GdeA
IL COLLE DI VALTEDA
I.
Col sorriso di amor l'alba sorgea
Sul cocchio azzurro il dì riconducendo,
Cui natura desiar tutta parea.
Di vivaci colori iva pingendo,
La giovinetta Diva e terra e Cielo,
Le porte ovunque all'aurea luce aprendo.
Cadeva intanto della notte il velo,
E impallidian dell'etra le fiammelle,
Come a sera le viole in sullo stelo.
Immoto a cose sì sublimi e belle
Mi fissava, all'immagin che nocchiero
Mira la guida delle fide stelle.
E a quel trionfo di natura vero,
Che suscitava ed animali e piante,
Un dolce moto urtava il mio pensiero:
Ed esclamai di gioja palpitante:
Deh rapir di cotanta alta armonia
Potessi un raggio, e averne il cor fiammante!
Sì vivo inno di laudi scioglieria
Il labbro alla maestra eterna mano,
Che l'ira ai venti insin mite faria;
E suonerebbe ovunque: o sopraumano
Gran portento di gloria, onde di Dio
Parlano e Cieli, e mari, e il monte, e il piano!
Così dicendo al colle mi moss'io
Di mia Valteda sempre-verde onore,
A cui folgor giammai il fianco aprio:
Fra i mirti e il timo, ond'almo escia un'odore,
Per roridi sentieri io giunsi in vetta,
Al mattutino sospirar dell'ore.
E di fronte all'aprica collinetta
Ecco il Sole mostrarsi in oriente,
Che col raggio primier dolce saetta:
Ma vibrò ovunque poi l'onnipossente
Fiammeggiar della luce genitrice,
Che tutte cose riscaldò repente:
E la Essenza superna creatrice
Colle folgori e i lampi in centro fosse
Parea del luminoso astro felice.
Nè respir, nè parola in me si mosse,
E stetti a contemplar l'alto argomento
Con le pupille affaticate e rosse.
L'ombra a cercar mi diedi lento lento
D'ospite pianta - Ed oh quanto desiai
Te, dolce Ive, al mio fianco in quel momento!
Con dottrina gentile tu, che lo sai,
Detta la immensa di quel Corpo avresti
Mole, e la legge dei perenni rai;
Come signor de' gran spazi celesti
Cocenti ardori all'Arabo dispensa,
E al freddo Boreal ricusa questi;
Come la notte, e il dì quivi compensa,
E dà la luce lungamente altrove,
Lasciando altre regioni in ombra densa.
Da tue parole assai prudenti e nuove
Appresa avrei di attrazion la forza,
Onde lotta con gli astri, e tutto muove.
Già udirti mi parea: scalda e rinforza
Natura sì, di brine pregna e d'acque,
Che feconda ogni germe entro sua scorza:
Esser ciò buono al gran Fattore piacque;
Che quindi agli animali, e all'uom quà giuso
E in Campo e in selva l'alimento nacque -
Ma frenai in petto il desir mio deluso;
Che al bel Parenzo allor tu in riva assiso
Stavi, ai sospiri il dolce impeto schiuso,
Tutto rivolto del tuo Bene al viso.
II.
Stetti, com'uom per meraviglia muto,
A contemplar quel bello di natura,
Posando all'ombra dell'arbor fronzuto.
E scorgea poscia dall'aperta altura
Di vele un incessante ire e redire
Per la vicina liquida pianura;
E sulle antenne altissime salire
Il marinar, gambe stringendo e braccia,
Rapidamente in men che il posso dire.
Il silenzio dell'aure e la bonaccia
Mi parve disdegnar ampio naviglio,
Che, aperti i lini, in mar la prora caccia,
Ed invocare per lo Ciel vermiglio
Il soffiar dei venti, e gonfie l'onde,
Quasi sfidando il turbine e il periglio.
Grave col sen premea l'acque profonde,
Ed oltre l'Equatore ad arduo corso
Desio il guidava di remote sponde.
Ver esso al labbro questo dir mi è corso:
O gente prode sì, ma non beata,
Cui d'oro cupidigia ha il core morso!
