Un patrimonio da salvare (1983)

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista con Eugenio Battisti

 

Quando, come  e perché nasce l’interesse per l’archeologia industriale nel nostro Paese?

 

L’archeologia industriale in Italia ha una data di nascita precisa: il 1977 a Milano, in occasione del I Congresso internazionale della disciplina, da un gruppo di giovani miei laureati che avevano fatto ricerche sull’École des Ponts et des Chaussées di Parigi, che fu la prima grande scuola di genio civile del mondo. Sono gli anni da noi del successo di Braudel, dell’interesse per la storia della vita comune, quella non scritta contrapposta alla storia esclusivamente politico diplomatica. E non trascurerei l’interesse tutto italiano per lo studio delle tradizioni popolari e il mondo contadino. E sono anche gli anni in Italia dell’abbandono da parte dei monopoli industriali dei grandi complessi di tipo ancora ottocentesco, del rifiuto operaio e poi del tramonto rapido della catena di montaggio, e della crescente reazione della gente, all’ultimo stadio della società tecnologica. Questo spiega il rapido successo dell’archeologia industriale nel nostro Paese. La materia, anche se per ora non esiste nessuna cattedra universitaria attivata, è nel programma del corso di laurea in beni culturali ed è assai ben vista dal CNR e dal Ministero dei beni culturali, che hanno dato vita, tramite le Soprintendenze, ad una buona catalogazione di parte del territorio nazionale. Insomma, i finanziamenti non mancano e interventi da parte degli assessorati per esempio come quelli che da anni sta facendo il Co­mune di Torino, credo non abbiano paragone nel mondo.

 

Tuttavia, quando si parla di archeologia industriale si penso all’Inghilterra alla culla della rivoluzione industriale. Che interesse riveste un Paese come l’Italia?

 

      Intanto le grandi macchine tessili introdotte in Inghilterra erano state copiate da quelle italiane. Fu un caso di vero e proprio spionaggio industriale ante litteram su larga scala. Nei secoli XII e XIII siamo stati la prima grande nazione industriale d’Europa. Abbiamo avuto un altro grande momento nel Cinquecento. Poi il nostro Paese scompare, anche se il tramonto delle manifatture sot­to la spinta delle importazioni dall’America  è un processo che investe tutta l’Europa. Insomma l’Italia, proprio per la sua doppia sfasatura ri­spetto al resto dell’Europa (prima è in anticipo, poi è in ritardo) costituisce un caso e una fonte particolarmente interessante per chi si occupa di archeologia industriale.                      I

 

D’accordo, ma in un Paese così sovrappopolato e così ricco di giacimenti culturali disseminati lungo un arco amplissimo di secoli, non c’è rischio, conservando tutto, di arrivare alla paralisi dei territorio?

 

Il problema così è mal posto. In realtà fabbriche conservate con le loro attrezzature ne restano purtroppo ben poche, anche se si trovano piccole ferriere o addirittura mulini del XIII e XIV secolo e qualche filanda restati in funzione fino a poco tempo fa. Ma si tratta sempre di zone tagliate fuori dalle grandi aree di sviluppo urbano. A Torino invece dove il problema si pone, in modo, drammatico, con milioni di metri quadri di stabilimento abbandonati, l’intervento è stato talmente intelligente che in alcune delle vecchie fabbriche recuperate potranno addirittura esserne allocate di piccole e nuove senza cambiare quindi neppure la destinazione degli edifici.

 

Vediamo ora anche gli ostacoli che incontra un archeologo industriale in Italia: culturali, politici, legislativi.

