Eugenio Battisti
Per risultare uno strumento utile di
indagine storica, la sociologia (in qualsiasi modo la s’intenda, meglio però secondo
un’accezione assai larga, come studio dei rapporti fra le manifestazioni
culturali e la società) o deve consentire la scoperta di nuovo materiale
artistico, o deve essere la via per interpretare in modo più aderente
capolavori e situazioni già note. In realtà, le due possibilità si integrano,
in quanto la nostra conoscenza è sempre una scelta, condizionata da interessi
personali o di gusto, e nuove interpretazioni consentono, effettivamente, di
scoprire, o meglio accogliere nel museo immaginario nuovi capolavori, relegando
nei depositi altre
opere suscettibili di minor attualità. Posta così la domanda, è
inevitabile rispondere in modo positivo, riconoscendo cioè l’efficacia,
indiscutibile, di queste indagini; e lamentando caso mai la loro esiguità
numerica, giacché, in realtà, possediamo solo dei saggi, fatti un po’ a caso,
si direbbe soltanto per esplorare quali campi siano più redditizi. Trivellazioni,
insomma, che non coprono né tutta l’area che va dal tardo antico all’età
contemporanea, né tutto l’ambito topografico, né la vastissima casistica
a cui ormai sembra lecito rivolgersi con mezzi sociologici. In tale
situazione prudenza vuole che, al posto di sintesi e di conclusioni generiche,
s’intensifichino invece le trivellazioni, specialmente quelle sui periodi più
ricchi di differenziazioni e di polemiche stilistiche.
Prudenza vorrebbe anche che molte delle conclusioni affrettate cui
giungono i critici dell’arte contemporanea fossero controllate su una migliore
conoscenza sociologica del passato, giacché più volte, leggendo le loro
pagine, ci si accorge che la situazione, a esempio, di Venezia nei primi anni
del Cinquecento, o degli ebanisti attivi a Parigi nel XVIII secolo, è
singolarmente simile a quella contemporanea della produzione per le masse,
della fabbricazione in serie, pur avendo comportato problemi e conseguenze
artistiche avverse.
Nonostante l’avversione a trattare di
“sociologia” in generale, e delle sue finalità metodologiche, devo
però aggiungere che tale tipo di ricerca si è dimostrato storiograficamente
utile solo quando esercitato su ambiti cronologici, topografici, di società
assai ristretti, e con propri documenti alla mano. Abbiamo in proposito due
volumi assai significativi: l’excursus di Hauser dalla preistoria in poi, e il
volume (fra l’altro più ampio già come numero di pagine) dell’Antal, sulla
pittura fiorentina attorno a Giotto.
Ora, pur riconoscendo a varie pagine dello Hauser una notevole efficacia
critica, non si può che concludere nel modo più negativo sul suo tentativo di
limitarsi a giustapporre vicende storiche ed artistiche, in un modo che sembra
addirittura occasionalista, per insufficienza di connessioni interne e di
approfondimenti. L’Antal, invece, riuscì in quello che dal punto di vista
iconografico, o attribuzionista, gli specialisti non erano venuti a fare: cioè
a creare degli autentici nuclei storici ben individualizzati, di opere, di
artisti, di committenti, in polemica fra di loro in nome di programmi precisi e
determinati. Secondo il giudizio di qualche erudito di storia fiorentina, il
libro di Antal è in parte da rifare, in quanto egli avrebbe utilizzato materiale di seconda mano, invece che compiere
esplorazioni archivistiche dirette. C’è tuttavia una enorme differenza fra un
problema mal posto, come quello dello Hauser, e un problema correttamente
risolto anche se solo in modo parziale. D’altronde, ogni volta che mi è toccato
di confrontare ciò che dice l’Antal con altre fonti documentarie alla mano, ho
potuto riconoscere che le sue conclusioni restano validissime.
