autorità.

Fin qui l’archeologia può aiutarci, anche se solo recentissimamente il problema economico ha assunto l’importanza che le lotte sociali dell’Ottocento avrebbero dovuto far rilevare già un secolo fa. Ma nulla, se non il paragone con strutture urbane e sociali analoghe, ancora in fase di pre‑industrializzazione industriale, può aiutarci a ricostruire l’aspetto umano di quelle enormi macchine produttive, spietate ed incontrollate, che erano le città medioevali. Infatti solo in rare occasioni (come il mercato di Piacenza) si vede la folla che gravita, accalcandosi, attorno ai centri di potere, o, in modo più capillare, ma altrettanto vasto, il contado che corre alla città per smerciare i suoi prodotti. La città doveva essere soprattutto folla: nelle piazze, nelle strade (come la calca dei turisti nelle mercanzie di Venezia), sui fiumi (ponte Vecchio è certamente l’erede del floating market di Firenze sull’Amo), nei vicoli, nelle osterie., e, per viverci, nelle cantine e nei sottotetti, in una situazione perenne di congestione, promiscuità, provvisorietà, anche se la mobilità verso l’alto, presumibilmente, richiedeva, come oggi, nei casi migliori almeno una generazione. La città del Milleduecento, ma ancor più quella del Trecento e del Duecento va letta e capita alla luce delle favelas di Rio, delle case sull’acqua di Hong Kong, giacché sono nate da masse di contadini urbanizzatisi come fuggitivi, in speranza di una libertà che fosse anche economica[47]; i loro mercati possono essere capiti solo sulla base dell’esperienza di quelli boliviani e peruviani, purtroppo già mescolati per indigeni e per turisti (e che hanno alle spalle un’organizzazione assai evoluta che si serve di camioncini per il trasporto, in loco, delle venditrici coi loro figli e delle merci). E non solo ladri e prostitute arricchivano (ed arricchiscono) la scena, ma agitatori sociali e sindacalisti professionali; un documento di polizia già pubblicato alla fine del secolo scorso ne designa, senza alcun dubbio, la presenza.[48]

Vari simili parametri, validi oggi, possono essere usati per settecento, seicento anni fa. Come l’inquinamento dei fiumi, a monte, a causa dell’eccessivo uso di concimi, per aumentare la produzione degli orti subito al di fuori delle mura, a valle per gli scarichi delle tintorie.[49] Come la necessità di migliorare, continuamente, le condizioni della rete stradale di accesso alla città. Come il moltiplicarsi, infrenato nonostante severe leggi, dei mulini galleggianti o azionati da canali artificiali, per soddisfare le esigenze di quartiere. I dati statistici, sulle manifatture, come quelli forniti dal Villani che parlano di 200 botteghe laniere, con circa trentamila operai, capaci di produrre fra le settanta ed ottantamila balle di lana all’anno. non sembrano esagerati. Firenze, d’altronde, è una città manifatturiera come molte altre, e così resta a lungo, nonostante la decadenza economica ed il rinnovo monumentale che parrebbe determinato da essa (e certo non dipende, tout‑court, da una generalizzata affluenza). E Firenze, che siamo soliti a considerare una città privilegiata, in realtà era vista ancora nel 1404 da un suo descrittore, il Dati, come una città industriale:

 

quasi per lo mezzo della città passa il fiume Arno, e nel suo principio sono in sulla parte di mezzodí molte mulina di meravigliosa bellezza, di maesterio di pietra; poi infra la città sono quattro ponti tutti di pietra concia, e scarpellata gentilmente, e fra gli altri ve n’è uno, insul quale da ogni parte sono bellissime botteghe d’artieri [...] poi alla fine della città dalla parte di tramontana sono in sul fiume dentro alla città molte altre mulina, che tra tutte macinerebbero quasi tanta farina, quanto bisognasse alla città dentro, che ne bisogna ogni di cento moggia.

 

La città, inoltre, era dominata al suo centro da un immane castello di legno, che cresceva di anno in anno, con macchine sospese sempre più complesse, per sollevare prima mattoni e pietre, poi marmi; alla fine tutta la sommità della cupola divenne una sola grande gru rotante in circolo.[50]

Questa città è intenzionalmente esclusa, tranne poche eccezioni dalle descrizioni e dalla pittura[51] (anche Boccaccio è molto abile nell’al­ludere ad essa, ma nell’evitarla come soggetto) come la tecnica è esclusa dalla filosofia. Ma, a parte i costumi, i dialetti, i monumenti locali, essa ci è notissima. E’ infatti quella delle stampe di Doré su Londra nell’Ot­tocento, o delle foto di Rijs sulla vita degli emigrati senza lavoro a New York. Siamo noi, abilmente travisati dall’idea di un Medioevo roman­tico, arcadico e religioso, a cancellarla continuamente dalla mente. E a sottovalutare la condizione di miseria e di sfruttamento, di lotta di classe e di tensione, di violenza e soggiogazione, di battaglia senza ri­tegno per la conquista di ulteriori mercati, che sono tipici della città che produce: cioè trasforma e specula, approfittando della differenza fra basso costo del lavoro ed alto costo del prodotto finito, contando sulla difficoltà, senza una base finanziaria, di stabilire altre ditte in con­correnza, servendosi di quel continuo ricatto che è costituito dalla pos­sibilità del datore di lavoro di scegliere i suoi operai, e dalla necessità dei disoccupati di presentarsi come candidati, e di accettare ogni scelta. Inoltre la città stessa è precaria, in quanto è parte d’un ciclo incom­pleto: produce per un mercato lontano mediante materie prime che provengono da posti a volte sconosciuti, alimenta società che hanno succursali altrove, dominate da signori che nascondono, senza investirlo, il capitale nella stanza più protetta del loro palazzo, quasi con il piede in posizione di fuga, con i sacchi d’oro pronti per i muli e i cavalli tenuti nelle stalle accanto.[52]

E poiché il processo di manifattura era una specie di montaggio, se non di parti, di fasi successive di lavorazione, che richiedeva spostamen­ti, materiali della lana. ma, nello stesso tempo, un calendario rigido e preordinato, come nella industria moderna, dipendeva per le materie prime e per le vendite da un mercato internazionale che era costruito mediante rapporti diplomatici ad alto e basso livello, era cioè una organizzazione commerciale assai più complessa di quanto si soglia rica­vare dai registri di spese e incassi a partita doppia, non c’è da meravi­gliarsi che il terziario fosse notevolmente espanso. Non ho dati dispo­nibili per città medioevali, ma penso possa essere utile, pur con un in­tervallo di secoli, citare le accurate statistiche fornite da John de Witt in The True Interest and Political Maxims of the Republic of Holland and West Friesland. London 1702 (già edito in olandese ma anonimo nel 1662) che divide a quel modo la popolazione del suo paese (cfr. ta­bella p. 194).

