Storia dell’arte e società  (1963)

 

 

 

Eugenio Battisti

 

 

 

 

 

 

Per risultare uno strumento utile di indagine storica, la sociologia (in qualsiasi modo la s’intenda, meglio però secondo un’accezione assai larga, come studio dei rapporti fra le manife­stazioni culturali e la società) o deve consentire la scoperta di nuovo materiale artistico, o deve essere la via per interpretare in modo più aderente capolavori e situazioni già note. In realtà, le due possibilità si integrano, in quanto la nostra conoscenza è sempre una scelta, condizionata da interessi personali o di gusto, e nuove interpretazioni consentono, effettivamente, di scoprire, o meglio accogliere nel museo immaginario nuovi capolavori, re­legando nei depositi altre opere suscettibili di minor attualità. Posta così la domanda, è inevitabile rispondere in modo positi­vo, riconoscendo cioè l’efficacia, indiscutibile, di queste inda­gini; e lamentando caso mai la loro esiguità numerica, giacché, in realtà, possediamo solo dei saggi, fatti un po’ a caso, si direbbe soltanto per esplorare quali campi siano più redditizi. Trivella­zioni, insomma, che non coprono né tutta l’area che va dal tardo antico all’età contemporanea, né tutto l’ambito topografico, né la vastissima casistica a cui ormai sembra lecito rivolgersi con mezzi sociologici. In tale situazione prudenza vuole che, al posto di sintesi e di conclusioni generiche, s’intensifichino invece le trivellazioni, specialmente quelle sui periodi più ricchi di diffe­renziazioni e di polemiche stilistiche. Prudenza vorrebbe anche che molte delle conclusioni affrettate cui giungono i critici del­l’arte contemporanea fossero controllate su una migliore cono­scenza sociologica del passato, giacché più volte, leggendo le loro pagine, ci si accorge che la situazione, a esempio, di Venezia nei primi anni del Cinquecento, o degli ebanisti attivi a Parigi nel XVIII secolo, è singolarmente simile a quella contemporanea della produzione per le masse, della fabbricazione in serie, pur avendo comportato problemi e conseguenze artistiche avverse.

Nonostante l’avversione a trattare di “sociologia” in gene­rale, e delle sue finalità metodologiche, devo però aggiungere che tale tipo di ricerca si è dimostrato storiograficamente utile solo quando esercitato su ambiti cronologici, topografici, di so­cietà assai ristretti, e con propri documenti alla mano. Abbiamo in proposito due volumi assai significativi: l’excursus di Hauser dalla preistoria in poi, e il volume (fra l’altro più ampio già come numero di pagine) dell’Antal, sulla pittura fiorentina attor­no a Giotto. Ora, pur riconoscendo a varie pagine dello Hauser una notevole efficacia critica, non si può che concludere nel mo­do più negativo sul suo tentativo di limitarsi a giustapporre vicende storiche ed artistiche, in un modo che sembra addirit­tura occasionalista, per insufficienza di connessioni interne e di approfondimenti. L’Antal, invece, riuscì in quello che dal punto di vista iconografico, o attribuzionista, gli specialisti non erano venuti a fare: cioè a creare degli autentici nuclei storici ben in­dividualizzati, di opere, di artisti, di committenti, in polemica fra di loro in nome di programmi precisi e determinati. Secon­do il giudizio di qualche erudito di storia fiorentina, il libro di Antal è in parte da rifare, in quanto egli avrebbe utilizzato materiale di seconda mano, invece che compiere esplorazioni archi­vistiche dirette. C’è tuttavia una enorme differenza fra un pro­blema mal posto, come quello dello Hauser, e un problema cor­rettamente risolto anche se solo in modo parziale. D’altronde, ogni volta che mi è toccato di confrontare ciò che dice l’Antal con altre fonti documentarie alla mano, ho potuto riconoscere che le sue conclusioni restano validissime.

