LA NEW ECONOMY


Fra nuove illusioni e vecchie realtà

Il capitalismo moderno ha trovato la parola magica per risolvere le proprie intrinseche contraddizioni: la new economy. A sentire i corifei della borghesia grazie alla globalizzazione, alla finanza, alle biotecnologie e ad Internet l'economia mondiale è entrata in una nuova fase nella quale le crisi economiche sono solo un vecchio ricordo del passato. Come per incanto tutto ciò che è legato al mondo della rete telematica e delle nuove tecnologie è diventato la panacea dei mali della società. Il nuovo pensiero economico, sviluppatosi negli Stati Uniti, ha trovato moltissimi sostenitori anche nel vecchio continente, tanto da affascinare molti esponenti del neo riformismo italiano. Infatti, sostenitori della nuova economia e neo riformisti sono legati dalla comune considerazione che, nella fase attuale, il capitalismo stia subendo delle profonde trasformazioni che lo rendono completamente diverso rispetto al passato; nella new economy addirittura non sarebbe più possibile parlare di processo d'accumulazione di denaro e merci, ma l'intero meccanismo capitalistico si baserebbe sulla sola mercificazione dell'informazione[i]. Nella nuova economia una persona o un'impresa è tanto più ricca quanto maggiore è la sua capacità di acquisire informazione e informarsi significa in sostanza arricchirsi. Ora l'informazione è diventata la merce per eccellenza, quella che permetterebbe al sistema di sostenere i processi d'accumulazione e visto che le nuove tecnologie hanno aumentato enormemente la capacità di creare informazione, il capitalismo ha tutte le potenzialità per superare le proprie contraddizioni.
La crescita abnorme dei corsi azionari delle imprese legate ad Internet ed alle biotecnologie, ha alimentato il pensiero in base al quale il capitalismo è veramente entrato in una nuova era. Il capitalismo industriale, quello legato al mondo della fabbrica e alle politiche fordiste e che nella terminologia moderna rappresenta l'old economy, è ampiamente superato dalla nuova economia, quella legata ai mercati finanziari e ad Internet. Siamo finalmente entrati nella fase della prosperità continua, in cui la disoccupazione, l'inflazione e le crisi economiche rappresentano fenomeni che la società dell'informazione ha superato.
Secondo il nuovo pensiero economico, le autostrade informatiche offrono al capitalismo la possibilità di svilupparsi ininterrottamente e senza intoppi, eliminando di fatto i cicli economici che da sempre hanno caratterizzato ed afflitto la storia del capitalismo. Grazie alla crescita della produttività, dovuta all’introduzione dei computer nei processi produttivi, non è più il caso di parlare di cicli economici, in quanto il capitalismo è in grado di sostenere una crescita continua e a ritmi sostenuti. Anche se dovessero verificarsi delle flessioni nella crescita economica queste dovranno essere imputate esclusivamente a cause contingenti e non a contraddizioni strutturali del capitalismo. Secondo il pensiero dominante, le nuove tecnologie e la relativa informatizzazione della società hanno capovolto il rapporto tra la produzione e il consumo delle merci; nella nuova economia è il consumatore a determinare la produzione e si ha finalmente il dominio del consumo sulla produzione. In questa inversione dei rapporti tra produzione e consumo, si è determinato anche un cambiamento nei processi economici e nello scopo dell'imprenditore. Infatti, secondo i sostenitori della new economy, l'imprenditore attiva il processo produttivo non tanto per realizzare un profitto immediato, ma per alimentare lo sviluppo economico che serve per soddisfare le esigenze del consumatore. Il motore di questa rivoluzione sarebbe da ricercare nello sviluppo dell'e-commerce, il cosiddetto commercio elettronico. Grazie alla telematica nei prossimi anni dovremmo assistere ad un vero e proprio boom delle vendite dei prodotti per via telematica, ed è per questo motivo che le imprese legate in qualche modo ad Internet hanno visto le loro quotazioni azionarie crescere in termini esponenziali. Imprese di piccole dimensioni e che finora non hanno realizzato un soldo di profitto, come Tiscali, ad un certo momento si sono trovate ad avere una capitalizzazione in borsa maggiore della stessa Fiat. Un'impresa con 200 dipendenti che vale più della più grande impresa italiana, che da sola rappresenta quasi il 5% del Pil italiano. Questo è uno dei miracoli della nuova economia, creare dal nulla imprese di piccole dimensioni capaci di competere con le grandi multinazionali. Da un lato si esalta la capacità imprenditoriale di inserirsi nei mercati con limitate risorse finanziarie, bastando la semplice capacità dell'imprenditore di saper cogliere le nuove opportunità offerte dalla rete telematica, dall'altro lato però si esaltano i risultati borsistici delle azioni e quindi la capacità di raccogliere ingenti capitali per finanziarie i processi produttivi.