Sul lido e madre, e sposa abbandonata
Hai tu col bacio, ultimo forse amore,
E figli, e patria non mai molto amata.
Le vele or ti empie di destin favore,
E scherzan l'aure della nave intorno,
E il timon regge di speranza ardore;
Ma chi sa mai, se scritto il tuo ritorno
Nel libro adamantino è della sorte,
Se patria, e figli rivedrai tu un giorno:
Nei vortici del mar non pianta morte
Forse ti aspetta, e più ti fia gran pena
L'oro, se a te il destin chiude le porte.
Ben doppio bronzo, e infaticabil lena
Il petto armava a chi l'Oceano ondoso
Primo tentò lungi alla patria arena.
In pria l'Eroe nemico al vil riposo
Di gloria amor, desìo d'inclite gesta
Nel pelago traeva periglioso:
E la procella ad evitar funesta
Clemente ei supplicava un qualcheduno
Nume, e sul lito orò la sposa mesta:
Inghirlandato toro al gran Nettuno
Cadea nel sangue, e si versava ai flutti
Dai calici votivi il liquir bruno.
Quindi Giasone, e que' possenti tutti
Col sacro di Dodona vocal legno
Furo i gran casi a ricercar indutti.
E sciolse Grecia per l'ondoso regno,
Pria data ai Numi l'Ecatombe, il viaggio
Chiaro ver Ilio, a eterne prove segno.
Ma a poco a poco tramontò quel raggio
Di gloria, e cessò il voto, e tempo venne
Che spinse al mar ben altro amor men saggio.
Sola avarizia drizzò poi le antenne,
E sol fù Nume il forestiero argento,
Nè prece mai spiegò ver Dio le penne.
Quindi mano immortale all'elemento
Dà l'ire e lo scompiglio, e merci e sarte
Sperde dal Cielo suscitato il vento.
E spesso a te lo spirto e la onest'arte
D'altrui la colpa, o buon Commercio, ha morta;
E allor d'Istro l'Augel move ad aitarte.
Felice chi l'incarco rio non porta
Di angoscie, di avarizia, e di perigli,
Nè il stringe di passion vili ritorta,
E che fuggito dai mondani artigli,
Il non fedele pelago lasciato,
Pace ricerca fra l'erbette e i gigli!
Si pasce ivi di ben non simulato,
Ed i paterni campi, risonanti
Del muggito de' bovi, il fan beato;
E gli sorge d'intorno i verdeggianti
Piani di viti e olivi ampia ricchezza,
E il tributo di messi ondeggianti.
Secreta io mi sentiva una dolcezza,
Che mi mandò sugli occhi umida stilla,
In pura gioja a comparir avvezza.
Volsi ai campi soggetti la pupilla
Dicendo: o dal Ciel dati ozi, salvete,
E vi lusinghi ognor l'aura tranquilla,
E delle piante a raddolcir la sete
Il favor delle nubi unqua non manchi,
E la rugiada delle notti chete.
In questa calma, allor che molti e stanchi
Saran miei dì, verrò a trovarmi porto
Dall'onde vinte, e poserò quì i fianchi.
Null'aspra cura, e di fortuna torto
Avrò, o rimorso che mi roda il petto,
In la campestre alma delizia assorto.
Coi gentili atti ed il sorriso schietto
Deh! meco allor fosse Ive, il fermo Amico,
Più dolce a farmi quel soggiorno eletto.
Me appien felice! - che da braccio amico
Felicità vera si dona; ed ei
Have di cortesia costume antico.
E quando, come foglia, i giorni miei
Cadranno, e sfuggirammi il dì sereno,
Da lui conforto di pietate avrei;
Ed è il morir dolce all'Amico in seno.
III.
Nel caro immaginare sì m'era perso,
Che a nullo obbietto io rivolgeva il viso;
Siccome chi in profondo sonno è immerso.
Ma fulgida a destarmi d'improvviso
Luce brillò sulla collina in vetta
Che venìa dal sentier del Paradiso;
E fra la luce un'ombra benedetta
Candida apparve, tutta amore i rai,
E con la chioma in amaranti stretta.