Certo, una ricerca sociologica deve
affrontare, per prima cosa, la difficoltà di non disporre di una adeguata
documentazione. Non perché ne manchino le basi, ma perché scarseggiano i
sussidi bibliografici: infatti né i positivisti (che solo scarsamente si sono
abbandonati al piacere di pubblicare l’inventario dei mobili ed arredi lasciati
in testamento da un artista, le testimonianze del gusto di un committente, o
anche solo del suo comportamento), né tanto meno i critici affetti da
crocianesimo o da ambizioni letterarie hanno dato
completi regesti sugli artisti di una regione o di una città (gli esempi
adducibili si contano sulla punta delle dita, specialmente in Italia), anzi
spesso hanno circondato d’una cortina di silenzio le notizie oggi più
stimolanti. Sarà bene dare qualche esempio: tuttora riesce quasi impossibile
ritrovare il documento, citato da molti, del processo durante il quale uno dei
più singolari pittori veneti del Cinquecento, il Marescalco,
di cui è chiarissima la concomitante mistico‑religiosa
specialmente nella pala con “Pietà e simboli della passione” di Bassanello,
viene condannato dall’Inquisizione per non aver voluto rappresentare il
purgatorio, cioè, in altre parole, perché condivideva idee luterane. Mi si
potrà obbiettare, a questo punto: la pala è leggibile criticamente benissimo
anche senza gli atti del processo. Però, a parte che sarebbe un ben ingenuo
modo di fare storia dell’arte il trascurare quel lato delle opere che
costituisce un documento di storia religiosa ‑ specialmente quando le
informazioni ricavabili sono di grande interesse generale
‑ c’è da chiedersi se, senza conoscere la propensione eretica del
Marescalco si avrebbe modo d’inserirne congruamente il percorso stilistico nel
panorama europeo del “secondo espressionismo” del Cinquecento, caratterizzato
appunto ovunque c’era una problematica religiosa da una ripresa di
deformazioni, di colori astratti, d’illuminazioni saltuarie e violente. Ad esso
danno opera quasi tutti i maggiori scultori e incisori francesi (nota bene:
protestanti), oltre al Greco, il cui consigliere religioso sembra essere stato
addirittura il confessore di Santa Teresa. E non ci sarà stata un’ombra,
almeno, di diffidenza religiosa nel singolare rifiuto, da parte di vari membri
della Scuola di San Rocco, a Venezia, di affidare i lavori al Tintoretto, tanto simile di gusto e di
pietà religiosa?
Prevedo, a questo punto, altre
obiezioni, e accuse di arbitrarietà nel voler stabilire un rapporto fra
“espressionismo” e problematica religiosa. Certo, in astratto, non c’è nessun
legame obbligatorio fra religiosità e stilizzazione. Tutti, d’altronde, sanno
che la devozione ama proprio le serene e imperturbabili madonne del Della
Robbia, quelle di Piero della Francesca, o le altre del Sassoferrato. Ma, nel
panorama del Cinquecento, il rapporto espressionismo e religiosità
sembra essere innegabile.
I pittori svizzeri che crearono, quasi,
il mito della “donna, la morte e il diavolo”, furono fra i primi iconoclasti,
abbandonarono la pittura in seguito all’aniconismo e scesero a combattere
contro i papisti; di essi uno morì in battaglia al fianco di Zwingli. Grünewald, il più
grande espressionista forse di tutti i tempi, è citato in un documento che lo
descrive mentre, nelle osterie, sobilla i popolani all’insurrezione,
durante la guerra dei contadini. Il Pontormo, che certo è, insieme a Michelangelo, il più sospetto di
eresia, appena dipinse il Giudizio Universale in San Lorenzo, a Firenze, destò
un tal vespaio di critiche da far distruggere, non molto tempo dopo, l’opera
stessa. Il tema stesso, così intensamente drammatico, del Giudizio Finale era
condannato da molti teologi proprio perché caro ai luterani.
Ecco, dunque, alcuni esempi di un
rapporto preciso fra un grande fatto culturale (la Riforma), e le arti
figurative, che si foggiano uno stile adatto ad esprimerne i contenuti morali.
