Eugenio Battisti
E’
possibile che nei prossimi mesi, pur estendendosi le agitazioni studentesche
dai centri universitari alle città di provincia, e sviluppandosi la loro escalation
nelle scuole medie, il fronte della scuola finisca per restare gelidamente
bloccato. Non per colpa delle riforme non fatte, o fatte male, o della
scomparsa culturale della Cecoslovacchia (anzi, per meglio dire, della Russia),
o della vittoria di Nixon, o della linea telefonica diretta fra Cina e Stati
Uniti; ma perché la riforma della scuola non è l’obbiettivo di fondo, reale;
piuttosto, a dirla con gli psicologi, è un transfert.
Abbiamo
molti documenti sulla storia della rivoluzione entro le università; ma credo,
pochissimi sulla sua preistoria. Vorrei affacciare qui una ipotesi: cioè che
gli studenti abbiano protestato e protestino non tanto contro la struttura
scolastica, quanto contro la prima struttura sociale, esterna alla famiglia,
con cui hanno avuto occasione d’imbattersi appena raggiunto un grado adeguato
di maturità. Se ciò è vero, ora l’escalation fatta alla scuola media
denota una estrema prontezza d’ingegno e di reazione, cioè un ritorno ai tempi
d’oro allorché un ragazzo già di quindici anni poteva essere un artista sulla
soglia della fama; o una ragazza, di tredici incominciava una carriera non solo
di ottima moglie, ma di sagace padrona e a volte di raffinatissima
committente. I giovani, in altre parole, riescono a prendere una posizione di
dominio sul mondo ad una età assai minore di quanto abbia potuto fare un uomo
della mia generazione (cioè di chi ha ora un figlio di venti anni). E’
nell’università infatti che ho incominciato ad aprire gli occhi sulla società;
ma fino a tardi non sono stato in grado di valutare le malformazioni
dell’università stessa, cioè dell’ambiente da cui sono stato sostanzialmente
circondato e determinato. I giovani aprono gli occhi prestissimo.
Possiamo
fare merito di questo ampliamento ed anticipo della consapevolezza civile e
politica ai mass media, alle canzoni, alla televisione, al cinematografo
‑ quello più spregiudicato intendo ‑, ai viaggi, ma soprattutto
all’educazione famigliare, estremamente più libera, nonostante che i ragazzi
d’oggi la trovino, probabilmente, più oppressiva di quella di un tempo. Ma anche
ad una serie di rivoluzioni, tutt’altro che fallimentari, che hanno creato un
comune contesto, per così dire, di libertà. Contesto tutt’altro che generale
ed univoco, giacché l’impegno è stato diretto a sfondare successivamente una
porta, o l’altra; insoddisfacente poiché, in realtà, nello sforzo
dell’aggiornamento è venuto sempre meno il rapporto con le masse; contesto
tuttavia da non rinnegare in nessun modo, anche perché questa lotta per la libertà
è stata, in molti casi, eroica. Il fatto che i giovani, oggi, quasi
concordemente decidano di abbandonare l’obbiettivo della scuola (dove una
riforma sembra impossibile), per dirigersi verso i problemi
dell’organizzazione politica dello stato (entro i quali essi ritengono, a mio
parere in modo erroneo, inclusa ovviamente la chiave di una riforma della
scuola, altrimenti irraggiungibile), non fa che ripetere, con più abile
machiavellismo, il procedimento seguìto dagli intellettuali europei, che, svincolando
un po’ incertamente, da un angolo ad un altro, hanno cercato di strappare
vittorie là dove erano possibili. Anzitutto, in politica: libertà di
espressione, quindi di censura, prima ideologica e poi sessuale (la difficoltà
nel raggiungere la seconda denota come i fatti di costume siano più impegnativi
che le strutture dittatoriali); poi libertà culturale di muoversi, cioè, nella
sperimentazione; libertà religiosa; libertà morale, e così via. E’ interessante
vedere cosa è capitato nelle arti, buona prova di quanto gravi siano i
condizionamenti storici e sociali. La libertà qui si è mantenuta,
stentatamente, in architettura, ed è stata combattuta sotto il segno
dell’internazionalismo; quindi è passata, dopo aspre battaglie in pittura;
dalla pittura si è infiltrata nella letteratura e nella poesia, quindi nella
musica, ora sta tentando di trasformare il teatro. Di volta in volta si è
avuto un momento, non fecondo stilisticamente, ma decisivo, di rottura, i cui
responsabili hanno sempre pagato duramente; quindi un momento felicissimo
anche stilistico di espansione; quindi una scia di ammanieramento e di vuoto
sia formale che ideologico. Però quel che contano, nella storia che sarà fatta
domani e nella coscienza di chi ha agito, sono i momenti di rottura e di
scoperta delle nuove possibilità. La rivoluzione parigina di maggio, con tutte
le sue utopie, ha questo stesso significato.