Per il nuovo pensiero il moderno capitalismo è il prodotto della sinergia tra le potenzialità offerte da Internet e della finanziarizzazione dell'economia. Grazie a questi due fattori l'economia è destinata a vivere una nuova e lunghissima stagione di sviluppo. L'idea che ci propina la classe dominante è quella che bastano pochi milioni da investire in azioni e un computer con il quale collegarsi ad Internet per arricchirsi. Ma questa illusione sta sciogliendosi come neve al sole; infatti, dopo le crescite degli indici azionari di tutte le borse mondiali dallo scorso mese di aprile i valori delle azioni delle imprese "tecnologiche" hanno subito un drastico calo, trasformando in incubi i sogni d'arricchimento di milioni di piccoli risparmiatori. Nonostante il brusco risveglio la propaganda borghese continua martellante e l'invito fatto ai cittadini è quello di avere una cieca fiducia nelle virtù della new economy. Tanto, prima o poi, il mercato tornerà a tirare.
Nel contesto internazionale il paese che meglio e più degli altri incarna il modello della nuova economia sono gli Stati Uniti; questi rappresentano l'area che prima e meglio degli altri hanno intrapreso il cammino verso la frontiera della new economy. Per i sostenitori della nuova economia, gli Stati Uniti grazie alle nuove tecnologie, ad Internet ed alla finanza hanno creato negli ultimi dieci anni milioni di posti di lavoro. Il fenomeno statunitense rappresenta quindi il modello di riferimento dei fautori della nuova economia ed è indicato come la più genuina dimostrazione che ci troviamo di fronte ad un capitalismo completamente rivoluzionario rispetto al passato. Creazione di milioni di nuovi posti di lavoro, quasi dieci anni di crescita economica ininterrotta, aumento della produttività, inflazione contenuta, dollaro alle stelle e boom degli indici azionari sono gli elementi che fanno gridare al miracolo i corifei della nuova economia. Ma dietro la propaganda borghese si nasconde una realtà completamente diversa, nella quale gli Stati Uniti stanno vivendo una fase di violente contraddizioni economiche, che allo stato attuale sono attenuate solo ed esclusivamente grazie al loro dominio imperialistico.
Occupazione e salari

Il più importante argomento a sostegno del modello americano e della necessità quindi di imitarlo è quello relativo ai dati sull’occupazione. Si evidenzia come negli Stati Uniti negli ultimi 10 anni siano stati creati oltre 20 milioni di nuovi posti di lavoro, mentre nello stesso periodo nell’Europa dell'euro i posti di lavoro creati sono stati nettamente di meno. Nello stesso periodo anche i livelli di disoccupazione hanno visto l’allargamento della forbice tra le due aree considerate; infatti, mentre negli Stati Uniti il tasso di disoccupazione è sceso sotto il 5%, in Europa la percentuale dei disoccupati non è mai scesa sotto il 10%, con punte del 20% in Spagna e nel mezzogiorno italiano. La spiegazione fornita dalla classe dominante è che il mercato del lavoro statunitense presenta una maggiore flessibilità, sia nella fase d'entrata che in quella d'uscita dai processi lavorativi; l'invito rivolto ai governi europei è quello di imitare la borghesia statunitense, eliminare tutta una serie di vincoli burocratici che rendono rigido il mercato del lavoro del vecchio continente. Il miracolo statunitense sarebbe inoltre da ricercare in primo luogo in una maggiore produttività del sistema economico americano, dovuta alla presenza generalizzata dei computer nei vari settori produttivi.