Tale, almeno, era l’immagine sociale d’una nazione in piena pro­sperità economica, come appariva ai contemporanei. Le nostre città me­dioevali, quelle rinascimentali durante i momenti di ripresa, dovettero presentare un aspetto non molto diverso; le stesse lotte contro le arti, che tendevano a limitare l’uso di macchine e di addizionali maestran­ze, le stesse necessità d’incentivazione economica mediante privilegi, esenzioni, fondi iniziali a perdita, come avvenne, infatti, di frequente in età comunale. L’industria e le manifatture, a parte i complessi mine­rari, erano peraltro un fenomeno tipicamente urbano, e la città, come tale, non deve essere cambiata moltissimo.

 

 

 

 

450.000

= 18,75%

addetti alla pesca ed alla lavorazione e commercio del pesce

200.000

= 8,33%

contadini

650.000

= 27,08%

impiegati “in ogni sorta di manifatture, cantieri, opere d’arte, lavori ineccanici o artigianali da ven- dersi all’estero, e nel conunercio relativo a tali manifatture”

250.000

= 10,43 %

nella navigazione di trasporto di merci

650.000

= 27,08%

addetti a forniture di cibo, bevande, abiti, alloggio, mobili ed altri oggetti d’arte, di confort, lusso od ornamento

200.000

= 8,33%

fra pubblici funzionari, uffìciali, rentiers, soldati, ecclesiastici, poveri in ospizio e mendicanti.

2.400.000

 

 

 

Il panorama socio‑professio­nale della Napoli del Seicento, quale risulta dai processi matrimoniali, che registrano la professione dei futuri sposi, permette di stabilire le seguenti percentuali:

 

 

 

 

Nobili, viventi del proprio, esercenti professioni liberali e impiegati

1.173

11,18%

Addetti ai servizi

1287

12,21%

Addetti al commercio

2.094

19,97%

Artigiani

3A47

32,87%

Marinai e pescatori

735

7,01%

Militari

397

3,79%

Addetti all’agricoltura

846

8,07%

Altri

507

4,84%

 

10.486

 

 

 

 

 

 

 

Gli artigiani rappresentano pertanto il 33% della popolazione, men­tre gl’implicati in attività terziarie sono il 32% circa, la pesca e l’agri­coltura è ridotta al 15%. Perduta, purtroppo quasi completamente, è anche la tecnologia di questi mestieri, raramente documentata in im­magini, quasi mai conservata negli strumenti. Manca d’altronde, per l’Italia un corpus, che chi scrive sarebbe tentato di fare, di raffigura­zioni della vita profana le quali, nell’insieme, e quindi raccolte siste­maticamente, si moltiplicano se non di numero, d’importanza: come quando si vedono nel castello d’Issogne tutte insieme le botteghe dipin­te sotto il portico del cortile.[53]

La discussione, qui proposta, sui limiti cronologici dell’archeologia industriale, ha, ovviamente delle finalità pratiche, una delle quali è di impedire una settorizzazione che oltretutto contrasta con il senso mo­derno, globale, dell’esperienza storica ed è particolarmente spiacevole là dove si vorrebbe discriminare. sulla base di preconcetti indimostra­ti, sulla qualità stessa del lavoro umano e sulla sua dignità. L’aspetto scarnificato, scraped della città medioevale, come ci è giunta, è d’al­tronde il risultato di un restauro finalizzato da ideologie puriste e settoriali che hanno condotto più a falsificazioni, censure, che a ripri­stini. Un secondo fine è di approfittare della moda presente per un rilancio della storia della scienza e della tecnica, che va fatta, anzitutto, leggendo quanto è già stato pubblicato, mentre troppo forte è la ten­tazione di basarsi su opere generali o addirittura divulgative, che tra­scurano largamente i contributi specifici, specialmente quando questi sono difficili da inquadrare in una semplice sintesi ed ancor di meno analizza i reperti archeologici o i disegni. Per le ragioni su esposte, non solo tutto il periodo precedente al secolo XVIII è sottovalutato, ma è espulso dal discorso come se non presentasse problemi[54]: gli esempi sono numerosi ed ovvii, e ci fermeremo perciò solo su due di essi: cioè i volumi di A. E. Musson - E. Robinson, Scienza e tecnologia nella rivoluzione industriale, edito originariamente a Manchester nel 1969, tradotto nel 1974 dal Mulino, e Pierre Dockés, Lo spazio nel pensiero economico dal XVI al XVIII secolo, Parigi 1969, tradotto da Feltrinelli nel 1971. I primi due autori, parlando degli antecedenti scien­tifici della rivoluzione industriale, girano attorno a due insostenibili de­finizioni: che nel Cinque e Seicento non ci fosse alcuna “interazione fra teoria e pratica,”[55] che “principi di derivazione teorica non venissero impiegati in alcuna branca dell’ingegneria”. Essi hanno qualche incer­tezza, riguardo a Leonardo (e sono sorpresi dai risultati forniti da B. Gille in Les ingénieurs de la Renaissance, Parigi 1964, ma si affrettano a concludere “Vi è forse qualcuno che crede realmente vi sia stata nei secoli XVI e XVII una rivoluzione nell’ingegneria? La grande maggio­ranza degli studiosi non riconosce forse che i progressi verificatisi in questi secoli furono soltanto un preludio alla rivoluzione industriale?”