La domanda da farsi, a questo punto, è perché i
giovani di oggi, invece che mettersi a fare del teatro o della pittura, siano
proclivi, al contrario, a cercare la loro libertà nel rinnovamento della vita
politica. Tre potrebbero essere le risposte: a) perché la politica è l’ambito
che richiede più urgentemente un rinnovamento, e la pressione delle strettoie
del sistema è tale da far lievitare spontaneamente, emozionalmente, una
protesta violenta e collettiva; b) perché la politica è un fronte relativamente
debole rispetto agli altri (così come è più facile ottenere il visto di censura
per una donna nuda e anche ormai per un uomo nudo sullo schermo, in teatro e
fra poco alla televisione, piuttosto che sciogliere il rapporto costituzionale
fra chiesa e stato); c) perché la fantasia collettiva ‑ uso una
espressione Junghiana ‑ è piena zeppa di sogni utopici, del desiderio di
una nuova società; d) perché l’azione politica dovrebbe assumere la forma
d’una organizzazione tecnica, su basi sociologiche, con programmi economici di
avanguardia.
Probabilmente,
in sé, ciascuna delle quattro risposte è giusta. La politica ha perso il suo prestigio
in quanto, specialmente nelle nazioni minori, è soffocata dalle incapacità
organizzative; è arcaica e cerimoniale, gira a vuoto macinando interessi per i
padroni di sempre, sta fuori del controllo collettivo, nonostante che fare oggi
un referendum sia estremamente più facile che cento anni fa, mentre il discorso
fra uomini di governo e popolazione potrebbe svolgersi, con decoro, per
televisione. In secondo luogo, la crisi interna dei partiti è giunta a tal
punto da paralizzare addirittura gli scontri sul massimi problemi; da
legittimare qualsiasi trasformismo, alleanza, ecc., e sempre più frequente, i
legislatori o i burocrati compiono un autentico suicidio: non presentando
proposte di legge, o non applicandole. Ma è indubbio che il sogno di una nuova
società magari fondata sulla tecnologia è assai più forte di ogni critica
negativa e più fecondo. La prima cosa che fanno gli studenti, occupando un
edificio, è di organizzare una vita collettiva, comunitaria; gli artisti,
sempre di più, sognano di coinvolgere, nei loro happening, completi
paesi e città (i grafici addirittura sono giunti alla dimensione urbana, come
nell’esperimento felice fatto a Pavia). Si stanno ricostituendo centri
d’incontro, validi per classi sociali assai diverse: dal Piper alle discothèques
a pressappoco, Piazza Navona. C’è molta più volontà che capacità di
organizzazione, ma la legge nasce dopo il costume, l’urbanistica, sana, dopo la
nascita della città, ed il sistema politico dopo la società che lo richiede.
Uno studio urgente da farsi, pertanto concernerebbe i caratteri della nuova
società che i giovani tentano disperatamente di creare.
In questo sforzo, disperso ma largo, fatto su base
sperimentale e antiautoritaria anch’essi hanno proceduto, e procedono,
concentrando gli sforzi su alcuni specifici punti. Uno di questi, essenziale,
è l’abbigliamento, cioè la libertà di potersi presentare in pubblico secondo un
fedele o almeno leale autoritratto psicologico. Alcuni anni fa, in occasione
d’un almanacco Bompiani, abbiamo tentato un’inchiesta sul gusto, specialmente
fra i giovani, di classi sociali e ubicazioni abbastanza differenziati.