Ma una indagine sugli ambienti entro cui nascono talune opere può anche portare
ad un altrettanto chiarificatore riconoscimento di mancanza di rapporti,
evitando fraintendimenti. Adduco in proposito
un esempio scherzoso: a proposito della famosissima Festa degli Dei, di
Giovanni Bellini ma finita da Tiziano, ora a Washington, un
insigne iconologo, Edgar Wind, tentò di spiegarne l’intonazione bacchica, anzi
a tratti accentuatamente erotica (a destra della tela esiste uno splendido
nudo femminile), in rapporto con l’erotismo di Isabella d’Este, a riconferma
della tesi di una originaria destinazione di tale opera a Mantova,
invece che a Ferrara, città dove invece fu poi collocata. Non so più dove ho
letto alcune missive di Isabella, controfirmate da sue dame, al marito, in cui,
con una libertà di parola sorprendente che rivela come la potestas del
duca si estendesse apertamente a tutto l’entourage femminile della moglie, si
narra come in sua assenza, per rallegrare la solitaria Isabella, i cavalieri di
corte avessero diretto contro lei il gioco del trentuno (un’orgia collettiva
avente un’unica protagonista), mentre i valletti, presumibilmente più numerosi, si erano
mostrati altrettanto galanti verso l’ancella, lasciandola malconcia. Su tutto
il lato osceno delle corti rinascimentali la pietà storica, da tempo, ha posto
il velo, ed è bene ch’esso resti steso. Ma se dalla brutale
realtà che talvolta è utile conoscere passiamo alla pittura del Bellini, vi
troviamo, ad evidentiam (e al
contrario che in Tiziano) assai più innocenza che oscenità. Non solo. Il
programma del ciclo che Isabella si fece dipingere va letto nel dipinto del
Mantegna, ora al Louvre, che rappresenta “Venere e Marte, Vulcano e Mercurio,
e il coro delle Muse danzanti”. Anche lì troviamo un
nudo femminile, per Venere, e una poesia coeva ci fa
intendere che tale divinità potrebbe essere un’idealizzato
ritratto di Isabella. La somiglianza, ora, è nulla. Ma la stessa poesia lascia
intendere che, di tale nudità, il Duca ebbe a scandalizzarsi. In tutte le sue
manifestazioni pittoriche, plastiche, la corte di Mantova infatti si presenta
come severamente moralistica. Non diversamente, la più violenta polemica
contro il teatro più tipicamente profano, quello cioè di impronta non tanto classicheggiante,
quanto giullaresca, scoppiò, d’altronde, in una corte abbastanza simile
di atteggiamento a quella di Ferrara, dove la grande riesumazione posteriore
sembra addirittura un capovolgimento di programma politico‑culturale
(tutta la discussione è riportata dal Decembrio). L’oscenità era riservata alla
vita privata (che dobbiamo intendere promiscua, abbastanza largamente
collettiva, ecc. , come d’altronde in tutte le corti), o al carnevale e, ai
giochi, esclusa, rigidamente, dalle arti. E la serietà del Mantegna che fu per
temperamento adattissimo ad un clima piuttosto austero, da quanto si è detto,
risulta fortemente accentuata. Nel caso specifico del dipinto, viene da sospettare
un cambiamento, o in sede di progettazione o di esecuzione, che radiografie
potrebbero mettere in luce: infatti un disegno presuppone inizialmente due nudi
femminili, e non uno solo, di cui il secondo fortemente sensuale.