Apriamo allora una delle raccolte di meccanismi e progetti, che sono diventate una parte essenziale della biblioteca rinascimentale e barocca, scegliendo per la sua data e per il suo testo poliglotto (che le dà il valore di compendio di sforzi non solo italiani,‑ma europei, non solo d’inventare ma di divulgare le invenzioni realizzate ‑ quando possibi­le ‑ per mezzo della stampa), cioè le Macbinae Novae di Fausto Ve­ranzio, Venezia 1595.[56] Troviamo, pressappoco in quest’ordine, il pro­getto per uno smaltitore delle piene del Tevere, mediante taglio da operarsi attraverso l’attuale quartiere di Prati, commentato da una re­lazione tecnica elaborata e precisa, paragonabile a quelle famose degli idraulici olandesi del Seicento, dal Mejer in poi, mentre analogo taglio venne riproposto nell’Ottocento; lo schema di un ponte per Vienna, ca­pace di resistere alle piene causate dal disgelo dei fiumi (che ovviamente risale al mitico ponte sul Reno di Cesare, si serve di esperienze moderne come il ponte di Bassano del Palladio, ma cui si accompagnano ora elaborati schemi per ponti sospesi mediante funi o catene di ferro, forse suggeriti, i primi, dagli esempi descritti dai viaggiatori del Perù o a traliccio ligneo), disegni per teleferiche e traghetti. All’idraulica si ri­feriscono anche le idee proposte per fornire d’acqua, tramite fontane pubbliche, Venezia (la cui peculiare situazione, che impediva di con­durre l’acqua mediante condutture, aveva già suggerito nel Quattro­cento. e forse prima, l’idea di pozzi artesiani, ben rappresentati da Giovanni Fontana, il Taccola, ecc.). Troviamo inoltre pompe e muli­ni.[57] Ben cinque illustrazioni sono dedicate a ciò che oggi chiameremmo meccanizzazione dell’agricoltura; vi si suggerisce, in modo assai cor­retto, di riorganizzare in modo diverso i lavori nei campi, sostituendo operazioni più semplici a quelle lente e penose tradizionali: il Veranzio propone così di tagliare a metà i covoni, per ridurre il trasporto alle sole spighe; ed introduce, sulla base di procedimenti constatati da lui personalmente in Germania, macchine composite, plurifunzionali, ca­paci di ridurre a metà i tempi di semina e raccolta.[58] Anche quando lo scrittore non cita, esplicitamente, le sue fonti, o il contesto culturale cui si riferisce, dimostra di agire sotto la sollecitazione di esigenze reali: il mulino mosso dalle maree venne, come è noto, costruito in Normandia e in Bretagna nel secolo XVI, sembra anzi essere stato sperimentato nella laguna già nel secolo XI, è descritto dal Palissy e ricompare, documentato, in Olanda, presso Brooklyn, nel 1637.[59] Il pubblico cui il Veranzio si rivolge è altrettanto internazionale: lo di­mostrano le didascalie, composte in cinque lingue: latino, italiano, spagnolo, francese, tedesco.

Non sarebbe impossibile trovare precedenti ai modelli del Ve­ranzio in trattati precedenti, e nelle ancora amplissime collezioni di di­segni scientifici inediti, creando una catena che dimostra continuità e sedimentazione progressiva d’esperienze. Dove il materiale manoscritto e stato edito in misura consistente. l’impressione che se ne ricava non è di scarsezza, ma di sovrabbondanza di documentazione, e di insisten­za, quasi concorrenziale, sopra alcuni temi: lo dimostra benissimo la semplice consultazione del codice monacense di Giovanni Fontana, dei taccuini del Taccola, di Francesco di Giorgio Martini, di Bonaccorso Ghiberti.[60] inoltre dal Quattrocento, talora, è possibile muovere più a monte. fino al famoso taccuino di Villard de Honnecourt e a mano­scritti bizantini, sull’arte della guerra, e a quelli arabi sugli automata.

Una notevole difficoltà è peraltro costituita da un mutamento ra­dicale del modo di rappresentare i meccanismi avvenuto durante il Quattrocento. Essi venivano prima indicati nelle singole componenti, come se si trattasse d’istruzioni per il montaggio, senza nessuna cura per la scatola che li conteneva o li coordinava, e senza rispetto per le reciproche dimensioni reali dei vari pezzi, giacché la gerarchia di misura tendeva piuttosto a corrispondere ad una gerarchia d’importanza. Gli esempi del taccuino di Villard de Honnecourt appartengono in parte a questa categoria, ed ancor più le miniature dei trattati islamici sugli automi, che devono essere completamente ridisegnate secondo schemi moderni per divenire comprensibili.

La rappresentazione prospettica, dal Quattrocento in poi, che segnala con cura i volumi, le parti d’ingombro e si preoccupa di mantenere dei rapporti di scala fra i vari elementi, non è priva di svantaggi, cioè fattori d’incomprensibilità, tuttavia ci permette un immediato riferimento ai meccanismi di ieri e qualche volta di oggi, che abbiamo visto in funzione, e che ci siamo abituati a interpretare prospetticamente. Basterebbe quindi tradurre gli schemi del Due e Trecento in quelli prospettici per avere prova più di una continuità, che di uno stacco. Ecco un esempio, relativo alla lavorazione dei cannoni di bronzo, una delle operazioni più complesse richieste dall’arte moderna della guerra. Una volta fuso il corpo d’artiglieria, cioè la canna, è necessario rifinire e rettificare il cilindro interno, pulendolo dalle scorie e rendendolo liscio. Biringuccio, nel VII libro della Pirotechnia, 1540, descrive e rappresenta un gigantesco tornio, capace di perforare per rotazione d’una punta tagliente, le canne piene. Il pesante cannone è posto su un banco m’obile, e fatto scorrere orizzontalmente su guide in modo che si avvicini progressivamente alla punta rotante. La trazione verso di essa avviene manualmente, mediante argani e corde. La punta è messa in moto da una gigantesca ruota, entro cui camminano due uomini e spunta da unpasta posta nell’asse di questa, servendo anche di sostegno e rullo alla ruota. Particolari consigli sono dati per evitare Poscillazione della punta, che avrebbe determinato irregolarità nell’esecuzione del foro. La xilografia che accompagna H testo (fig. 5) riproduce due volte la ruota con la punta, una volta isolatamente, la seconda in funzione mentre si avvicina alla bocca (o ne fuoriesce). Se si integra, minimamente, il meccanismo con i necessari supporti, tralicci, ecc., a parte la mancanza d’una fonte di energia artificiale (insufficiente o mal controllabile era forse l’acqua), non si notano differenze sostanziali da un tornio moderno. La stessa macchina, peraltro, era già stata descritta ed illustrata in un manoscritto del 1430 circa (fig. 6) che riproduce bombarde e cannoni usati durante la guerra ussita, anzi in certo senso lì appare più moderna e complessa. L’energia è data dall’acqua; il trascinamento del pezzo è facilitato da un grosso rullo, e potrebbe essere semiautomatico. Biringuccio, avendo a che fare con un peso maggiore, rinunzia alle eccessive sofisticazioni. Il tornio del 1430 c. serviva infatti a scavare, all’interno. dei tronchi d’albero, per trasformarli in condotti d’acqua. Leggiamo la descrizione:

 

Questa è una macchina per scavare tubi; la gente di Norimberga ne ha costruita una con la quale si scavano quindici tubi al giorno. lunghi ciascuno diciotto piedi. Con questi tubi si costruiscono fontane.