Ricordo di essere rimasto molto sorpreso dai risultati; ma, quando mi sono
trasferito negli Stati Uniti, la mia sorpresa è divenuta almeno quintupla, in
quanto ho trovato che il modo di vestirsi e di vivere degli universitari di
laggiù era lo stesso di quello, desiderato più che già scelto, dagli italiani
intervistati. Per esempio, assai prima delle minigonne, una vasta percentuale
di ragazze sceglieva, come l’abito che sembrava più rispondente all’idea di
donna, una combinazione di camicetta e di shorts, con qualche tentazione per
gli abiti lunghi. Le giustificazioni addotte erano tipiche: in tale
abbigliamento si sentivano semplici, libere, giovanili, ecc. La minigonna, con
una componente erotica ed un gusto di libertà sessuale assai più forte,
corrisponde quindi ad una ben radicata propensione generale, ed è la metafora
di un atteggiamento civile ed umano che va affermandosi con ampiezza
vertiginosa. Due, tre anni fa si poteva ironizzare sullo spartiacque costituito
nell’abbigliamento da Stati Uniti‑Inghilterra da un lato, ed Europa, sia
nordica che latina; oggi i confini sono aboliti. La minigonna è niente, di
fronte ai problemi messi in movimento dai giovani; ma è stata generosa e leale
la lotta sostenuta dai giovani per poter indossare i vestiti che vogliono;
stupida ed ipocrita la reazione delle autorità costituite. Questa però ha
messo in luce come la discussione sulla libertà di abbigliamento sia un sintomo
della mancanza d’un atteggiamento di rispetto verso gli altri. E’ di poco
tempo fa la notizia d’una scuola di Boston i cui allievi, alla prescrizione di
presentarsi in modo ordinato e decente nelle classi, hanno riesumato tutti i
costumi delle loro origini nazionali, negri, cinesi, arabi, portoricani,
chiedendo se con essi potevano essere considerati, o no, ordinati e decenti.
Alla base dei movimenti giovanili di oggi c’è qualcosa di analogo, e cioè un
rispetto, che prima non si era mai presentato in Europa e in genere nel mondo,
per la libertà personale e per le differenze di razza, di nazionalità e di
religione. Parlo di rispetto in quanto una caratteristica essenziale di questi
movimenti è che l’associazione si crei per esclusiva volontà della base quasi
come un patto sottinteso, e con l’assoluta condizione che non ci sia violazione
alcuna dei diritti personali. Perfino la nomina di delegati è considerata un
arbitrio. La partecipazione deve essere totale e responsabilizzata in ogni
momento. Ai miei studenti negli Stati Uniti sembrerebbe offensivo se fossi io a
proporre i soggetti per le esercitazioni scritte (questo in quanto sanno che i
corsi con me si svolgono su un’atmosfera di reciproca fiducia); ed ho
fortemente l’impressione che alla base dei movimenti pacifisti non ci sia tanto
la polemica e l’orrore contro la guerra ‑ nota nei giovani fortunatamente
in modo indiretto tranne che per le spaventose vicende del Vietnam ‑
quando l’orrore per l’imposizione di principi nazionali precostituiti. Quando
gli studenti, in un comitato, chiedono di poter votare ciascuno per conto
loro, non è per sottigliezza politica, né per orgoglio individualistico. Essi
pretendono questo individualismo come atto di rivolta contro una società in cui
ciascuno è trasformato in scheda e trattato al computer (come accade per molte
votazioni nelle università americane).
Essi
vogliono, dunque, una società di pari fra pari, che tenda ad abolire una
quantità di preconcetti o di norme sopra-individuali, come il matrimonio
legale (ed anche qualche nazione europea si sta avviando sulla stessa strada),
la proprietà ‑ non più come beni posseduti, quanto come beni
eccessivamente protetti ‑ (di qui le violenze contro edifici pubblici);
vuole sostituire alla imposizione l’accettazione volontaria (sotto forma del
dialogo: cioè del programma da venire discusso prima d’ogni decisione): non
vogliono sistemi e vincoli permanenti, ed odiano la coerenza astratta che è
frutto, per lo più, di pigrizia. Si sono già costituite, nel passato, molte di
queste comunità; le più vicine, paradossalmente, sono quelle degli Adamiti che
hanno espresso una polemica altrettanto violenta contro la proprietà, contro
il matrimonio e contro la giurisdizione. E’ da notare che, parlando contro il
matrimonio, non s’intende negare una convivenza perdurante e se si vuole
definitiva; ma ogni vincolo che pretenda di agire al di là della volontà di
quelli che si sono uniti. Dunque, siamo di nuovo di fronte alla rivolta contro
ogni imposizione. I giovani, in cambio, chiedono una forma di dialogo cioè di
collaborazione attiva in tutte le decisioni che li riguardano, oggi e domani.