Abbiamo dato due
esempi, di concomitanza positiva e negativa, da cui si vede come il contesto
delle conoscenze ambientali possa modificare e addirittura capovolgere un
giudizio, facendoci intervenire, quasi di presenza, nella problematica degli
artisti. Eppure questi esempi restano ancora, a parere di chi scrive, generici,
in quanto in tali casi la concomitanza ambientale non esercita una influenza
sufficientemente determinante sul piano stilistico. Il caso è ben diverso
allorché i Domenicani impongono ‑ così almeno sembra ‑ a Giunta
Pisano di proporzionare il suo Crocifisso per la grande chiesa bolognese secondo
il modulo dell’homo quadratus, largo quanto alto, e danno
quindi una base visiva, ben stabilita, all’ulteriore elaborazione dell’opera.
O allorché il Bernini interpreta, con un
consigliere al fianco, la pagina in cui Santa Teresa descrive la sua
transverbazione, e dà all’estasi stessa l’interpretazione sensoriale‑erotica
che non solo era proposta, ma artificiosamente provocata da qualche
confessore, che si comportava con le sue, diciamo così pazienti, in modi non
molto dissimili da quelli che determinarono i successi di Casanova.
Ed è un problema tipicamente
sociologico, non solo di storia dell’architettura o della scienza, chiedersi in
che modo si siano diffuse le tecniche di progettazione geometrica,
rigorosamente proporzionate, che troviamo applicate nei cantieri francesi dal
1135 circa; o in che modo fossero organizzati i lapicidi gotici cui
si devono capolavori altissimi di statuaria accanto a banali ornamentazioni, cioè
quali erano gli strumenti didattici, i sussidi culturali, l’organizzazione
pratica che consentiva di individuare gli elementi più dotati, di riscattarli
rapidamente dallo stato di garzone e di aiuto per affidare loro compiti
direttivi, già giovanissimi, superando le gelosie, le posizioni precostituite,
ecc. Troppo poco sappiamo, anche, sulle botteghe artistiche, e nessuno, o
quasi, si è preoccupato di spiegarci perché in talune epoche la collaborazione
fra maestro e aiuto si protragga lungamente, altre volte invece si tronchi di
colpo, dopo pochi mesi. Statistiche comparative sulla età in cui, di secolo in
secolo, gli artisti si affacciano alla fama, con la prima opera pubblica, darebbero
constatazioni sorprendenti, e utili sussidi storiografici. Infatti è,
purtroppo, una leggenda (assai recisamente smentita) la coincidenza di genio e
precocità: Giotto si distacca da Cimabue (se questi fu suo maestro) con
violenta rottura, ma solo relativamente tardi; la fama di Caravaggio si afferma
attorno al 1600 e non prematuramente come suppose il Longhi, e man mano che ci
avviciniamo ai nostri tempi, l’età media del grande esordio si sposta verso i
trenta, trentacinque anni. Come furono possibili, invece, altri casi di precocità
(Raffaello, Mozart, ecc.)? Perché, avvicinandoci ai
nostri tempi, l’apprendistato si allunga? A causa di una più lenta
maturazione, o perché è la fiducia, la commissione importante, la pressione del
lavoro a rendere precoci i geni? O per insufficienti tecniche didattiche?