 

Vediamo, infatti, nella xilografia, vista zenitalmente dall’alto, la ruota azionata da pale, quindi ad acqua, con il trapano al suo asse; il tronco da trivellare è tenuto allineato da supporti e sospinto forse da una vite senza fine verso fa punta rotante. Esso appoggia su un tamburo di legno che lo trasporta. L’intero meccanismo è tenuto sollevato dal suolo da vigorosi piedi, presumibilmente metallici, che fanno anche da supporto al trapano ed alla sua ruota. L’efficacia della lavorazione do­veva essere notevole, se si poteva scavare un tronco di oltre 10 metri in meno di un’ora.

Biringuccio quindi, come un ingegnere d’oggi, non inventa una nuo­va macchina. ma ne adatta una preesistente a una diversa funzione servendosi di esempi precedenti,[61] cioè dalla rapida perforazione del le­gno alla lenta tornitura dell’anima d’un tubo o d’un cannone bronzeo. Il sistema di avanzamento orizzontale del pezzo da lavorare, ed il con­trollo della sua posizione è, ancora più antico in quanto risale alle se­gherie automatiche mosse dall’acqua, di cui gli ultimi esemplari in funzione stanno scomparendo in questi anni nelle vallate alpine, e che sono testimoniate, fra l'altro, dal ben noto disegno di Villard de Honnecourt (fig. 3). Nell’album dei famoso architetto la gigantesca macchina è vista di nuovo zenitalmente, in modo da chiarirne il com­pleto automatismo. Una volta, collocato il legno da segare ad assi tra pioli verticali che ne assicurano l’immobilità durante la lavorazione, la ruota ad acqua si mette in movimento. Al suo asse è connesso un cilin­dro a denti, che fa avanzare progressivamente il tronco verso la sega, che scorre in questo caso orizzontalmente. Il cilindro è anche fornito di quattro pali, che battono alternativamente su supporti, obliqui, della sega, spostandola verso sinistra. Ma quando cessa la pressione del palo, la sega, guidata da un tronco d’albero che funge da gigantesca molla, ritorna a destra, con un continuo movimento a zig‑zag che permette di segare ogni tipo di legno. Ogni giro di ruota dà luogo a quattro colpi di sega. Non è indicato come si raggiunga il sincronismo con l’avanzamento del tronco, ma più che attraverso lo srotolamento o ar­rotolamento di funi, questo doveva essere provocato dal battere d’una ruota dentata su scanalature d’un cilindro sorreggente il tronco. Ab­biamo piena evidenza della ingegnosa trasformazione di un moto circo­lare in uno orizzontale, di direzione invertibile, a scatti alternati, e c’è un astuto recupero d’energia, con la grande molla costituita dall’al­bero. Assai simili erano i mulini idraulici che abbiamo visto al la­voro, sulla riva dei torrenti dell’Alto Adige, fin dopo la seconda guerra mondiale (fig. 4).

Mi riferivo negativamente poco fa, ad un’altra recente pubblica­zione di carattere generale, cioè a Lo spazio nel pensiero economico dal XVI al XVIII secolo, di Pierre Dockès. Il tema è affascinante, il taglio cronologico è legittimo, in quanto privilegia la grande organiz­zazione statale di tipo moderno e permette di analizzare, all’origine di un rinnovato momento di crescita, la funzione economica della grande città, ecc. Ma nell’excursus iniziale, dove si parla di strade, di fiumi navigabili, di flotte, sembra che l’economia moderna nasca, e assai tar­divamente, alla fine del Cinquecento sotto Enrico IV, dimenticando che la nuova Europa nasce, caso mai, sulle fondazioni di quella tardo medievale, o addirittura entro le sue stesse strutture. La continuità, impressionante, indicata dal Gimpel nell’uso degli stessi luoghi, per dighe e sbarramenti, fino alle moderne centrali idroelettriche, la per­sistenza di acciaierie a volte là dove i primi forni vennero costruiti durante la preistoria, dovrebbe far pensare.[62] Ogni abbazia, per quanto piccola, tendeva ad essere un centro artigiano o industriale:[63] dovreb­bero moltiplicarsi, in proposito, gli studi pionieristici, come quello di Nadine Marchal, che ha identificato e ricostruito dai resti murari, la fisionomia d’un mulino a tre ruote nell’abbazia di Floreffe, nel Bel­gio, ipotizzando ch’esso servisse, come un altro a Villers, per la prepa­razione della birra.[64] L’edificio da lei trovato, a forma di L, disponeva d’una canalizzazione sotterranea. La pianta, pur schematica, di San Gal­lo, degli inizi del secolo IX, disponeva di un sistema idraulico perfetta­mente coordinato, atto ad alimentare importanti manifatture. Ma i do­cumenti raccolti dal Bloch e da altri indicano una prodigiosa moltipli­cazione dei mulini, cioè una distribuzione capillare, su tutto il terri­torio, dell’industria di base,[65]  e la necessità di difendere i monopoli a volte addirittura con atti di guerra.[66] La legislazione, più ancora che il mutamento tecnologico, ha sempre agito in modo repressivo, quindi a favore delle strutture più potenti, politicamente ed economicamente, e quindi più facili a modernizzazione. Un’ottima documentazione su Ve­rona, dovuta a G. Beggio, permette di avere sotto gli occhi, tramite fotografie, la situazione di autentica congestione dell’Adige nel tratto urbano, che prima degli sfondamenti doveva essere inimmaginabile: nel 1687 ci sarebbero stati circa 400 mulini galleggianti, ancorati a più file sia nel fiume maggiore, che in altri corsi d’acqua.[67]  La media, in genere, era per l’Europa di un mulino a grano per ogni 50 famiglie, mentre ovviamente minore, ma non bassa, era la percentuale di quelli d’uso industriale, talvolta concentrati in speciali zone di produzione, sia urbane che territoriali. Il ritmo stesso della scomparsa o della cessazione di attività dà l’idea del loro numero antico. In Val Camonica, secondo i dati raccolti da Stefano Poni, da 120 officine nel secolo XVIII si è ca­lati alle 72 del 1873, alle 24 del 1974.[68] Non c’è d’altronde nulla di più fragile, economicamente ed architettonicamente, di un’industria, i cui involucri murari sono soggetti a frane, inondazioni, saccheggi di materiale; il cui abbandono, in pochi anni, conduce al crollo totale, o al­la ritrasformazione. L’apocalittica visione delle gigantesche rovine, con­sistenti solo più di mura scoperte e di un alto forno, delle ferriere borbo­niche a Mongiana, presso Serra San Bruno in Calabria, potrebbe anti­cipare la situazione della Fiat Mirafiori fra cento anni, o anche meno, se dovesse prolungarsi la crisi economica, o se la produzione calasse al di sotto del costo di manutenzione degl’impianti. In altre parole, tutto fa ritenere che lo spazio economico ed industriale europeo dei secoli precedenti ai secoli XVI‑XVIII fosse più differenziato di quello odierno, mentre il coordinamento commerciale e l’impero creato dai mercanti era estremamente più efficace e senza paragone più ampio. La con­quista delle Americhe non ha forse pareggiato la perdita dell’Asia.