Ed
è qui che gli adulti dovrebbero, mettendosi le mani sulla coscienza, scendere
giù dalle cattedre e dagli uffici. La collaborazione non ha niente a che fare
con la riforma dell’università, non è un seminario con un numero più ristretto
di allievi, ma un nuovo tipo di cultura, cioè di ridiscussione ab ovo
su una serie enorme di problemi (politici, religiosi, economici, morali,
sessuali, giuridici, di comportamento, di entertainment), tutti quelli oggi
ritenuti vitali. I giovani chiedono che la società metta a loro disposizione
degli strumenti di giudizio e di meditazione con la stessa facilità e
prontezza con cui, interessatamente, li copre di dischi microsolco e di
manifesti. Essi sognano una società, in certo senso neo‑tribale, in cui
l’arte della vita ‑ a tutti i livelli ‑ possa venire appresa per
apprendistato diretto, cioè collaborando ciascuno nei limiti delle proprie
capacità con gli esperti più anziani. Se dovessimo applicare questa forma di
rapporto fra specialista e apprendista, bisognerebbe introdurre, nelle
università, una grande quantità di posti per apprendisti‑insegnanti; si
dovrebbero fare le ricerche in équipe con un gruppo di collaboratori (non
“negri”, ovviamente), e difatti l’unico modo in cui negli ultimi anni
l’università è servita è con la sua capacità, occasionalmente, di dar luogo a
posti di lavoro, di inventare iniziative ‑ magari enciclopedie ‑ cui
gli allievi potessero collaborare. Purtroppo, il più delle volte si è trattato
di imprese collettive solamente a scopo speculativo, autoritariamente dirette.
Però, anche a sognare una università perfetta, c’è per ora un divario non
colmato fra il numero dei campi in cui i giovani vogliono essere introdotti, e
le discipline che possono assisterli. Durante molte occupazioni gli studenti
hanno organizzato contro‑corsi sulla storia delle rivoluzioni, dei
movimenti operai, ecc.; ma sarebbe stato necessario che gli ex rivoluzionari
della resistenza avessero fatto dei corsi su come fare una rivoluzione, i
coniugi felici sulla vita a due e le prostitute sulle tecniche del sesso. Il
problema della riforma del matrimonio (o meglio, della sua abolizione), dovrebbe
essere trattato assai ampiamente, giacché concerne un momento vitale della vita
di tutti, connesso con la stessa giovinezza. Altro grosso incubo è l’ingresso
nella routine dell’impiego, nella carriera; in mancanza di altro sarebbe
almeno doveroso che a livello sperimentale si facessero dei tentativi diretti
di modifica degli orari. E’ per esempio totalmente stupido ed assurdo che le
ore di ufficio siano di giorno; e le ore di tempo libero di sera; il presidente
della mia università ha dichiarato che dalle statistiche risulta che il
periodo generalmente preferito per lo studio va fra le 11 e le 2 di notte, e
come immediata conseguenza, ha disposto che le biblioteche interne dei colleges
fossero aperte, in periodo d’esame, tutta la notte (mentre quella centrale già
chiude alle 24); ha inoltre pregato i professori di eliminare, il più
possibile, le ore di lezione al mattino. Il mondo non cascherebbe, ma
migliorerebbe gradatamente, consentendo un rapporto più continuativo con i bambini,
se, come a Madrid, gli orari d’ufficio incominciassero alle 10, invece che alle
9; o si mangiasse alle 11 di sera, dopo gli spettacoli, invece che prima, o,
poiché gli orari della capitale spagnola sono nati in seguito ad un referendum,
promosso da un grosso giornale cittadino all’inizio del secolo, si cambiasse,
invece che l’ora solare, tutto il ritmo della vita collettiva, scegliendo per
il lavoro le ore più stanche del giorno, e dando alle attività ludiche o
culturali, le uniche che contano nella vita, le ore più felici. Il mezzo ha
distrutto il fine della vita.