Più ci si
addentra in questo itinerario, e più ci si accorge di come non solo quasi tutti
i problemi attuali più scottanti del rapporto fra l’artista e la società siano
anticipati nella storia, ma come un’indagine approfondita permetta, in linea
di massima, di individuare, fra le varie soluzioni date di volta in volta,
alcune che sarebbero assai utili oggi. Dopo una diffidenza larghissima verso
le arti di corte, l’aristocrazia, dopo tante ironie sugli inutili sprechi
nell’arredamento dei palazzi, sull’aver promosso manifatture economicamente
passive di prodotti di lusso (come le ceramiche, le arazzerie), oggi,
eliminati questi ceti e questi centri, ci si accorge di non avere più strumenti
adeguati per impedire che là dove la produzione artistica è connessa con un
larga vendita, ogni impegno al rinnovamento e alla sperimentazione sia
impedito da ragioni di mercato o indirizzato solo in modo fittizio a stimolare
una rapida obsolescence. Si è parlato
malissimo delle accademie, che pur male sostituivano le antiche botteghe,
permettendo a un tempo la persistenza del gusto e l’avvicendarsi delle
generazioni, e siamo caduti in un rapporto strettissimo fra mercante ed
artista, per cui in più casi è imposta la ripetizione meccanica senza varianti
di analoghe formule. Si parla di pianificazione aperta, di uffici urbanistici
funzionanti in modo continuativo almeno nei grandi centri, e troppo poco si
sono ricordati i male studiati statuti comunali che prevedevano ispezioni
quotidiane e facevano carico delle spese necessarie per correggere eventuali
deturpazioni ai commissari incaricati della vigilanza; o imponevano al mercante
che volesse insediarsi in città di costruire un edificio di alto decoro, valido
anche per garantire i regolari pagamenti delle tasse, e destinato a divenire
proprietà pubblica; o di farsi una piazza davanti alla casa, se questa
costituiva centro di traffico. Disposizioni ingenue, evidentemente. Ma, messa
una accanto all’altra, funzionali, come dimostrano i nuclei
antichi così costituiti, quando sono rimasti intatti. Uno di essi è il
quartiere di San Pellegrino, a Viterbo.
Gli esempi che stiamo accumulando
riguardano tanto il caso specifico del singolo artista, quanto il modo di
comportarsi di un gruppo, di una generazione. Ed è giusto che sia così. La
sociologia è uno studio di rapporti, è il lato, per così dire, pubblico della
cultura. E’ un sistema di condizionamenti, a cui il singolo può solo in parte
reagire. A volte la sua reazione è violenta, altre volte è limitata. Ciò
dipende dalla psicologia individuale: ma anche nel caso di violente reazioni
sarà bene tenere presente lo stimolo che ha condotto ad esse. Questa integrazione
fra sociologia
e psicologia sarà, probabilmente, il compito della critica della prossima
generazione, giacché in sede storiografica è assai difficile, se non
impossibile, scendere al singolo senza una piattaforma generale di conoscenze
quali oggi mancano. Così è inutile, nonostante l’ipotesi ormai generalizzata
d’una interrelazione fra il purismo proporzionale e prospettico
del Rinascimento, e la tenuta secondo sistemi moderni di contabilità dei libri
di cassa, presso i mercanti locali, intendere tale fatto in base alla tesi di
uno spirito toscano razionalistico, ecc. E’ vero che Piero della Francesca
scrisse sia un trattato di prospettiva, sia un manuale di contabilità (fra
l’altro ancora inedito),
ma essendo comune tanto la tendenza al calcolo preciso, quanto il
desiderio di imparare correttamente la prospettiva, resta da chiedersi perché
solo in qualche artista il suggerimento ambientale abbia comportato risultati
altissimi di stile; cioè perché in lui il suggerimento da generico sia divenuto
specifico, il presupposto sia divenuto una componente. O, ponendo diversamente
la domanda, in qual modo lo spirito di geometria di Pietro si differenzia da
quello dei suoi coetanei. Tutti questi passaggi richiedono un sussidio di
documenti: ad esempio relativi alla psicologia e al comportamento dei mercanti
che furono committenti di Piero. E tanto più si dovrebbe documentare l’ancor
misterioso ambito in cui, per la prima volta, fu posto il problema della
prospettiva ortogonale. Per ora una induzione vale l’altra, anzi il filone di
cultura che per ora risulta più attivo sembra connettersi allo studio dei
Domenicani a Santa Maria Novella: dal profano al sacro, dunque; dai libri di
conti alla predicazione.
