Intervista con
Eugenio Battisti
Quando, come e perché nasce l’interesse per l’archeologia
industriale nel nostro Paese?
L’archeologia
industriale in Italia ha una data di nascita precisa: il 1977 a Milano, in
occasione del I Congresso internazionale della disciplina, da un gruppo di
giovani miei laureati che avevano fatto ricerche sull’École des Ponts et des
Chaussées di Parigi, che fu la prima grande scuola di genio civile del mondo.
Sono gli anni da noi del successo di Braudel, dell’interesse per la storia
della vita comune, quella non scritta contrapposta alla storia esclusivamente
politico diplomatica. E non trascurerei l’interesse tutto italiano per lo
studio delle tradizioni popolari e il mondo contadino. E sono anche gli anni in
Italia dell’abbandono da parte dei monopoli industriali dei grandi complessi di
tipo ancora ottocentesco, del rifiuto operaio e poi del tramonto rapido della
catena di montaggio, e della crescente reazione della gente, all’ultimo stadio
della società tecnologica. Questo spiega il rapido successo dell’archeologia
industriale nel nostro Paese. La materia, anche se per ora non esiste nessuna
cattedra universitaria attivata, è nel programma del corso di laurea in beni
culturali ed è assai ben vista dal CNR e dal Ministero dei beni culturali, che
hanno dato vita, tramite le Soprintendenze, ad una buona catalogazione di parte
del territorio nazionale. Insomma, i finanziamenti non mancano e interventi da
parte degli assessorati per esempio come quelli che da anni sta facendo il Comune
di Torino, credo non abbiano paragone nel mondo.
Tuttavia, quando si parla di
archeologia industriale si penso all’Inghilterra alla culla della rivoluzione
industriale. Che interesse riveste un Paese come l’Italia?
Intanto le grandi macchine tessili introdotte in Inghilterra
erano state copiate da quelle italiane. Fu un caso di vero e proprio spionaggio
industriale ante litteram su larga scala. Nei secoli XII e XIII siamo
stati la prima grande nazione industriale d’Europa. Abbiamo avuto un altro
grande momento nel Cinquecento. Poi il nostro Paese scompare, anche se il
tramonto delle manifatture sotto la spinta delle importazioni
dall’America è un processo che investe
tutta l’Europa. Insomma l’Italia, proprio per la sua doppia sfasatura rispetto
al resto dell’Europa (prima è in anticipo, poi è in ritardo) costituisce un
caso e una fonte particolarmente interessante per chi si occupa di archeologia
industriale. I
D’accordo, ma in un Paese
così sovrappopolato e così ricco di giacimenti culturali disseminati lungo un
arco amplissimo di secoli, non c’è rischio, conservando tutto, di arrivare alla
paralisi dei territorio?
Il
problema così è mal posto. In realtà fabbriche conservate con le loro
attrezzature ne restano purtroppo ben poche, anche se si trovano piccole
ferriere o addirittura mulini del XIII e XIV secolo e qualche filanda restati
in funzione fino a poco tempo fa. Ma si tratta sempre di zone tagliate fuori
dalle grandi aree di sviluppo urbano. A Torino invece dove il problema si pone,
in modo, drammatico, con milioni di metri quadri di stabilimento abbandonati,
l’intervento è stato talmente intelligente che in alcune delle vecchie
fabbriche recuperate potranno addirittura esserne allocate di piccole e nuove
senza cambiare quindi neppure la destinazione degli edifici.
Vediamo ora anche gli
ostacoli che incontra un archeologo industriale in Italia: culturali, politici,
legislativi.