Un secondo aspetto trascurato, e già abbiamo dato alcuni dati di­mostrativi nelle pagine precedenti, é quello della densità di produzione. Purtroppo le statistiche per i periodi più antichi non sono facilmente de­cifrabili: ma quelle che precedono il periodo trattato dal Dockès indi­ziano una situazione fervidissima. Per restare a Verona, secondo le annotazioni di Pietro Morosini, la produzione della lana sarebbe andata in progressivo declino, passando dai diecimila panni prodotti nel 1601 a duecento; cosicché nel 1646 “dove c’erano descritti 300 e più per­sone oltre un numero grande di operai ora sono ridotte al numero solo di 23”; la seta invece lavorata da 1.400 telai, sarebbe salita di produ­zione dal 1575 al 1612 di un terzo, cioè da 150.000 libbre a 200.000, stabilizzandosi verso la metà del Seicento sulle 300.000 libbre, cor­rispondenti a circa 91 tonnellate annue (la produzione totale italiana del 1974 fu di 160 tonnellate, e certo nessuno penserebbe di escluder­ne i fabbricanti dalle associazioni industriali solo perché è inferiore a quelle delle fibre sintetiche). Per ottenere questo sbalzo di produzione non era necessario solo moltiplicare i telai, cioè l’incentivo economico e la preparazione tecnica alla tessitura specializzata, ma creare un com­pleto ciclo produttivo, che incomincia con le foglie di gelso, necessarie ai bruchi, e termina con magazzini di esposizione ed alberghi per i rap­presentanti di commercio venuti a scegliere la merce. La città in altre parole deve impadronirsi di un vasto territorio ed organizzarlo, fra l’altro, con piantagioni, canali, strade, porti e canali.

E’ molto probabile che anche la lavorazione fosse concentrata in luoghi specialmente organizzati, invece che affidarla completamente a domicilio. Non ci sono.ancora dati disponibili per anticipare al Seicen­to e a prima la situazione nota nei primi decenni del Settecento, ma tutto tende a far ritenere che tagliare la storia, in due parti distinte sulla base d’una presunta diversa organizzazione del posto di lavoro, e arbitrario. Ovviamente. la tecnologia della seta richiedeva altre mac­chine, ed il perfezionamento dei telai fu un elemento essenziale per la moltiplicazione del prodotto. Verona nel Seicento, probabilmente non conosceva nulla di analogo al mulino di Derby, in Inghilterra, costrui­to nel 1716‑1717, con 25.586 ruote, cioè avvolgitoi, ecc. al costo di 30.000 lire sterline, impiegando, nel 1732, trecento operaie. Ma il bre­vetto di quel filatoio era italiano, e fu introdotto in Inghilterra solo per un abile spionaggio industriale; inoltre, calcolando tutta l’Italia settentrionale, forse la produzione restò a lungo superiore a quella in­glese, nonostante la minore dimensione degli stabilimenti: non piccoli, se occupavano in media, nel Bergamasco, 183 operai ciascuno, nel Ve­neto 97 circa. I filatoi meccanici, globalmente, erano 224 nel territorio sottoposto al dominio veneziano.[69]

Testimonianze di fabbriche cioè di strutture costruite appositamen­te per uno speciale tipo di lavorazione, non mancano d'altronde, neanche per epoche lontanissime. Esse, inoltre, assunsero, ancor più di quelle moderne, un carattere residenziale, sia per pochi operai che per parecchie centinaia di lavoranti, e subito si ha notizia del costituirsi di villaggi operai attorno a miniere (come quelle di allume scoperte dal mercante genovese Benedetto Zaccaria nel Mar Nero, attorno a cui si costituì un abitato di tremila minatori).[70] Anzi furono proprio codeste città operaie ad alimentare alcune delle rivolte che accompagnarono la riforma protestante.[71]

Per fabbrica, peraltro, va inteso qualcosa di più complesso e semanticamente più ampio di quello che sia lo stabilimento contemporaneo. La natura è un elemento integrante, non solo come acqua, ma anche per la continua presenza di animali, e come oggi si vede quasi solo più nel Kentucky, anche la produzione specializzata di cavalli avevá aspetti di meccanizzazione e di organizzazione globale. E' stato possibi­le ritrovare i resti della famosa stalla per 128 cavalli di Leonardo da Vinci per i Medici,[72] oggi inglobata nel rettorato dell’Università di Firenze, il cibo era fatto cadere dall’alto, ed acqua corrente trasportava via i detriti organici, riutilizzati come concime. Francesco di Giorgio aveva costruito, anni prima, un’ancor più grandiosa stalla, per il Duca di Urbino, per 300 cavalli, parzialmente superstite nonostante le sue ragguardevoli dimensioni di c. 120 metri per 10. Vale la pena di leg­gerne la descrizione, che spiega anche le funzioni di quella medicea. L’edificio era a due piani, con il piano terreno voltato, adibito alle stalle vere e proprie, e quello superiore ai servizi: lì si teneva

 

el fieno e paglia, con buche quadre per le quali la pabulazione da basso si man­da [..] Appresso di quella sono più stanzie [cioè più locali coperti]; la prima è un atrio o ridutto per cavalcare e scavalcare e ferrare li cavalli, in nel quale è una fonte con due abbeveratoi, la quale ha uno canale che passa sotto la mangiatora coverta, con più chiavi o vero cannelle per le quali in diversi luoghi della stalla si può dare l’acqua, e per questa mangiatora si manda per uno canale che si chiude et apre a ciò che la stalla si possa nettare da ogni immun­dizia. E a questo effetto è alquanto pendente e bassa in mezzo, la quale pendenzia serve ancora al posare delli cavalli, i quali vogliano stare dinanti più alti. Ap­presso alla fonte è una stanzia da tenere la biada et orzo, e la stanzia del maestro di stalla è sopra queste anteditte in luogo che può vedere tutta la stalla a sua volontà. Apresso alla sua è la stanzia per li famegli. Apresso alla stanzia del maestro di stalla e famegli è una stanzia nella quale ponno fare medicine, ma­scalcie, acconciare selle et altre cose necessarie. Ultimo in uno torrone apresso di quelle è una scala a lumaca per la quale si può ire a cavallo, solo per lo signore reservata, per la quale el signore può senza esser visto vedere tutta la stalla e quello che fanno tutti li famegli e maestro di stalla. La qual cosa essendo al maestro di stalla nota et alli famegli, è cagione di farli per timore rettamente operare. [73]