Uno
dei punti su cui non un desiderio ma una volontà precisa di azione mi pare vada
largamente affermandosi, negli Stati Uniti, è di dare all’automazione uno,
scopo sociale; cioè di servirsene non per aumentare i profitti di alcune
industrie, ma per eliminare il quantum di lavoro necessario ad ogni livello
della popolazione. Il sogno, almeno di mio figlio, che proprio per questo si è
precipitato a studiar sociologia, è di un apparato produttivo talmente perfezionato
e di un’agricoltura così razionale da consentire non l’abolizione della
povertà, ma l’abolizione del lavoro come condizione coercitiva per la
sopravvivenza, garantendo un minimo automatico di benessere fruibile da tutti,
il che corrisponde all’esperimento, fatto da una università americana, di dare
ad un gruppo di famiglie a basso introito non un sussidio, ma uno stipendio aggiuntivo,
tale da spingere la famiglia non dalla miseria alla stentatezza, ma
direttamente al benessere, nella fiducia di rimettere in atto, in tal modo, un
dinamismo sociale e morale paralizzato. E’ probabile che con un controllo
adeguato delle forme di produzione ed un loro impiego secondo altri principi
economici, un tale sistema di tassa alla rovescia risulti facilissimo da realizzare.
Noi,
quando eravamo ragazzi, anche solo col metterci a studiare il tedesco e
l’inglese (oltre al francese comune delle scuole), facevamo la nostra battaglia
contro il nazionalismo e l’abbiamo poi vinta. I giovani di oggi non conoscono
neppure più il limite europeistico o lo soffrono con disgusto; e sentono,
sempre più intensamente, i problemi di tutto il mondo. Negli Stati Uniti, in
particolare, questa sensazione è fortissima, tanto che ci si sente quasi
colpevoli allorché si prende l’aereo in direzione est, invece che ovest. Mentre
il nostro europeismo si basava sulla lotta per la libertà, il nuovo
universalismo ha la sua radice nella lotta contro lo sfruttamento del terzo
mondo. Mentre noi negavamo l’Italia per l’Europa; essi negano i grossi blocchi
di potere insieme, cioè non le divisioni politiche, ma le ideologie post‑romantiche.
Anche da questo punto di vista le strutture universitarie e gli strumenti
d’informazione che gli adulti possono fornire al ragazzi sono ‑ per
usare parole educate ‑ frustranti. Né si tratta di aggiungere materie
quali, ad esempio, corsi sulla Cina contemporanea o sul marxismo cubano o sul
nuovi stati africani, come nelle università statunitensi, dove però il senso
di frustrazione è identico; ma di compiere un amalgama fra il nostro modo
europeo di pensare e quello, che so io, africano ed orientale. Temo che non
siamo più in grado di aiutare i nostri figli in questa direzione. Tutt’al più
potremo pagare loro il biglietto per l’aereo, perché esplorino da soli il mondo.
Ma si può aiutarli a rinnovare le strutture per le prossime generazioni.