Certo, una ricerca sociologica deve affrontare, per prima cosa, la difficoltà di non disporre di una adeguata documenta­zione. Non perché ne manchino le basi, ma perché scarseggiano i sussidi bibliografici: infatti né i positivisti (che solo scarsamente si sono abbandonati al piacere di pubblicare l’inventario dei mobili ed arredi lasciati in testamento da un artista, le testimonianze del gusto di un committente, o anche solo del suo comporta­mento), né tanto meno i critici affetti da crocianesimo o da ambizioni letterarie hanno dato completi regesti sugli artisti di una regione o di una città (gli esempi adducibili si contano sulla punta delle dita, specialmente in Italia), anzi spesso hanno circondato d’una cortina di silenzio le notizie oggi più stimolanti. Sarà bene dare qualche esempio: tuttora riesce quasi impossibile ritrovare il documento, citato da molti, del processo durante il quale uno dei più singolari pittori veneti del Cinquecento, il Marescalco, di cui è chiarissima la concomitante mistico‑reli­giosa specialmente nella pala con “Pietà e simboli della passione” di Bassanello, viene condannato dall’Inquisizione per non aver voluto rappresentare il purgatorio, cioè, in altre parole, perché condivideva idee luterane. Mi si potrà obbiettare, a que­sto punto: la pala è leggibile criticamente benissimo anche senza gli atti del processo. Però, a parte che sarebbe un ben ingenuo modo di fare storia dell’arte il trascurare quel lato delle opere che costituisce un documento di storia religiosa ‑ specialmente quando le informazioni ricavabili sono di grande interesse ge­nerale ‑ c’è da chiedersi se, senza conoscere la propensione eretica del Marescalco si avrebbe modo d’inserirne congruamente il percorso stilistico nel panorama europeo del “secondo espressio­nismo” del Cinquecento, caratterizzato appunto ovunque c’era una problematica religiosa da una ripresa di deformazioni, di colori astratti, d’illuminazioni saltuarie e violente. Ad esso dan­no opera quasi tutti i maggiori scultori e incisori francesi (nota bene: protestanti), oltre al Greco, il cui consigliere religioso sembra essere stato addirittura il confessore di Santa Teresa. E non ci sarà stata un’ombra, almeno, di diffidenza religiosa nel singolare rifiuto, da parte di vari membri della Scuola di San Rocco, a Venezia, di affidare i lavori al Tintoretto, tanto simile di gusto e di pietà religiosa?

Prevedo, a questo punto, altre obiezioni, e accuse di arbi­trarietà nel voler stabilire un rapporto fra “espressionismo” e problematica religiosa. Certo, in astratto, non c’è nessun legame obbligatorio fra religiosità e stilizzazione. Tutti, d’altronde, san­no che la devozione ama proprio le serene e imperturbabili ma­donne del Della Robbia, quelle di Piero della Francesca, o le altre del Sassoferrato. Ma, nel panorama del Cinquecento, il rapporto espressionismo e religiosità sembra essere innegabile.

I pittori svizzeri che crearono, quasi, il mito della “donna, la morte e il diavolo”, furono fra i primi iconoclasti, abbando­narono la pittura in seguito all’aniconismo e scesero a combattere contro i papisti; di essi uno morì in battaglia al fianco di Zwingli. Grünewald, il più grande espressionista forse di tutti i tempi, è citato in un documento che lo descrive mentre, nelle osterie, sobilla i popolani all’insurrezione, durante la guerra dei contadini. Il Pontormo, che certo è, insieme a Michelangelo, il più sospetto di eresia, appena dipinse il Giudizio Universale in San Lorenzo, a Firenze, destò un tal vespaio di critiche da far distruggere, non molto tempo dopo, l’opera stessa. Il tema stesso, così intensamente drammatico, del Giudizio Finale era condannato da molti teologi proprio perché caro ai luterani.