 

Ecco dunque già il panopticon, punto di osservazione centrale, pro­tetto e segreto, a cui l’intero complesso obbedisce: come sarà istitu­zionalizzato da Ferdinando Fuga per la Casa di Correzione a S. Michele a Ripa, in Roma, nei progetti eseguiti fra il 1734 ed il 1735. Del resto l’organizzazione a croce diffusasi in Lombardia già prima dell’Ospedale Maggiore di Milano del Filarete facilitava analogamente la sorveglian­za., cosa che risulta anche più evidente nell’ospedale di Toledo.[74] A correre su questa strada uno sarebbe tentato di inserire, come fabbrica a guarire o ad escludere dalla società dei sani, ospedali (che a volte erano scuole e carceri) e lazzaretti.[75] Il termine ospedale, ospizio, d’al­tronde, più che essere un reclusorio passivo, ha significato, per secoli, un centro di educazione o riabilitazione, destinato ad immettere in un ciclo di produzione artigiana o manifatturiera fanciulli abbandonati, prostitute, emarginati sociali, con l’uso quindi di orari di lavoro, di comportamenti coatti e di una costante sorveglianza, sia all’interno che all’esterno dell’istituto, quindi, dovrebbe esser considerato l’antenato della fabbrica.[76] I dati documentari di cui disponiamo per gli ospizi quat­trocenteschi di codesto tipo sono insufficienti, ma ultimamente inco­minciano ad emergere notizie organiche circa imprese gigantesche, co­me, l’Albergo dei Poveri di Genova fondato nel 1656, per accogliere almeno 4000 reclusi, sfruttati come lavoro nero, tenuti in condizioni di mera sussistenza,[77] come accadrà un secolo dopo a Napoli, col progetto del Fuga del 1751, solo parzialmente eseguito. I due grandiosi com­plessi, superstiti, anche se minacciati di inconsulte trasformazioni inter­ne, a cui va affiancato l’Ospizio di San Michele a Roma, iniziato nel 1691 ed oggi anch’esso in rifacimento, pur non essendo in origine ri­volti ad una sola operazione manifatturiera, dovrebbero fornire delle indicazioni che potrebbero andare assai al di là della cronaca speci­fica. Infatti, pur nei limiti dell’assistenza pubblica, della costrizione al lavoro, dello sfruttamento e della disorganizzazione tipica di queste mac­chine burocratiche, ad un livello di sfruttamento mai mascherato da considerazioni morali, un complesso come l’Ospedale Generale di Pa­rigi o l’Albergo dei Poveri di Genova, di cui Elena Parma ha promesso di pubblicare le ordinanze interne, potrebbe essere subito paragonato alle manifatture o industrie di stato francesi,[78] dove il lavoro era di fatto militarizzato, ai cantieri navali, cui il Fourier ed altri vorrebbero ricondurre, nel Sei‑Settecento l’origine del sistema moderno di lavoro (orario incluso), e soprattutto al Falangsterio di Fourier, le cui dimen­sioni sono addirittura minori, l’organizzazione più semplice, a Genova il complesso, di 10.000 mq. circa, a cinque piani, con quattro cortili, era destinato ad accogliere almeno 4.000 persone, con percorsi diffe­renziati secondo i sessi e le categorie sociali; Fourier pensava di par­tire con 80‑100 famiglie, facendo al massimo lavorare 1.500‑1.600 persone. E' ben vero che la forza coesiva sarebbe stata l’attrazione e non la repressione, ma si può sorridere su tanto ottimismo almeno quanto lo facciamo sulla speranza dei genovesi ‑ forse solo più ipo­crita ‑ di costruire

 

non baluardo da battere la città in tempo d’assedio[…]  ma una fortezza inespu­gnabile per difenderla dallo sdegno di Dio e dalle insidie degli uomini. Non sepolcro dell’oro, né laberinto dove si perdono le ricchezze de’ Genovesi, ma una basilica della pietà, una Reggia della Misericordia, una città di rifugio per qua­lunque miserabile, un erario inesatto della Provvidenza, un aperto teatro della carità christiana [...][79]

 

Analogo fallimento avrebbe avuto, a metà strada fra i due esperi­menti, il tentativo, a Caserta, di unificare sotto un solo tetto tutti gli uffici burocratici del regno di Napoli.

Ma è tempo di ritornare dagli “ergastula”, dove, secondo la con­vincente definizione data da Isidoro di Siviglia, agli inizi del secolo VII, che indica chiara consapevolezza di questi problemi sociali: “deputantur noxii ad aliquod opus jaciendum”, all’ergasteritim”, cioè locus ubi aliquot fit”.[80] Avevamo supposto che nella descrizione delle ricamatrici chiuse in un recinto. secondo la descrizione di Chrétien de Troyes, emergesse una condizione reale di lavoro, magari innobilita e drammatizzata. Nel 1597 il tema è ripetuto, applicandolo alla me­moria di un leggendario pannaiolo, Jack di Newbury, morto nel 1519,[81] allorché si erano già iniziate manifatture accentrate con lavoro svolto da tessitori salariati già inquieti e ostili alle macchine. [82] Non interessa qui se la situazione descritta appartiene all’inizio, o alla fine del secolo; neppure conta il numero reale dei lavoranti: basta chesso sembrasse, in certi limiti, verosimile

 

In una stanza, che era larga e lunga,

Stavano duecento telai molto robusti.

Duecento uomini, questa è la verità,

Accanto a ognuno di loro un ragazzetto

Sedeva tutto allegro a far trapunte,

E in un altro posto lì vicino

Cento donne allegramente

Cardavano la lana con buona lena e buon umore

E cantavano sedute con limpide voci,

E in una stanza vicina

Si trovavano duecento ragazze […]

Queste graziose ragazze, senza mai interrompersi

Filavano tutto il giorno in quel luogo,

E così filando con voci intonate

Come usignoli cantavano dolcemente.

Poi essi entrarono in un’altra stanza

Dove c’erano dei bambini poveramente vestiti,.

Ognuno dei quali sedeva scegliendo la lana

E separando la più fine dalla più ruvida:

Erano in tutto centocinquanta,

Figli di povera gente senza mezzi,

E come compenso del loro lavoro

Prendevano alla sera un penny ciascuno,

Oltre a mangiare e bere tutti i giorni.