Ho
intenzionalmente voluto ampliare, il più possibile, il discorso perché stare a
rimuginare su quali riforme si possano o debbano fare in una facoltà è, di
fronte al problemi reali, un piccolo gioco diplomatico; ed i giovani lo hanno
capito benissimo, anche se non realizzano adeguatamente come i limiti degli
adulti siano non solo la cattiva volontà, ma l’impreparazione. Inoltre, molte
mosse, come l’incontro operai studenti, o le invasioni da parte degli artisti
dei paesi, vanno considerate indicative e preliminari per un lavoro, meno
pittoresco, ma più permanente da compiere; cioè l’integrazione culturale delle
classi, mediante scuole adeguate, non da riformare, ma da inventare allo
stesso modo in cui gli intellettuali dell’ottocento passavano ore ad insegnare
nelle università popolari; e con un uso immediato da richiedere brutalmente occupando
le sedi della radio‑televisione, di un canale esclusivamente dedicato a
scopi culturali (ricordo che i corsi di storia dell’arte, su cui ho delle
statistiche, irradiati a New York, per i lavoratori, fra le 6 e le 7 dei
mattino, hanno un ascolto di decine e decine di migliaia di famiglie). I
giovani stessi non devono essere blanditi, come possibili acquirenti, o
trattati con diplomazia, per opportunità politiche, o psicanalizzati (con il
risultato ‑ è accaduto ‑ di trovare in essi le caratteristiche dei
geni), ma caso mai violentemente contestati, cioè trattati alla pari, aprendo
il dialogo tutte le volte in cui sia possibile ‑ ed il Marcatrè, che è
stata una delle prime riviste a pubblicare resoconti sulle agitazioni
studentesche è ovviamente pronto a farlo ‑, invitati ad assumere posti
di responsabilità il più presto possibile, messi di fronte alle difficoltà
concrete, perché aiutino se stessi e noi a risolverle. I giovani, inoltre,
dovrebbero anche riflettere sul fatto che la trasformazione della società
ch’essi chiedono ‑ benché sia totalmente legittima ‑ richiede una
messa sul tavolo non delle soluzioni, ma dei possibili problemi, ben più larga
che le semplicistiche rivolte contro la scuola, il pacifismo, la contestazione;
il tecnicismo della società moderna si sconfigge solo con un più sottile
tecnicismo. Siamo brutalizzati dalle strutture, sia morali, che fisiche, che
ci circondano perché queste sono estremamente antiquate, stupide, non
funzionanti, paleo-morali. La contestazione deve essere globale nel senso che
deve essere diretta in modo altamente specializzato contro ogni remora, in
qualsiasi linea di scontro. Il lavoro eccellente che i giovani hanno fatto per
la scuola deve essere rifatto, con metodo, diligenza, tecnicismo,
spregiudicatezza, coraggio e violenza per ogni aspetto della vita.
Ciascuno
di noi, che scrive su questa rivista o sulle poche favorevoli alle
trasformazioni e scommette sull’oggi, ha alle spalle alcune vittorie. Ma,
queste vittorie sono state corrose da un terribile senso d’isolamento, dal
senso continuo di far la lotta contro i mulini a vento o contro la fanghiglia,
fino al desiderio di mettersi a tacere. Oggi è accaduto il miracolo di trovarci
a fianco centinaia di amici. Tuttavia, se da parte nostra non fossimo capaci ad
aprire un dialogo, sarebbe come se l’isolamento perdurasse. Una delle
difficoltà è di riuscire a capire cosa interessa ai più giovani di noi, e di
far loro capire quali sono i punti in cui potremmo aiutarli. Le affinità
spirituali non contano se manca una materia su cui fondare un accordo: cioè una
serie di domande a cui far seguire un tentativo di risposta, da una parte e
dall’altra. Sarebbe tragico se i giovani aggressivi, ottimisti, razionali,
positivi che abbiamo sognato abbiamo cercato di allevare e che finalmente
vediamo intorno non ci venissero a parlare.
Vorrei
far seguire qui due schede bibliografiche, su come i giovani sono stati visti
da professori loro amici.
L’Università
del Dissenso, “Nuovo Politecnico “, 22, Einaudi, 1968, è una ottima prova di
come il movimento giovanile possa provocare una poderosa ondata di ritorno. Il tono
delle dichiarazioni è apodittico: gli undici professori americani, alcuni dei
quali, forse per ragioni politiche, in Canada, vogliono anzitutto dimostrare la
loro solidarietà con le richieste dei radicali della Nuova Sinistra: pacifismo,
anticolonialismo, indipendenza universitaria dalle organizzazioni di stato e
dalle grandi imprese industriali, disprezzo per la ricchezza, come mezzo
subdolo di corruzione anche nelle imprese culturali. Inoltre consapevolezza,
altrettanto che nei giovani, della limitata possibilità politica della
protesta degli intellettuali (ma siamo, quando questi scritti vennero stesi,
cioè nel 1966, in una fase anteriore al movimento attorno a MacCarthy).
Il
compito dei professori non dovrebbe però limitarsi a dichiarare che le loro
idee sono uguali a quelle degli studenti; è di aiutare gli studenti e la
società a trovare una soluzione ai comuni problemi. Ed è qui che l’incertezza è
totale.