Ecco, dunque, alcuni esempi di un rapporto preciso fra un grande fatto culturale (la Riforma), e le arti figurative, che si foggiano uno stile adatto ad esprimerne i contenuti morali. Ma una indagine sugli ambienti entro cui nascono talune opere può anche portare ad un altrettanto chiarificatore riconoscimento di mancanza di rapporti, evitando fraintendimenti. Adduco in proposito un esempio scherzoso: a proposito della famosissima Festa degli Dei, di Giovanni Bellini ma finita da Tiziano, ora a Washington, un insigne iconologo, Edgar Wind, tentò di spie­garne l’intonazione bacchica, anzi a tratti accentuatamente ero­tica (a destra della tela esiste uno splendido nudo femminile), in rapporto con l’erotismo di Isabella d’Este, a riconferma della tesi di una originaria destinazione di tale opera a Mantova, invece che a Ferrara, città dove invece fu poi collocata. Non so più dove ho letto alcune missive di Isabella, controfirmate da sue dame, al marito, in cui, con una libertà di parola sorpren­dente che rivela come la potestas del duca si estendesse aper­tamente a tutto l’entourage femminile della moglie, si narra come in sua assenza, per rallegrare la solitaria Isabella, i cavalieri di corte avessero diretto contro lei il gioco del trentuno (un’orgia collettiva avente un’unica protagonista), mentre i valletti, presumibilmente più numerosi, si erano mostrati altret­tanto galanti verso l’ancella, lasciandola malconcia. Su tutto il lato osceno delle corti rinascimentali la pietà storica, da tempo, ha posto il velo, ed è bene ch’esso resti steso. Ma se dalla bru­tale realtà che talvolta è utile conoscere passiamo alla pittura del Bellini, vi troviamo, ad evidentiam (e al contrario che in Tiziano) assai più innocenza che oscenità. Non solo. Il program­ma del ciclo che Isabella si fece dipingere va letto nel dipinto del Mantegna, ora al Louvre, che rappresenta “Venere e Mar­te, Vulcano e Mercurio, e il coro delle Muse danzanti”. Anche lì troviamo un nudo femminile, per Venere, e una poesia coeva ci fa intendere che tale divinità potrebbe essere un’idealizzato ritratto di Isabella. La somiglianza, ora, è nulla. Ma la stessa poesia lascia intendere che, di tale nudità, il Duca ebbe a scan­dalizzarsi. In tutte le sue manifestazioni pittoriche, plastiche, la corte di Mantova infatti si presenta come severamente mora­listica. Non diversamente, la più violenta polemica contro il teatro più tipicamente profano, quello cioè di impronta non tanto classicheggiante, quanto giullaresca, scoppiò, d’altronde, in una corte abbastanza simile di atteggiamento a quella di Ferrara, dove la grande riesumazione posteriore sembra addirittura un capo­volgimento di programma politico‑culturale (tutta la discussione è riportata dal Decembrio). L’oscenità era riservata alla vita privata (che dobbiamo intendere promiscua, abbastanza larga­mente collettiva, ecc. , come d’altronde in tutte le corti), o al carnevale e, ai giochi, esclusa, rigidamente, dalle arti. E la serietà del Mantegna che fu per temperamento adattissimo ad un clima piuttosto austero, da quanto si è detto, risulta forte­mente accentuata. Nel caso specifico del dipinto, viene da so­spettare un cambiamento, o in sede di progettazione o di ese­cuzione, che radiografie potrebbero mettere in luce: infatti un disegno presuppone inizialmente due nudi femminili, e non uno solo, di cui il secondo fortemente sensuale.