Con relativamente poca fatica, facendo
indagini frammentarie e perfino casuali, si possono invece ottenere risultati
straordinariamente concreti per ciò che concerne la fortuna, e quindi
l’evolversi, il raffinarsi, o il fossilizzarsi dei vari generi artistici:
come il ritratto, la natura morta, la pittura di storia, il paesaggio,
integrando le informazioni fornite dalla trattatista antica che
già ci informa sull’opposizione di taluni ambienti e
generi ed artisti che invece sono apprezzatissimi da altri. Famoso è il caso
delle “bambocciate”, che diedero luogo a scandali pittoreschi, a
polemiche; ebbene, gratta gratta, è venuta in luce anche una base economico‑sindacale,
per cui le ragioni di opposizione da parte dei pittori di scene storiche verso
gli autori di queste piccole composizioni burlesche o narrative, risultano notevolmente
fondate e realistiche. Per Roma, tuttavia, ancora non si sa quali fossero i
reciproci rapporti di vendita, di prezzo, di guadagno. Invece uno spoglio
sistematico degli atti notarili parigini, nel Sei e
Settecento, condotto da una équipe diretta
dal Wildenstein,
ha permesso di constatare variazioni di valore e di successo
incredibili: in pochi decenni si operò ad esempio un autentico boom della
ritrattistica, prima impegnata pressoché solo nel riprodurre effigi reali,
tenute in casa per lo più come segno di lealtà politica.
Quando un genere ha un successo
economico considerevole, dà luogo a sottoclassi, cioè a ulteriori
specializzazioni. La natura morta olandese e fiamminga, del Settecento, vede
una infinità di maestri che per ragioni di mercato si dedicano esclusivamente
ai fiori, ai pesci, alle frutta, alla cacciagione, alla rappresentazione di
oggetti domestici, ecc. Anche le singole città, quando gli scambi e i viaggi si
moltiplicano, vedono nascere scuole paesistiche alacri nel fornire ai
forestieri autentici souvenir
turistici: fra questi, com’è noto, rientrano molti dipinti del Guardi e del
Canaletto. Ed è ovvio che il souvenir deve
avere alla base un fondamento realistico, e non fantastico. Ecco quindi i
paesaggisti armati di taccuino, se non addirittura di pentolini di colore,
sedersi agli angoli delle strade e ritrarre monumenti tipici. E’ una poetica
quasi opposta a quella di Claude Lorrain, che invece, trovandosi a
operare in un ambiente in cui prevalevano gli interessi letterari, mortificò
le sue annotazioni dal vero, o meglio le cristallizzò in una puristica
compostezza, senza indulgere a ricordi reali.
Abbiamo parlato
finora di generi, ma il discorso, ovviamente, vale anche per quei gruppi di
opere che presentano caratteri analoghi di motivo, di clima sentimentale, di
gusto. E in proposito la sociologia potrebbe aiutare a creare una quantità di
raggruppamenti storiografici, oggi imprevisti. Ad esempio, il caravaggismo non
dovette essere solo la conseguenza d’una fortunata ricettività stilistica, ma
pare nascere da un’intenzionale raggruppamento, del
tipo delle avanguardie moderne, forse appoggiato analogamente ad abili
mercanti. La stessa divisione politica di Roma, nel Seicento, fra il partito
filo‑spagnolo e quello filo‑francese, provocò caratteristiche
distinzioni e raggruppamenti stilistico‑tematici. Scendendo a ulteriori
dettagli, su questa strada giungeremmo al committente, al mecenate, il cui
peso fu a volte talmente determinante da far mutare radicalmente lo stile dei
maestri. Perfino Michelangelo si comportò diversamente
davanti ai papi che lo comandavano; Giotto
cambiò sostanzialmente di carattere e di modo narrativo da Assisi a
Padova, da Padova a Firenze. Il Simone Martini
di Siena è diverso dal Simone Martini di Napoli. Perché? Per ora dobbiamo
limitarci a leggere il magnifico studio di Panofsky sull’abate Suger, o il
testamento politico di Nicolò V, e supporre qualche analogo condizionamento.
In qualche altro caso, come nella Firenze laurenziana, viene
da chiedersi, addirittura, se opere come il Pan di Signorelli o le mitologie del
Botticelli siano più merito dei pittori, o dei letterati e committenti che li
assistettero.