 

La descrizione poetica parla poi di cinquanta cimatori, di ottanta loro aiutanti, di quaranta tintori, di venti altri operai occupati nella fel­tratura, per un totale di 1.040, di cui 300 donne e 350 bambini. Possiamo decurtare il numero totale, ma le proporzioni, presumibilmente, restano. Non conosco resti architettonici, o schemi grafici relativi a fi­lande, per il Cinque ed il Seicento; ma abbiamo in cambio la più accurata descrizione che si possa desiderare, con pianta misurata, d’uno sta­bilimento, precisamente d’una fonderia, illustrata dettagliatamente dal­l’Agricola all’inizio dell’undicesimo libro, composta da una serie di ret­tangoli irregolari, con il lato più lungo di oltre 150 metri, e larga al punto massimo oltre 38. Essa include un gruppo di fornaci, i mantici per l’aria, i canali dì scarico del materiale fuso, spazi coperti per la la­vorazione, ecc., e decine di xilografie li rappresentano con operai ai vari compiti.[83] La riunione di complesse operazioni entro un solo ambiente ha uno scopo evidente di razionalizzazione; trasforma l’intero processo in una specie di diagramma obbligando a dar spazio alle fasi più labo­riose e controllando che non accadano strozzature; aumenta la qualità, o almeno l’omogeneità del prodotto ed elimina costi di trasporto, Per­dite di tempo, stipendi a coordinatori ed intermediari. In altre parole,

pur nello svolgimento d’una ordinata sequenza, la lavorazione diviene simultanea. Ed è qui, credo, che già prima delle catene di montaggio moderne, l’aspetto concettuale, cioè progettuale, di previsione e piani­ficazione, e quello fisico, strumentale del lavoro, trovano una loro sin­tesi. Il recupero di rovine di fonderie, specialmente nelle zone mine­rarie dell’Europa centrale, riconducibili al modello descritto dall’Agrico­la potrebbe spingere definitivamente in là, nel passato, situazioni che si ritengono moderne, anzi recentissime.

In attesa di queste verifiche, ad ogni modo, va escluso che il la­voro antico avesse carattere sporadico o disordinato. L’uso del canto, oltre a ritmarlo, aveva una funzione di controllo, ad esempio per im­pedire che i minatori si addormentassero nelle gallerie, specialmente se, contro i precetti, lavoravano per due turni di otto ore consecutivi. Esso inoltre, come altre grida, facilitava il coordinamento collettivo. Gli ambienti dovevano essere fumosi, freddi o eccessivamente caldi, bui, umidi a causa della prossimità di canali, rumorosi; forse la tensione psicologica, le impossibili aspettative, la frustrazione d’oggi erano control­late da forme sia impositorie che tradizionali, di terapia psicologica collettiva. La festa aveva certo carattere più liberatorio, l’apprendistato poteva fornire gran parte della cultura che oggi acquisiamo più fredda­mente e distaccatamente dalla scuola. Ma l’assillo della precisione, del tempo di consegna, il timore dell’errore, la lotta fra qualità e quantità, dovevano essere gli stessi. Della meccanizzazione moderna il passato, anche remoto, anticipa non solo esperimenti, ma leggi: come quella del­la precisione,[84] della sincronia dei movimenti e delle operazioni anche di larghe masse umane. Se dovessi sintetizzare con un solo esempio cosa deve essere stato il coordinamento di atti e risultati nella lunghis­sima epoca che definiamo pre‑industriale, opterei forse per la grande scenografia teatrale.[85] Allo stesso modo in cui i diametri, ben calcolati e sempre differenti, dei rulli consentivano a finte nubi di aprirsi, me­diante membrane a ventaglio, istantaneamente su tutti i punti della scena (nonostante la diversa lunghezza delle corde e il non costante spazio di movimento), così centinaia di elementi mobili salivano e scen­devano simultaneamente, con le loro luci, altri si costruivano durante il processo, sollevando decine e decine di persone. La musica, supersti­te, spesso ci permette di controllare i tempi reali della trasformazione, in genere descritta dai cantanti. Il teatro barocco diviene un grande tea­tro automatico, cioè uno spettacolo di automi, anche se dietro alle quinte, in silenzio, con comandi a gesti, stava un esercito di macchinisti (fig. 7). Ho ricordato la precisa connessione di questo tipo di teatro con gli automi medioevali, che tentavano di ripetere, in miniatura, il concerto delle sfere, e tra i più sorprendenti casi di anticipazione ri­cordo qui l’incisione, su cilindri di cera, dei movimenti di flautisti reali, onde poter ripetere il loro concerto mediante piccoli automi, azionati da un cilindro di creta, mosso da un piccolo mulino ad acqua.[86]  L’industria, la tecnica, cerca di calcare i passi di dio, che una volta creato l’immenso meccanismo dell’universo, ha lasciato che procedesse, per virtù d’inerzia, lungo i millenni, senza metterci più le mani. Il salto dall’uomo in­chiodato al processo di lavorazione all’automa che lo sostituisce ‑ con assoluto senso ‑ di precisione ‑ non è poi così grande, almeno per l’élite che comanda.

Rinascono, a questo punto, due vecchi problemi. Va bene, si può tracciare un filo rosso, nell’industria del passato, congiungendo magari il mulino automatico del Torriano, del manoscritto di Madrid dedica­to a Carlo V,[87] e quello costruito in Inghilterra, a Redclay Creek, nel 1784‑1785. Un certo progresso è evidente: nel disegno cinquecentesco si vedono un asino e tre operai: uno controlla il meccanismo, gli altri due insaccano la farina. L’uomo sembra escluso nel secondo progetto, presumibilmente perfezionato e più efficace. Ma questo miglioramento non è generale, anzi tutte le apparenze sembrano indicare una frattura, specialmente fra il 1300 e le epoche successive.[88] L’altra questione ri­guarda la condizione attuale dell’industria, che è svincolata dall’energia naturale, che ha moltiplicato le sue potenzialità, superando, a volte in maniera spropositata, le dimensioni dell’uomo che l’ha creata.