L’università,
essi si limitano a dire, è arida, è fatta da persone a metà. Bisogna riportare
in primo piano i problemi morali, mentre oggi il risultato della vita
accademica è, secondo Theodore Roszak “una gran quantità di lavoro
specialistico senza senso, di futilità e di pedanterie, alle quali non si
dovrebbe riconoscere nessuna rispettabilità intellettuale”. Altra osservazione
di Louis Kampf, più sottile, è che i singoli studiosi e professori in realtà
appartengono non al college dove insegnano, ma all’astratto corpo
internazionale degli specialisti di questa o quell’altra materia, e si comportano
in funzione di questa posizione di categoria. C’è poi l’impressione che la
validità dell’atto (come il prendere posizione personale in una
manifestazione di disobbedienza civile) possa essere superiore a quella della
pubblicazione. Inoltre, più che l’educazione tecnica degli studenti, si chiede
la loro educazione morale. Con ciò è implicita la condanna a gran parte
dell’attrezzatura elettronica, messa in opera, quasi ovunque, per l’apprendimento,
puramente meccanico, di lingue, nozioni, e per la memorizzazione di
informazioni anche storiche e politiche.
Restiamo
fino a questo punto sul piano delle istanze, per cosi dire umanitarie. Ma le
proposte costruttive sono poche. La più interessante è fatta da Robert Engler,
secondo cui sarebbe indispensabile arricchire il vocabolario ‑ e cioè il
mondo concettuale e ideologico ‑ estremamente povero degli studenti dei
primi corsi di college (che possederebbero circa 800 parole “attive”, 500
“passive”, 1500 “incerte”), conseguenza d’un tremendo isolamento. “Scopersi,
scrive in proposito John Wilkinson, che una forte percentuale di questi
studenti si era creata una vita a sé, limitata a interessi circoscritti,
presumibilmente per evitare di trovarsi estraniati da qualsiasi forma di
comunità umana”. Bisognerebbe dunque trasferire il sistema d’insegnamento
dall’apprendimento passivo di nozioni al dialogo aperto su problemi generali.
Ma quali di questi possono però venire trattati in sede di lezione ex cathedra,
giacché, per mia esperienza, posso dire che il seminario nelle università
americane può solo venire dopo la lezione; non prima? Per la storia, Staughton
Lynd propone di sottolineare l’aspetto dinamico della società, e di appuntare
l’indagine su quel mistero che è il ruolo dell’uomo comune. Tuttavia egli
conclude che la storia non è utile socialmente, se non come previsione (non ben
precisata), di possibili sviluppi, o fabbrica di utopie, per il futuro. Quindi
egli fa voto per una specie di elaborata fantapolitica. In sede letteraria,
Louis Kampf è più ottimista: “la storia, egli dice, è piena di meravigliose
possibilità di sovvertimento. Per sfruttare queste possibilità occorre audacia,
rigore intellettuale e, infine, un impegno di libertà”. Egli ancora aggiunge,
anticipando una esigenza che oggi sta largamente affiorando, dalla base: “Non
riesco a vedere un modo migliore di esplorare il concetto di libertà, che
contemplare il destino di un’opera letteraria. Non esistono due persone o due
epoche che abbiano fatto un uso identico dello stesso poema, e tuttavia i suoi
significati, le sue qualità sensoriali e intellettuali sono permanenti”...
“Modellandone il significato secondo i nostri desideri particolari noi
contribuiamo a determinare il destino; e così facendo, non soltanto esploriamo
i limiti dei libero pensiero, ma impariamo anche a fare un uso consapevole del
passato”. “La nostra stessa devozione
alla critica esige in noi una volontà di distruggere i dogmi ricevuti e di
liberarci dal peso mortale della storia”. Per altre discipline, ciò che è chiesto
con chiarezza è il capovolgimento d’orientamento, specialmente in sociologia,
verso i livelli economicamente inferiori della società.
Il
panorama, così riassunto, appare alquanto squallido. Mancano infatti due discipline,
la filosofia, intesa come metafisica, morale, ecc., cioè di forte impegno
teorico; e la storia politico‑sociale come strumento rivoluzionario.