L’itinerario, fin qui tracciato, sulla
scorta di ricordi e d’impressioni personali, in quanto manca, purtroppo, una bibliografia,
o anche solo un’opera d’insieme sullo stato attuale delle ricerche sociologiche
relative alla storia dell’arte (il massimo e indiscutibile
maestro, morto l’Antal, è però certamente il Francastel, di cui vanno
ricordati con elogio soprattutto i saggi. editi saltuariamente
nella rivista “Annales”, e in particolare quelli sui rapporti fra il
francescanesimo e le arti; su Giorgione,
e la pittura veneziana del primo Cinquecento; sul barocco, in polemica contro
il Tapié, e talune straordinarie conferenze, come quella sulle differenziazioni
regionali, di diocesi, di ordine monastico, entro il comune contesto del Rococò
bavarese), si potrebbe paragonare ad un’autostrada percorsa di notte o
con la nebbia, di cui lungo centinaia di chilometri sono visibili
poche isole di luce, con un astratto orientamento direzionale. E, per di
più, ci si è limitati a saggiare dei possibili rapporti operanti entro l’ambito
dell’élites culturali, senza cioè tentare di allargare il quadro della
fenomenologia storiografica.
Invece, almeno per ciò che riguarda il mondo contemporaneo, merito
precipuo della sociologia è proprio quello di star
trasformando, in parte, la storia della cultura in una antropologia culturale.
Si veda, anche nel numero di questa rivista[1]
quando larga sia la discussione sull’industrial
design, sulla produzione di massa, sulla ricettività del
pubblico o sulla sua ostilità alle forme moderne, ecc. Ma allora, se volessimo
trasferire questa problematica nella storia, si aprirebbero campi addirittura
enormi d’indagine. A esempio, tutta l’arte popolare, di cui gran parte è una
derivazione, modificata per meglio ambientarle, di idee culte, che
bisognerebbe, quindi, sezionare cronologicamente, anche per capire quali idee
siano state scelte, fra le possibili; perché e in che modo mutate; perché e fino
a quando conservate. Certo, da un punto di vista idealistico sembra trattarsi
di piccole curiosità erudite; ma poiché proprio nell’arte popolare, più che
mai, constatiamo come la decorazione, la manifattura, restino aderenti a un
sistema quasi ritualizzato di vita, e si presentino come strumenti essenziali
di autentiche cerimonie (la coperta nuziale, la culla, il corredo nuziale e poi
funebre), è evidente che una storia concreta di queste forme potrebbe essere un
documento storico d’importanza eccezionale, non altrimenti sostituibile,
data la mancanza di forme scritte. Chi scriverà una storia documentata e
interpretativa del costume, delle manifatture casalinghe e piccolo artigiane,
della casa domestica, traccerà, finalmente, un profilo della storia dell’umanità
a livello veramente democratico: e sarà una storia anch’essa di
oppressioni e di rivolte.
Anzi si dovrà giungere assai più in là.
Infatti il livello che provvisoriamente denominiamo popolare non poté restare inerte,
lungo i secoli, anche per il fatto che una parte degli artisti (ma in quale
percentuale?), essendo di origine contadina o popolana, dovette,
inevitabilmente, portare con sé le impressioni della famiglia e dell’infanzia,
come ancora noi sappiamo a memoria antichi canti dialettali.
Su questa via di ricerca ho
l’impressione, però, di trovarmi solo. Eppure credo convincente e documentata
l’analisi del clima in cui dovette lavorare un grande bronzista del primo Cinquecento,
il Riccio ‑ fra l’altro asociale, miscredente, violento, ‑ ed è
facile, per chiunque, confrontare, alla luce del diverso ambiente sociale,
cioè per via di differenza, invece di semplice affinità, come il suo mondo,
anche per i temi che lo animano (grotteschi, osceni, demoniaci) si distingua
nettamente da quello aulico‑letterario del Mantegna, cui pur s’ispira, e
da quello religioso di Donatello.