Abbiamo dato due esempi, di concomitanza positiva e ne­gativa, da cui si vede come il contesto delle conoscenze ambien­tali possa modificare e addirittura capovolgere un giudizio, fa­cendoci intervenire, quasi di presenza, nella problematica degli artisti. Eppure questi esempi restano ancora, a parere di chi scrive, generici, in quanto in tali casi la concomitanza ambien­tale non esercita una influenza sufficientemente determinante sul piano stilistico. Il caso è ben diverso allorché i Domenicani impongono ‑ così almeno sembra ‑ a Giunta Pisano di pro­porzionare il suo Crocifisso per la grande chiesa bolognese se­condo il modulo dell’homo quadratus, largo quanto alto, e dan­no quindi una base visiva, ben stabilita, all’ulteriore elabora­zione dell’opera. O allorché il Bernini interpreta, con un con­sigliere al fianco, la pagina in cui Santa Teresa descrive la sua transverbazione, e dà all’estasi stessa l’interpretazione sen­soriale‑erotica che non solo era proposta, ma artificiosamente provocata da qualche confessore, che si comportava con le sue, diciamo così pazienti, in modi non molto dissimili da quelli che determinarono i successi di Casanova.

Ed è un problema tipicamente sociologico, non solo di sto­ria dell’architettura o della scienza, chiedersi in che modo si siano diffuse le tecniche di progettazione geometrica, rigorosamente proporzionate, che troviamo applicate nei cantieri francesi dal 1135 circa; o in che modo fossero organizzati i lapicidi gotici cui si devono capolavori altissimi di statuaria accanto a banali ornamentazioni, cioè quali erano gli strumenti didattici, i sus­sidi culturali, l’organizzazione pratica che consentiva di indivi­duare gli elementi più dotati, di riscattarli rapidamente dallo stato di garzone e di aiuto per affidare loro compiti direttivi, già giovanissimi, superando le gelosie, le posizioni precostituite, ecc. Troppo poco sappiamo, anche, sulle botteghe artistiche, e nessuno, o quasi, si è preoccupato di spiegarci perché in talune epoche la collaborazione fra maestro e aiuto si protragga lun­gamente, altre volte invece si tronchi di colpo, dopo pochi mesi. Statistiche comparative sulla età in cui, di secolo in secolo, gli artisti si affacciano alla fama, con la prima opera pubblica, da­rebbero constatazioni sorprendenti, e utili sussidi storiografici. Infatti è, purtroppo, una leggenda (assai recisamente smentita) la coincidenza di genio e precocità: Giotto si distacca da Cima­bue (se questi fu suo maestro) con violenta rottura, ma solo relativamente tardi; la fama di Caravaggio si afferma attorno al 1600 e non prematuramente come suppose il Longhi, e man mano che ci avviciniamo ai nostri tempi, l’età media del grande esordio si sposta verso i trenta, trentacinque anni. Come furono possibili, invece, altri casi di precocità (Raffaello, Mo­zart, ecc.)? Perché, avvicinandoci ai nostri tempi, l’appren­dista­to si allunga? A causa di una più lenta maturazione, o perché è la fiducia, la commissione importante, la pressione del lavoro a rendere precoci i geni? O per insufficienti tecniche didattiche?