Una lettura superficiale dei dati sembra dare ragione ai sostenitori della nuova economia, ma se andiamo ad analizzare nei dettagli i dati sulla composizione degli occupati statunitensi comprendiamo meglio cosa si nasconde dietro il tanto osannato miracolo americano. Nel decennio 1989-1999 negli Stati Uniti il numero degli occupati è aumentato con ritmi completamenti diversi a secondo del settore considerato; mentre nel settore della produzione dei beni il numero degli occupati è cresciuto di soli 313 mila unità, nel settore dei servizi i nuovi occupati sono stati 20,5 milioni[ii]. In quest’ultimo aggregato le componenti più importanti sono costituite dagli occupati nel commercio al dettaglio, nei servizi sociali, che comprende anche la sanità, nel pubblico impiego e soprattutto nel magmatico settore dei servizi alle imprese. L’espansione di oltre 10 milioni di nuovi posti di lavoro è avvenuta in quei settori che presentano una bassissima produttività e un livello salariale abbondantemente sotto la media nazionale. La crescita degli occupati non è quindi il prodotto delle nuove tecnologie, ma sono stati i settori a più bassa produttività ad assorbire manodopera. Il settore dell’alta tecnologia, quello che gravita intorno ai computer, compreso quello dei servizi alle imprese, ha creato quasi un milione di nuovi posti di lavoro, cifra notevole ma insufficiente per sostenere che il fenomeno è figlio dell’incremento della produttività.
La creazione dei nuovi posti di lavoro è dovuta quindi a quelle forme flessibili dell'uso della forza lavoro, come il part-time, alla precarizzazione del lavoro ad un abbassamento dei livelli salariali. La precarizzazione del lavoro ha imposto a milioni i lavoratori di spostarsi da uno Stato all'altro in funzione dell'offerta di lavoro. Per fare un esempio: negli Stati Uniti è considerato normale che un lavoratore della città di Boston vada a lavorare per un periodo imprecisato in California. Questa mobilità esasperata dei lavoratori è possibile, non solo per la passività del proletariato statunitense, ma soprattutto per il fatto che negli Stati Uniti arrivano ogni anno 1,5 milioni di immigrati che si spostano da un capo all'altro del paese per lavorare. Sono infatti gli immigrati a rappresentare per la quasi totalità i 20 milioni di nuovi occupati degli ultimi anni.
Le modificazioni intervenute nella composizione dell’occupazione hanno inciso in misura rilevante nei livelli salariali del proletariato statunitense. I salari americani hanno segnato a lungo una stagnazione che per l’effetto dell’inflazione si è tradotto in una diminuzione dei salari reali. A partire dai primi anni settanta il potere d’acquisto dei salari del proletariato statunitense è in continua discesa; se nel 1973 il salario medio reale per ora lavorata era di 11,5 dollari, nel 1999 è stato di poco superiore ai 10 dollari. Il fenomeno d’impoverimento ha interessato la quasi totalità dei lavoratori statunitensi, ben 91 milioni, mentre soltanto 19 milioni di lavoratori hanno visto il proprio salario reale crescere nel periodo 1998-1999; infatti, considerato 1 l’indice del salario reale nel 1988, per 91 milioni di proletari statunitensi tale indice si è abbassato a 0,995, mentre per 19 milioni di lavoratori l’indice è stato di 1,12. Tutto ciò si è tradotto in una polarizzazione della società, con un impoverimento della parte più povera ed un ulteriore arricchimento di quella più abbiente. A partire dagli anni novanta, il momento considerato da tutti come l’inizio della new economy, la società americana ha accentuato quei fenomeni di concentrazione della ricchezza e quelli di impoverimento di larghi strati della società. Nel 1992 l’1% delle famiglie possedeva il 30,2% della ricchezza totale, mentre il 90% delle famiglie possedeva il 32,9%. Dopo solo tre anni la quota di ricchezza dell’1% delle famiglie è salita al 35,1% e quella del 90% delle famiglie si è abbassato al 31,5%.
Per comprendere a pieno le dinamiche sociali di questi ultimi anni è interessante considerare l'indice della povertà umana (Ipu) nei paesi a capitalismo avanzato. L'Ipu è un indice particolarmente complesso che tiene conto di tutta una serie di fattori, quali il reddito pro capite, il tasso di disoccupazione di lunga durata, la speranza di vita inferiore ai sessanta anni, il tasso d'analfabetismo e la percentuale di individui che vivono sotto la soglia di povertà. I risultati che emergono dalle ricerche smentiscono nella maniera più netta quelle teorie che sostengono le virtù della new economy statunitense; infatti, i valori dell'Ipu, espressi in percentuale della popolazione, sono per gli Stati Uniti 16,5, per il Regno Unito 15,1, per la Francia 11,9, per la Germania 10,4 mentre per l'Italia, pur avendo il tasso di disoccupazione di lungo periodo più alto, l'indice è di 11,6.
New economy sviluppo e produttività

I dati sull'occupazione hanno un indubbio riflesso sia sulla crescita economica sia sull'aumento di produttività del capitalismo americano. Per i fautori della nuova economia la capacità degli Usa di creare milioni di nuovi posti di lavoro si è tradotta nel più lungo periodo di espansione economica e in una crescita senza precedenti della produttività del lavoro, che pone gli Stati Uniti in una posizione dominante rispetto alla concorrenza europea e giapponese.