Ecco emergere, quasi dal nulla, e prendere luce e autonoma espressione,
un livello di cultura estraneo alle élite, e quindi prima sottaciuto.
L’esplosione, secoli prima, di analoghe componenti nella scultura romanica,
cioè in rapporto con il tentativo, da parte dei benedettini, di contrastare le
eresie mediante una predicazione altrettanto capillare e
volgarizzata, dando credito ai livelli popolari prima esclusi da ogni
partecipazione religiosa, dovette nascere da una assai analoga situazione. Che
non è solo caratterizzata da un prorompere di temi dal basso in alto: ma dal
fornire, dall’alto, i mezzi, le opportunità per esprimere. Cioè è l’instaurazione
di un dialogo, che potrebbe aprirsi anche oggi, appena un pittore di
talento (e già accade), s’impadronirà della tematica dei fumetti; o un
architetto modellerà la città del futuro secondo quell’amaro disprezzo verso
ogni pianificazione, ogni tecnicismo disumano, che sta diventando appariscente
negli ultimi romanzi di fantascienza (dove sono descritte astronavi decrepite;
aviatori all’ultimo viaggio; società di tecnici e intellettuali disgregate, in
un grande anelito nostalgico verso la natura normale, concreta e senza rischi).
Perché ciò accada, sarà necessario, c’insegna la storia, di molto, molto
coraggio. All’amico Lombardi voglio ripetere,
come omaggio a Napoli, in compendio la vicenda dell’opera buffa,
come mi è riuscito di saggiarla, dalla lettura di centinaia e centinaia di
libretti scritti in quel meraviglioso dialetto che è, per chi mal lo conosce,
causa di delizia e di disperazione a un tempo. Credevo che l’opera buffa,
specialmente per il prevalere in essa del dialetto, di personaggi popolani, per
la povertà stessa dei mezzi tecnici con cui veniva eseguita, e per il
pittoresco ambiente dove era rappresentata, potesse costituire un fenomeno di
apertura popolare assai largo e sincero. E la ricerca non mi ha affatto
smentito. Solo che questa apertura esistette solo alle origini, e si dissolse
rapidamente non appena il pubblico dei nobili, e infine la corte, s’interessò
al genere. Cambiando la società che la fruiva, mutarono, anzi se ne capovolsero
i caratteri: alla fine divenne solo più un gioco di buona società: “Così fan
tutte”. E cambiò, parallelamente, la lingua: dal dialetto
sincero a quello edulcorato, infine alla lingua, tranne le parti buffe, ridicole
e senza problemi. La qualità musicale restò alta; scomparve però la qualità
morale.
Di tutti gli scrittori per teatro, il
più impegnato (e lo elogiano chiaramente le prefazioni
ai libretti, per essere stato il primo a portare in palcoscenico e a illustrare
la gente “cchiù bascia de lo paese suio”)
fu certamente il Trinchera, che volle mantenere e
aumentare l’apertura popolare e popolareggiante nonostante che cambiassero i
tempi, dalla tensione anzi ricavò l’impegno
a una aggressività sempre maggiore. La leggenda vuole ch’egli sia finito
in galera, a causa della coraggiosissima Tabernola (che si conclude dopo aver descritto le iniquità
di Fra Macario, in questa paradossale morale: poiché non si può far nulla
contro i preti e i frati, facciamoci tutti monaci, ci daremo finalmente alla
bella vita. Come loro, con in più la certezza di aver l’anima salva). La
cronaca ci dice che la sua fine fu ben più tragica: travolto dal fallimento,
impedito ad agire dalla società stessa a cui voleva comunicare il suo messaggio
di rivolta, si squarciò il ventre nel 1755, in carcere, con i cocci di un
piatto.
Eugenio Battisti
Originalmente pubblicato su: «De Homine» rivista diretta da Franco Lombardi, n.5-6, giugno 1963, pp. 212-224.
Last
update: 30-12-1999
Webmaster:
Francesco M. Battisti battisti@ing.unicas.it