Più ci si addentra in questo itinerario, e più ci si accorge di come non solo quasi tutti i problemi attuali più scottanti del rapporto fra l’artista e la società siano anticipati nella sto­ria, ma come un’indagine approfondita permetta, in linea di mas­sima, di individuare, fra le varie soluzioni date di volta in volta, alcune che sarebbero assai utili oggi. Dopo una diffidenza lar­ghissima verso le arti di corte, l’aristocrazia, dopo tante ironie sugli inutili sprechi nell’arredamento dei palazzi, sull’aver pro­mosso manifatture economicamente passive di prodotti di lusso (come le ceramiche, le arazzerie), oggi, eliminati questi ceti e questi centri, ci si accorge di non avere più strumenti adeguati per impedire che là dove la produzione artistica è connessa con un larga vendita, ogni impegno al rinnovamento e alla speri­mentazione sia impedito da ragioni di mercato o indirizzato solo in modo fittizio a stimolare una rapida obsolescence. Si è par­lato malissimo delle accademie, che pur male sostituivano le antiche botteghe, permettendo a un tempo la persistenza del gusto e l’avvicendarsi delle generazioni, e siamo caduti in un rapporto strettissimo fra mercante ed artista, per cui in più casi è imposta la ripetizione meccanica senza varianti di analo­ghe formule. Si parla di pianificazione aperta, di uffici urbani­stici funzionanti in modo continuativo almeno nei grandi centri, e troppo poco si sono ricordati i male studiati statuti comu­nali che prevedevano ispezioni quotidiane e facevano carico delle spese necessarie per correggere eventuali deturpazioni ai commissari incaricati della vigilanza; o imponevano al mercante che volesse insediarsi in città di costruire un edificio di alto decoro, valido anche per garantire i regolari pagamenti delle tasse, e destinato a divenire proprietà pubblica; o di farsi una piazza davanti alla casa, se questa costituiva centro di traffico. Disposizioni ingenue, evidentemente. Ma, messa una accanto all’altra, funzionali, come dimostrano i nuclei antichi così costituiti, quando sono rimasti intatti. Uno di essi è il quartiere di San Pellegrino, a Viterbo.

Gli esempi che stiamo accumulando riguardano tanto il caso specifico del singolo artista, quanto il modo di comportarsi di un gruppo, di una generazione. Ed è giusto che sia così. La sociologia è uno studio di rapporti, è il lato, per così dire, pub­blico della cultura. E’ un sistema di condizionamenti, a cui il singolo può solo in parte reagire. A volte la sua reazione è violenta, altre volte è limitata. Ciò dipende dalla psicologia in­dividuale: ma anche nel caso di violente reazioni sarà bene te­nere presente lo stimolo che ha condotto ad esse. Questa inte­grazione fra sociologia e psicologia sarà, probabilmente, il com­pito della critica della prossima generazione, giacché in sede sto­riografica è assai difficile, se non impossibile, scendere al singolo senza una piattaforma generale di conoscenze quali oggi mancano. Così è inutile, nonostante l’ipotesi ormai generaliz­zata d’una interrelazione fra il purismo proporzionale e pro­spettico del Rinascimento, e la tenuta secondo sistemi moderni di contabilità dei libri di cassa, presso i mercanti locali, inten­dere tale fatto in base alla tesi di uno spirito toscano raziona­listico, ecc. E’ vero che Piero della Francesca scrisse sia un trattato di prospettiva, sia un manuale di contabilità (fra l’altro ancora inedito), ma essendo comune tanto la tenden­za al calcolo preciso, quanto il desiderio di imparare cor­rettamente la prospettiva, resta da chiedersi perché solo in qualche artista il suggerimento ambientale abbia comportato risultati altissimi di stile; cioè perché in lui il suggerimento da generico sia divenuto specifico, il presupposto sia divenuto una componente. O, ponendo diversamente la domanda, in qual mo­do lo spirito di geometria di Pietro si differenzia da quello dei suoi coetanei. Tutti questi passaggi richiedono un sussidio di documenti: ad esempio relativi alla psicologia e al comporta­mento dei mercanti che furono committenti di Piero. E tanto più si dovrebbe documentare l’ancor misterioso ambito in cui, per la prima volta, fu posto il problema della prospettiva orto­gonale. Per ora una induzione vale l’altra, anzi il filone di cultura che per ora risulta più attivo sembra connettersi allo studio dei Domenicani a Santa Maria Novella: dal profano al sacro, dunque; dai libri di conti alla predicazione.