Queste d’altronde sono anche le maggiori mancanze nel quadro d’insieme
dell’altrimenti splendido panorama “accademico” americano. E’ curioso, inoltre,
come la tecnologia filologica che è l’arma più valida per trasferirci dai
luoghi comuni del presente al centro dei problemi autentici, e per riscoprire
le radici a cui dobbiamo riattaccarci per crescere, sia vista solo in modo
meccanico, come erudizione avente fine in se stessa, “empirismo impazzito”.
Sbaglierò, ma è solo attraverso l’uso di questo empirismo che le università
degli Stati Uniti, superata la fase attuale in cui cercano di allinearsi alla rivoluzione
morale e sociale, voluta dai giovani diventeranno il centro permanente di tale
rivoluzione.
Kenneth
Keniston, autore di Young Radicals, Notes
on Committed Youth, Harvest, 1968, dichiara di essersi avvicinato ai
giovani della nuova sinistra dapprima con diffidenza, poi, progressivamente,
con entusiasmo. Non lo muove sostanzialmente, un vero interesse politico ‑
egli critica il loro movimento privo di programmi, benché riconosca che a
questi supplisce una assai evoluta discussione sulle tattiche. L’autore è
professore di Psichiatria alla Yale Medical School, il libro nasce da una serie
d’interviste ed egli tenta di cavar fuori, dai suoi taccuini, un ritratto
collettivo. Questo, diciamo subito, è superficiale, proclive a diventare una
specie di tabella clinica, tuttavia è significativo. Anzitutto, a pag. 22, si
riconosce di “non aver mai incontrato individui così differenti, rispettosi
degli altri, aperti, privi di remore, e così volenterosi di discutere non solo
gli aspetti pubblici della loro vita, ma anche fatti a volte penosamente
privati”. Di fronte al normale autocontrollo (almeno esteriore) degli
anglosassoni, questi ragazzi “hanno frequentemente rievocato le emozioni degli
avvenimenti narrati all’intervistatore; gioia, dolore, ansietà, paura, amore,
odio”. Altre qualità, sono l’insolita coerenza intellettuale, un alto grado di
organizzazione delle proprie conoscenze, e la capacità di differenziare aspetti
distinti della vita, accompagnati da un’alta intelligenza e un’insolita
capacità di esprimersi (pag. 23). Inoltre, durante le interviste, i giovani si
sono dimostrati immediatamente capaci di passare dal rapporto discorsivo
personale, all’impegno organizzativo del lavoro d’ufficio.
Ritorneremo, successivamente, a queste
caratterizzazioni psicologiche, che mi paiono validissime anche per i giovani
europei. Vorrei ora raccogliere i commenti espressi contro la società. La
politica dovrebbe venire dopo i rapporti personali e privati, e non prima. E’
rifiutata una rigida ideologia, in nome della massima flessibilità. Qualità
morali severamente pretese sono la giustizia, il comportamento onesto,
l’eguaglianza sociale, la non-violenza, il senso di responsabilità,
l’imparzialità. C’è inoltre coscienza che queste virtù private abbiano una
validità, anzi siano un’urgenza necessaria per l’intera collettività nazionale
ed umana. Tuttavia non c’è affatto disprezzo per un occasionale comportamento
di carattere neo‑esistenzialista o anarchico. Questi giovani sono
infatti pieni di ansie e di dubbi, ed hanno il terrore di dover essere in
qualche modo coinvolti con la vita della middle class e con i
suoi ideali.
In appendice al libro c’è il resoconto di una
ricerca sui giovani alienati, ad Harvard, ed un confronto. La differenza fra
alienati e impegnati, è enorme; si passa a volte da estremo ad estremo dalla
diffidenza più assoluta all’entusiasmo; dall’interesse prevalentemente
artistico alla parziale indifferenza estetica; dal vivere alla giornata alla
pianificazione razionale della propria carriera umana; dall’isolamento al
lavoro in gruppo.
I “radicali” sono antiautoritari, vogliono
l’eguaglianza, sono idealisti in quanto credono a dei valori, rifiutano di
riconoscere a priori le differenze sociali o psicologiche, amano porsi al servizio
della collettività.
Difficile, è la mia
conclusione, trovare una generazione migliore.
Marcatrè, Lerici Editore, 43-45, luglio-settembre 1968.
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update: 30-12-1999
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