 

Gli ostacoli sono soprattutto culturali, soprattutto per quanto riguarda la storia della tecnologia che va fatta con scavi e con una migliore documentazione d’archivio. Qui si registra l’unica carenza dell’archeologia industriale italiana, che è invece all’avanguardia per quanto concerne la discussione ideologica, la schedatura per enti ufficiali e lo studio del manufatto. Altro limite, la mancanza o quasi di scavi, dove pure la competenza dei nostri archeologi medievali è grandissima. Essi si dovrebbero occupare appunto della cultura materiale fino al 1940. I limiti in fatto di cultura tecnologica nel nostro Paese si riscontrano anche tra gli imprenditori, che in genere conservano le facciate degli edifici solo per ragioni di prestigio, in funzione monumentale ma li svuotano (come a Fiat Lingotto). Vero è che, quando offrono le loro vecchie macchine a quel poco che c’è intatto di musei della scienza e della tecnica, per lo più se le vedono rifiutare per mancanza di spazio. Né c’è ancora nel nostro Paese un antiquariato privato in questo campo.

Poi naturalmente ci sono i problemi derivanti dalla speculazione privata: contro le filande trasformate in residence occorre la schedatura degli edifici più antichi di cinquant’anni e una certa energia delle Soprintendenze. Le leggi in genere ci sono, perfino superiori a quelle degli altri Paesi. A Torino per esempio c’è una legge regionale per la quale un vecchio stabilimento non può cambiare di destinazione. Il problema quindi è solo pratico: intervenire subito, prima che lo stabilimento sia abbandonato, allorché i costi dei recupero diventeranno intollerabili.

 

Intervenire subito. Ma se davanti a un edificio abbandonato si scatenano polemiche paralizzanti fra assessori, privati, comitati di quartiere! Qual è il contributo specifico, di metodo, che può dare in questi casi un archeologo industriale?

 

Intanto ricordare a tutti che, proprio per ragioni storiche e archivistiche, e non per nostalgia è necessario conservare una certa percentuale di fabbriche antiche, che del resto sono poche. Per lo più infatti abbiamo a che fare con dei contenitori svuotati, spesso spettacolosi, bellissimi. Demolirli perché non si sa quale funzione attribuirgli sarebbe uno spreco. Teniamo anche presente che gran parte di questi edifici non hanno divisori all’interno quindi sono per definizione moderni e che del resto le funzioni degli edifici cambiano spesso nel tempo. Certo, l’ideale sta nel trovare delle destinazioni che rispettino lo spirito originario. Ma quello che a me fa paura è solo il falso restauro, non l’idea di mettere dell’architettura contemporanea dentro quella moderna. Naturalmente, se ci sono invece delle parti con macchine antiche, queste debbono diventare un museo vero e proprio.

Quanto poi alle dispute che si accendono intorno ai vecchi edifici, è vero che la sinistra oscilla troppo spesso tra posizioni puramente difensive che peccano di timidezza e proposte fin troppo gigantesche. D’altra parte interventi ideologicamente fondati come a Bologna hanno finito per avere nelle applicazioni pratiche risultati negativi per l’impreparazione delle maestranze che li hanno eseguiti. Poi occorre saper contenere quand’è il caso anche i piccoli desideri del quartiere e far presente che strutture come il Mattatoio di Roma per esempio servivano tutta la città e in parte la regione e quindi bisognerebbe trovare loro una destinazione su ampia scala urbana. Quindi io proporrei un Museo del Testaccio e uno della Mattazione (nelle poche parti rimaste che documentino i processi lavorativi) – terrei presente che intorno al Mattatoio si estende l’unica zona industriale di Roma. L’intervento quindi dev’essere di tipo urbanistico. In questo contesto poi si potrebbe anche trasformare il vecchio Gazometro in un auditorium, come a Parigi. Dico tutto questo con grande umiltà, perché penso che l’archeologo industriale è bene che si tenga lontano dal potere. Personalmente sono anarchico e l’Associazione italiana per l’archeologia industriale, che presiedo volutamente non si è data una burocrazia. Ci siamo dati solo compiti metodologici e formativi, di confronto delle esperienze ma non organizzativi. Non vogliamo essere Italia Nostra o il WWF. Si vuole salvare un complesso dalla speculazione? E’ semplice basta andare dal soprintendente con delle buone ragioni per farlo schedare. La legge c’è.

 

Eugenio Battisti

 

Intervista rilasciata a Mondo Operaio n. 3, marzo 1983, pp. 73-77.