Con relativamente poca fatica, facendo indagini frammen­tarie e perfino casuali, si possono invece ottenere risultati straor­dinariamente concreti per ciò che concerne la fortuna, e quindi l’evolversi, il raffinarsi, o il fossilizzarsi dei vari generi arti­stici: come il ritratto, la natura morta, la pittura di storia, il paesaggio, integrando le informazioni fornite dalla trattatista antica che già ci informa sull’opposizione di taluni ambienti e generi ed artisti che invece sono apprezzatissimi da altri. Fa­moso è il caso delle “bambocciate”, che diedero luogo a scandali pittoreschi, a polemiche; ebbene, gratta gratta, è venuta in luce anche una base economico‑sindacale, per cui le ragioni di oppo­sizione da parte dei pittori di scene storiche verso gli autori di queste piccole composizioni burlesche o narrative, risultano no­tevolmente fondate e realistiche. Per Roma, tuttavia, ancora non si sa quali fossero i reciproci rapporti di vendita, di prezzo, di guadagno. Invece uno spoglio sistematico degli atti notarili parigini, nel Sei e Settecento, condotto da una équipe diretta dal Wildenstein, ha permesso di constatare variazioni di valore e di successo incredibili: in pochi decenni si operò ad esempio un autentico boom della ritrattistica, prima impegnata presso­ché solo nel riprodurre effigi reali, tenute in casa per lo più come segno di lealtà politica.

Quando un genere ha un successo economico considerevole, dà luogo a sottoclassi, cioè a ulteriori specializzazioni. La na­tura morta olandese e fiamminga, del Settecento, vede una infi­nità di maestri che per ragioni di mercato si dedicano esclusi­vamente ai fiori, ai pesci, alle frutta, alla cacciagione, alla rap­presentazione di oggetti domestici, ecc. Anche le singole città, quando gli scambi e i viaggi si moltiplicano, vedono nascere scuo­le paesistiche alacri nel fornire ai forestieri autentici souvenir turistici: fra questi, com’è noto, rientrano molti dipinti del Guardi e del Canaletto. Ed è ovvio che il souvenir deve avere alla base un fondamento realistico, e non fantastico. Ecco quindi i paesaggisti armati di taccuino, se non addirittura di pentolini di colore, sedersi agli angoli delle strade e ritrarre monumenti tipici. E’ una poetica quasi opposta a quella di Claude Lorrain, che invece, trovandosi a operare in un ambiente in cui preva­levano gli interessi letterari, mortificò le sue annotazioni dal vero, o meglio le cristallizzò in una puristica compostezza, sen­za indulgere a ricordi reali.

Abbiamo parlato finora di generi, ma il discorso, ovvia­mente, vale anche per quei gruppi di opere che presentano ca­ratteri analoghi di motivo, di clima sentimentale, di gusto. E in proposito la sociologia potrebbe aiutare a creare una quanti­tà di raggruppamenti storiografici, oggi imprevisti. Ad esempio, il caravaggismo non dovette essere solo la conseguenza d’una fortunata ricettività stilistica, ma pare nascere da un’intenzio­nale raggruppamento, del tipo delle avanguardie moderne, forse appoggiato analogamente ad abili mercanti. La stessa divisione politica di Roma, nel Seicento, fra il partito filo‑spagnolo e quello filo‑francese, provocò caratteristiche distinzioni e raggruppa­menti stilistico‑tematici. Scendendo a ulteriori dettagli, su que­sta strada giungeremmo al committente, al mecenate, il cui peso fu a volte talmente determinante da far mutare radicalmente lo stile dei maestri. Perfino Michelangelo si comportò diversa­mente davanti ai papi che lo comandavano; Giotto cambiò sostan­zialmente di carattere e di modo narrativo da Assisi a Padova, da Padova a Firenze. Il Simone Martini di Siena è diverso dal Simone Martini di Napoli. Perché? Per ora dobbiamo limitarci a leggere il magnifico studio di Panofsky sull’abate Suger, o il testamento politico di Nicolò V, e supporre qualche analogo condizionamento. In qualche altro caso, come nella Firenze laurenziana, viene da chiedersi, addirittura, se opere come il Pan di Signorelli o le mitologie del Botticelli siano più merito dei pittori, o dei letterati e committenti che li assistettero.