Gli
ostacoli sono soprattutto culturali, soprattutto per quanto riguarda la storia
della tecnologia che va fatta con scavi e con una migliore documentazione
d’archivio. Qui si registra l’unica carenza dell’archeologia industriale
italiana, che è invece all’avanguardia per quanto concerne la discussione
ideologica, la schedatura per enti ufficiali e lo studio del manufatto. Altro
limite, la mancanza o quasi di scavi, dove pure la competenza dei nostri
archeologi medievali è grandissima. Essi si dovrebbero occupare appunto della
cultura materiale fino al 1940. I limiti in fatto di cultura tecnologica nel
nostro Paese si riscontrano anche tra gli imprenditori, che in genere conservano
le facciate degli edifici solo per ragioni di prestigio, in funzione
monumentale ma li svuotano (come a Fiat Lingotto). Vero è che, quando offrono
le loro vecchie macchine a quel poco che c’è intatto di musei della scienza e
della tecnica, per lo più se le vedono rifiutare per mancanza di spazio. Né c’è
ancora nel nostro Paese un antiquariato privato in questo campo.
Poi
naturalmente ci sono i problemi derivanti dalla speculazione privata: contro le
filande trasformate in residence occorre la schedatura degli edifici più
antichi di cinquant’anni e una certa energia delle Soprintendenze. Le leggi in
genere ci sono, perfino superiori a quelle degli altri Paesi. A Torino per
esempio c’è una legge regionale per la quale un vecchio stabilimento non può cambiare
di destinazione. Il problema quindi è solo pratico: intervenire subito, prima
che lo stabilimento sia abbandonato, allorché i costi dei recupero diventeranno
intollerabili.
Intervenire subito. Ma se
davanti a un edificio abbandonato si scatenano polemiche paralizzanti fra
assessori, privati, comitati di quartiere! Qual è il contributo specifico, di
metodo, che può dare in questi casi un archeologo industriale?
Intanto
ricordare a tutti che, proprio per ragioni storiche e archivistiche, e non per
nostalgia è necessario conservare una certa percentuale di fabbriche antiche,
che del resto sono poche. Per lo più infatti abbiamo a che fare con dei
contenitori svuotati, spesso spettacolosi, bellissimi. Demolirli perché non si
sa quale funzione attribuirgli sarebbe uno spreco. Teniamo anche presente che
gran parte di questi edifici non hanno divisori all’interno quindi sono per
definizione moderni e che del resto le funzioni degli edifici cambiano spesso
nel tempo. Certo, l’ideale sta nel trovare delle destinazioni che rispettino lo
spirito originario. Ma quello che a me fa paura è solo il falso restauro, non
l’idea di mettere dell’architettura contemporanea dentro quella moderna. Naturalmente,
se ci sono invece delle parti con macchine antiche, queste debbono diventare un
museo vero e proprio.
Quanto
poi alle dispute che si accendono intorno ai vecchi edifici, è vero che la
sinistra oscilla troppo spesso tra posizioni puramente difensive che peccano di
timidezza e proposte fin troppo gigantesche. D’altra parte interventi
ideologicamente fondati come a Bologna hanno finito per avere nelle
applicazioni pratiche risultati negativi per l’impreparazione delle maestranze
che li hanno eseguiti. Poi occorre saper contenere quand’è il caso anche i piccoli
desideri del quartiere e far presente che strutture come il Mattatoio di Roma
per esempio servivano tutta la città e in parte la regione e quindi
bisognerebbe trovare loro una destinazione su ampia scala urbana. Quindi io
proporrei un Museo del Testaccio e uno della Mattazione (nelle poche parti
rimaste che documentino i processi lavorativi) – terrei presente che intorno al
Mattatoio si estende l’unica zona industriale di Roma. L’intervento quindi
dev’essere di tipo urbanistico. In questo contesto poi si potrebbe anche
trasformare il vecchio Gazometro in un auditorium, come a Parigi. Dico tutto
questo con grande umiltà, perché penso che l’archeologo industriale è bene che
si tenga lontano dal potere. Personalmente sono anarchico e l’Associazione
italiana per l’archeologia industriale, che presiedo volutamente non si è data
una burocrazia. Ci siamo dati solo compiti metodologici e formativi, di
confronto delle esperienze ma non organizzativi. Non vogliamo essere Italia
Nostra o il WWF. Si vuole salvare un complesso dalla speculazione? E’ semplice
basta andare dal soprintendente con delle buone ragioni per farlo schedare. La
legge c’è.
Intervista rilasciata a Mondo Operaio n. 3, marzo 1983, pp. 73-77.