Rapidamente in piè scosso balza;
Tema, gioja, stupor m'invase l'alma,
E palpitando all'Angel mi fissai.
Tosto il conobbi alla virginea palma,
Al tenero sorriso, all'auree chiome,
E al roseo volto da la bella calma.
(*) Anteo, sclamai ver esso, Anteo - ma come
Pronunziato ebbi, del piacer la pena
Dir non permise più che il caro nome.
Di mille affetti avea l'anima piena,
E mi prostrai per venerarlo umile;
Che l'amistà non era allor terrena.
Ma con l'alma lo Spirito gentile
Molto benigno che mi alzassi femmi,
E sì mi disse con suo antico stile:
Sorgi, mio caro; e poichè il Cielo diemmi
A te venir, mira l'alta letizia,
Che lassù data invariabil emmi:
Te pure alla immortal bella dovizia
Di beni e di diletti aspetto e bramo,
Ove eterna sarà nostr'amicizia.
Di questo mondo, ond'io fui tristo e gramo,
Con forte alma sopporta i guai frattanto;
Qual contro i venti in selva annosa ramo.
Tutto disioso lo interruppi: o santo
Amico, ah! fia che nel bel regno io presto
Da questa van mi alzi a sederti a canto;
Che durevol conforto unqua si è desto
In me d'allor che il tumulo ti accolse,
Te nascondendo al sospirar mio mesto -
Ben di lassù il duol vidi, in che si volse,
Rispose, il tuo gioir, pietoso Amico,
E il pianto che da te l'urna raccolse;
Ma pace al caro affanno; e in questo aprico,
Che amaro i padri tuoi, suolo fecondo
Posa pur lieto; e mai serpe nemico
Fra l'erbe occulto con veneno immondo
Ti morderà; che pio a questa terra
Sì giusta è il Cielo, ed il destin secondo.
Lontana quì dall'incessabil guerra
De' torbidi negozi cittadini
A vera gioja l'alma si disserra.
All'isola immortale de' Cherubini,
E al suo Signor scala quì far ti puoi,
Contemplando i prodigi alti e divini.
Fra queste piante degli amici tuoi,
E di tua Sposa, e de' rosati figli
Più l'amor ti fia caro, e i vezzi suoi:
E se la lira affettuosa pigli
Fra lor più ne trarrai tenero il suono
In mezzo assiso al biancheggiar dei gigli.
Ed or che al suo fedele il vergin dono
Fè della destra, e dell'intatto core
Rosa all'altar, tu al santo nodo, e al buono
Amico più vivace inno di amore
Sciorrai; che l'estro il puro aere ravviva;
Siccome desta nel giardino il fiore -
Quì abbracciarlo desia, ma non ardiva,
Che riverenza mi tenea; talmente
Una luce che da lui viva partiva.
A pregarlo mi feci impaziente:
O benedetto Spirito, che siedi
D'innanzi il centro della eterna Mente,
Deh tu, che in esso tutte cose vedi,
Dimmi (se l'avvenir saper mi lece)
La sorte ch'ai due fidi alto prevedi.
Cortesemente soddisfò mia prece:
Di ogni vera letizia a me pur cale
Dei due che un'alma il giuramente fece:
L'immacolato amor non sarà frale
De' nostri amici, nè a lor fia che mai
Volti felicità pentite l'ale:
Giusto a' bei premi è il Cielo; e tu ben sai
Qual si fè dote ai di saper sul Brenta,
Ed ella quanti ha di virtute rai.
Della prole la gloria unqua fia spenta;
(**) E ai chiari Avi all'alloro dei nipoti
Fisseran paghi la pupilla lenta.
Tenea allo Spirto rilucenti immoti
Gli occhi, e m'infuse quel parlar celeste
Una dolcezza di amorosi voti -
Ma, addio, mi disse - ed ahi! che troppo preste
L'ali spiegò, lasciando me sul colle,
Qual chi da vision cara si deste,
E sol si trovi sulla piuma molle.
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