L’itinerario, fin qui tracciato, sulla scorta di ricordi e d’im­pressioni personali, in quanto manca, purtroppo, una bibliogra­fia, o anche solo un’opera d’insieme sullo stato attuale delle ri­cerche sociologiche relative alla storia dell’arte (il massimo e indiscutibile maestro, morto l’Antal, è però certamente il Fran­castel, di cui vanno ricordati con elogio soprattutto i saggi. editi saltuariamente nella rivista “Annales”, e in particolare quelli sui rapporti fra il francescanesimo e le arti; su Giorgione, e la pittura veneziana del primo Cinquecento; sul barocco, in polemica contro il Tapié, e talune straordinarie conferenze, co­me quella sulle differenziazioni regionali, di diocesi, di ordine monastico, entro il comune contesto del Rococò bavarese), si potrebbe paragonare ad un’autostrada percorsa di notte o con la nebbia, di cui lungo centinaia di chilometri sono visibili poche isole di luce, con un astratto orientamento direzionale. E, per di più, ci si è limitati a saggiare dei possibili rapporti operanti entro l’ambito dell’élites culturali, senza cioè tentare di allar­gare il quadro della fenomenologia storiografica. Invece, almeno per ciò che riguarda il mondo contemporaneo, merito precipuo della sociologia è proprio quello di star trasformando, in parte, la storia della cultura in una antropologia culturale. Si veda, anche nel numero di questa rivista[1] quando larga sia la discus­sione sull’industrial design, sulla produzione di massa, sulla ri­cettività del pubblico o sulla sua ostilità alle forme moderne, ecc. Ma allora, se volessimo trasferire questa problematica nella storia, si aprirebbero campi addirittura enormi d’indagine. A esempio, tutta l’arte popolare, di cui gran parte è una derivazione, modificata per meglio ambientarle, di idee culte, che bisognerebbe, quindi, sezionare cronologicamente, anche per ca­pire quali idee siano state scelte, fra le possibili; perché e in che modo mutate; perché e fino a quando conservate. Certo, da un punto di vista idealistico sembra trattarsi di piccole cu­riosità erudite; ma poiché proprio nell’arte popolare, più che mai, constatiamo come la decorazione, la manifattura, restino aderenti a un sistema quasi ritualizzato di vita, e si presen­tino come strumenti essenziali di autentiche cerimonie (la coperta nuziale, la culla, il corredo nuziale e poi funebre), è evidente che una storia concreta di queste forme potrebbe essere un documento storico d’importanza eccezionale, non al­trimenti sostituibile, data la mancanza di forme scritte. Chi scriverà una storia documentata e interpretativa del costume, delle manifatture casalinghe e piccolo artigiane, della casa do­mestica, traccerà, finalmente, un profilo della storia dell’uma­nità a livello veramente democratico: e sarà una storia anch’essa di oppressioni e di rivolte.

Anzi si dovrà giungere assai più in là. Infatti il livello che provvisoriamente denominiamo popolare non poté restare inerte, lungo i secoli, anche per il fatto che una parte degli artisti (ma in quale percentuale?), essendo di origine contadina o popolana, dovette, inevitabilmente, portare con sé le impressioni della famiglia e dell’infanzia, come ancora noi sappiamo a memoria antichi canti dialettali.