Alla prima difficoltà è difficile rispondere. Fino a poco tempo fa sembrava che si potesse accettare la tesi, forse meglio espressa dal Lopez[89] di un disimpegno dell’aristocrazia, sia politica che economica, dai problemi produttivi;[90] l’orientamento divenne antiurbano, verso la campagna, che ritornò ad essere altamente redditizia, o ritenuta tale.[91] C’è anche il declino del grande mercante‑imprenditore, che va in letargo con gl’inizi del Cinquecento, dopo i Fugger, i Chigi, ecc., per rinascere nella seconda metà dell’Ottocento.[92] Benché anche il mondo protestante fosse ostile, per ragioni religiose, alla scienza, quello catto­lico sembra anche più negativo e sterile,[93] tanto è vero che la tradu­zione in italiano del trattato sui metalli dell’Agricola è dedicata ad Elisabetta d’Inghilterra, probabilmente da un fuoruscito religioso.[94] La sperimentazione anche tecnica passa poi direttamente sotto il mecena­tismo, ma si potrebbe anche dire la sorveglianza, di principi melanconici e saturnini, che si circondano di mistero, come Francesco I a Firenze, Rodolfo II a Praga, capaci peraltro di creare il germe di manifatture, come quella della ceramica, che si espanderanno nei secoli successivi. Ma potrebbe anche darsi che la nostra ottica sia sbagliata, e che, in molti campi, non ci sia stato affatto declino, ma progresso, pur tenendo conto della probabile perdita d’interesse per le miniere povere d’Euro­pa di fronte a quelle più ricche, più facili da lavorare, ed assai più economiche da gestire, data anche la ben stabilita tradizione locale, delle colonie americane.[95] La situazione è complessa, e deve essere con­siderata da innumerevoli punti di vista. A favore c’è il fatto che la pub­blicistica di carattere tecnico, con progetti e descrizione di svariati stru­menti, si espande e moltiplica proprio nel Cinque e Seicento; che la do­cumentazione artistica ed architettonica è ricchissima di episodi dovuti a maestranze ed organizzazioni di alta abilità e certo non improvvisate (come la fusione del Perseo di Cellini, l’erezione dell’Obelisco Vaticano il palcoscenico meccanizzato cui si è fatto cenno poc’anzi). Questi exploits sono forse le cime d’un iceberg ancora sommerso (fig. 8).

Altre fonti, inoltre, indicano una preoccupazione opposta; quella di moderare, invece che incentivare, lo sviluppo industriale. Il Palissy, che ragiona privilegiando sempre la conservazione ambientale e contro lo spreco delle risorse, riferisce l’episodio del re che accelerò a tal punto l’estrazione dell’oro da far abbandonare le terre e determinare una carestia, finché la moglie gli propinò un pranzo’con cibi tutti d’oro, spiegandogli con un buon esempio che “l’oro non si mangia e ch’era meglio impiegare i sudditi a coltivare la terra che a cercar mi­niere”.[96] Sempre il Palissy nega il vantaggio economico di estrarre il sale dalla bollitura di acque salse, a causa dei costi e dei danni ecologici.

 

La caldaia dove si fa bollire l’acqua è lunga e larga 30 piedi e sta su forno a due fornaci, in ciascuna delle quali due uomini gettano continuamente legno. Ci sta un gran numero di carri, per trasportare i tronchi, e uomini per accatastare la le­gna presso i forni ed altri nei boschi a tagliarla. Si stima che per mantenere le fornaci siano necessari ogni anno 250 ettari di bosco [..] Se si dovesse vendere la legna da sola, il ricavo sarebbe maggiore del prezzo a cui si può vendere il sale [...] E benché il legno non costi nulla al Duca di Lorena, il costo di produrre il sale col fuoco è tale che il sale in Lorena costa tre volte più che altrove in Francia. [97].

 

Egli consiglia, quindi, di ricorrere a saline naturali, ma quando le descrive, lascia intendere che gli sbarramenti ed i ponti di intercomu­nicazione fra i bacini sarebbero ormai impossibili da costruire ex novo, richiedendo tutte le foreste della Guyenna, ed un costo di lavoro pari a quello necessario per costruire una seconda Parigi.[98] Sembra qui ripe­tersi la constatazione, che s’incontra spesso altrove, di una incapacità economica ed organizzativa rispetto alla grande espansione demografica, economica, culturale e quindi tecnica del tardo Medioevo. Un mercato crescente è una necessità primaria, per ogni progresso tecnico; il pro­cesso di adattamento semplificato, di riduzione di qualità si ri­volge, alla fine, contro la società già in crisi, accentuandone la decaden­za fino alla paralisi. L’ultima rivoluzione industriale, quella che ancora viviamo, è nata sotto il segno della crescita numerica e sociale.

Essa certamente è stata diversa dalle altre, ma sarebbe un grave er­rore storiografico considerarla del tutto diversa, anche perché ciò smi­nuirebbe la capacità d’intenderla. I migliori studi riguardano infatti co­me alcuni specifici problemi siano stati risolti (ad esempio la collocazio­ne delle ruote nelle locomotive) e forme limitate di continuità, come l’uso di analoghe esperienze nella costruzione di canali e di ferrovie. Si tratta di studi talmente specifici da illuminarci, di riflesso, anche per età, non altrettanto studiate, come il Rinascimento ed il Medioevo, o al­meno per indicarci, senz’ombra di dubbio, che problemi. analoghi esiste­vano anche allora.

Ciò che mi pare sia essenzialmente nuovo, e prima neppur sognato, in ciò che è accaduto fra la seconda metà del Settecento ed oggi è l’invenzione non tanto di meccanismi, quanto di forme nuove di energia, dando innesco ad un processo forse irreversibile da apprendisti stre­goni.[99] Come ha brillantemente quantizzato il maggior poeta del presente tecnologico, l’architetto Buckminster Fuller, di fronte agli 11 Kilowatt di energia elettrica emessa naturalmente da un individuo, durante tutta la sua vita, l’uomo ne consumava già 1.010 all’anno nel 1940; oggi, come proprietario di casa, otto volte di più che nel 1940 disponendo collettivamente di oltre 5 miliardi di ten; ma conta, indub­biamente, assai di più sapere che già nel 1940 aveva a disposizione circa 139 schiavi meccanici a testa, che lavoravano ventiquattro ore su venti­quattro.[100] L’uso di queste energie ha dato la possibilità di una visione istantanea di quanto accade nel mondo, di comunicare ovunque e con quasi tutti, di ridurre fisicamente le distanze mediante l’accelerazione dei tempi di percorso, di giungere quasi alla soglia dell’eliminazione del peso. Ma tutto ciò che si muove, sotto la lucida scatola elaborata dal designer, ha un ventre di leve, perni, ruote, ingranaggi, uguali a quelli che permettevano al non lento battere della ruota del mulino di trasfor­mare sassi in argento ed oro, grani in pane, bozzoli di baco in vesti degne delle Mille e una Notte, guidati,  spesso, dagli stessi movimenti che congiungono mani e macchine dell’Asia, dell’Africa, dell’Europa, delle Americhe nell’identico ritmo, che tesse la civiltà.