Su questa via di ricerca ho l’impressione, però, di trovarmi solo. Eppure credo convincente e documentata l’analisi del cli­ma in cui dovette lavorare un grande bronzista del primo Cin­quecento, il Riccio ‑ fra l’altro asociale, miscredente, violen­to, ‑ ed è facile, per chiunque, confrontare, alla luce del di­verso ambiente sociale, cioè per via di differenza, invece di semplice affinità, come il suo mondo, anche per i temi che lo animano (grotteschi, osceni, demoniaci) si distingua nettamente da quello aulico‑letterario del Mantegna, cui pur s’ispira, e da quello religioso di Donatello. Ecco emergere, quasi dal nulla, e prendere luce e autonoma espressione, un livello di cultura estra­neo alle élite, e quindi prima sottaciuto. L’esplosione, secoli prima, di analoghe componenti nella scultura romanica, cioè in rapporto con il tentativo, da parte dei benedettini, di contrastare le eresie mediante una predicazione altrettanto capillare e volgarizzata, dando credito ai livelli popolari prima esclusi da ogni partecipazione religiosa, dovette nascere da una assai ana­loga situazione. Che non è solo caratterizzata da un prorompere di temi dal basso in alto: ma dal fornire, dall’alto, i mezzi, le opportunità per esprimere. Cioè è l’instaurazione di un dialogo, che potrebbe aprirsi anche oggi, appena un pittore di talento (e già accade), s’impadronirà della tematica dei fumetti; o un architetto modellerà la città del futuro secondo quell’amaro di­sprezzo verso ogni pianificazione, ogni tecnicismo disumano, che sta diventando appariscente negli ultimi romanzi di fantascienza (dove sono descritte astronavi decrepite; aviatori all’ultimo viag­gio; società di tecnici e intellettuali disgregate, in un grande anelito nostalgico verso la natura normale, concreta e senza ri­schi). Perché ciò accada, sarà necessario, c’insegna la storia, di molto, molto coraggio. All’amico Lombardi voglio ripetere, co­me omaggio a Napoli, in compendio la vicenda dell’opera buffa, come mi è riuscito di saggiarla, dalla lettura di centinaia e centi­naia di libretti scritti in quel meraviglioso dialetto che è, per chi mal lo conosce, causa di delizia e di disperazione a un tempo. Credevo che l’opera buffa, specialmente per il prevalere in essa del dialetto, di personaggi popolani, per la povertà stessa dei mezzi tecnici con cui veniva eseguita, e per il pittoresco ambien­te dove era rappresentata, potesse costituire un fenomeno di apertura popolare assai largo e sincero. E la ricerca non mi ha affatto smentito. Solo che questa apertura esistette solo alle ori­gini, e si dissolse rapidamente non appena il pubblico dei nobili, e infine la corte, s’interessò al genere. Cambiando la società che la fruiva, mutarono, anzi se ne capovolsero i caratteri: alla fine divenne solo più un gioco di buona società: “Così fan tut­te”. E cambiò, parallelamente, la lingua: dal dialetto sincero a quello edulcorato, infine alla lingua, tranne le parti buffe, ridi­cole e senza problemi. La qualità musicale restò alta; scomparve però la qualità morale.

Di tutti gli scrittori per teatro, il più impegnato (e lo elo­giano chiaramente le prefazioni ai libretti, per essere stato il primo a portare in palcoscenico e a illustrare la gente “cchiù bascia de lo paese suio”) fu certamente il Trinchera, che volle mantenere e aumentare l’apertura popolare e popolareggiante nonostante che cambiassero i tempi, dalla tensione anzi ricavò l’impegno a una aggressività sempre maggiore. La leggenda vuole ch’egli sia finito in galera, a causa della coraggiosissima Tabernola (che si conclude dopo aver descritto le iniquità di Fra Macario, in que­sta paradossale morale: poiché non si può far nulla contro i preti e i frati, facciamoci tutti monaci, ci daremo finalmente alla bella vita. Come loro, con in più la certezza di aver l’anima salva). La cronaca ci dice che la sua fine fu ben più tragica: travolto dal fallimento, impedito ad agire dalla società stessa a cui voleva comunicare il suo messaggio di rivolta, si squarciò il ventre nel 1755, in carcere, con i cocci di un piatto.

 

Eugenio Battisti

 

 

Originalmente pubblicato su: «De Homine» rivista diretta da Franco Lombardi, n.5-6, giugno 1963, pp. 212-224.

 

Last update: 30-12-1999

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[1]  De Nomine, n. 5-6, giugno 1963, numero dedicato ad Arte e significazione umana.