Se è vero che negli anni novanta l'economia statunitense è cresciuta ad un ritmo superiore all'Europa ed al Giappone, un'analisi di lungo periodo dimostra come gli Usa non stiano vivendo quel miracolo economico tanto osannato dalla borghesia internazionale. Un'analisi dettagliata dell'andamento del Pil negli Stati Uniti smonta il mito del miracolo della new economy; infatti, se nel periodo post bellico (1950-1964) la crescita del prodotto interno lordo americano è stata mediamente del 3,68%, nel decennio 1964-1972 il tasso di sviluppo è stato addirittura superiore facendo registrare il Pil una crescita media del 4,23%, negli anni settanta ed ottanta la crescita economica è stata del 3,4%, nel periodo considerato da tutti come quello della nuova economia il tasso di crescita è stato invece solo del 1,98%. Confrontando i dati statunitensi con quelli del resto del mondo possiamo osservare come, negli ultimi tre anni, il differenziale di crescita economica sia stato negativo per gli Stati Uniti. Infatti, dal 1996 al 1999 gli Usa hanno visto il proprio Pil crescere ad un ritmo inferiore rispetto alla media mondiale; se consideriamo inoltre che in questi tre anni le economie asiatica e latino- americana sono state colpite da una violenta crisi economica, i dati sull’andamento dell’economia americana assumono un aspetto ancor più negativo.
Questi dati smentiscono che gli Stati Uniti stiano vivendo una fase di boom economico. L’andamento dell’economia e le profonde modificazioni intervenute nella composizione degli occupati statunitensi (crescita del numero dei lavoratori nel settore dei servizi a bassa produttività) hanno ulteriormente abbassato il divario tra il reddito pro capite negli Usa e nei paesi europei. Se nel 1989 il reddito pro capite negli Stati Uniti era 100, in Germania ed in Francia era rispettivamente di 78,3 e di 73,6; a distanza di otto anni fermo restando cento il reddito pro capite negli Usa, nei due paesi europei il reddito pro capite è stato per la Germania di 86,8 e per la Francia di 81,1.
Uno dei cavalli di battaglia della nuova economia è quello relativo alla crescita della produttività del sistema produttivo statunitense. Grazie all’introduzione dell’informatica nei processi produttivi e ad un più ampio utilizzo della telematica nella commercializzazione dei prodotti, l’economia americana ha visto crescere a dismisura la produttività del lavoro. Proprio la crescita di questa produttività sarebbe all’origine dei boom di borsa, della rivalutazione del dollaro rispetto alla nuova moneta europea e alla quasi decennale crescita economica. Anche in questo caso bisogna sgomberare il campo dalla falsa propaganda borghese. Prima d’iniziare la disamina dei dati occorre chiarire che con il termine produttività del lavoro s’intende il valore aggiunto da ogni singolo addetto. I maggiori incrementi di produttività, come per il Pil, sono stati registrati nel ventennio 1950-70, mentre negli anni successivi l’aumento della produttività è diventato sempre di più decrescente, fino a diventare negativo in alcuni settori. L’aumento di produttività del dopo guerra è da attribuire sostanzialmente all’espansione dell’industria e alle continue economie di scala realizzate in particolare nei settori dell’automobile, del petrolio, della chimica e della siderurgia. L’espansione economica e la crescita della produttività nei settori industriali ha favorito non solo la competitività dell’economia americana, ma ha permesso alla borghesia statunitense di elargire al proletariato qualcosa di più delle solite briciole. Sono stati gli anni in cui le politiche fordiste hanno alimentato il ciclo economico e favorito la nascita di ampi strati di aristocrazia operaia. La crescita economica e della produttività registrate negli anni cinquanta e sessanta hanno avuto delle ricadute positive sull’intera società, in quanto hanno favorito le politiche sociali e la redistribuzione del reddito. Dal 1978 la produttività negli Stati Uniti è sostanzialmente ferma. L’espansione dell’informatica nei settori produttivi non è stata in grado di provocare sulla produttività gli stessi effetti riscontrati nel ventennio 1950-70. Per parafrasare l’economista borghese Solow, vincitore del premio Nobel, “i computer si vedono dappertutto tranne che nelle statistiche economiche”. La scarsa produttività dell’economia americana si spiega molto semplicemente se consideriamo l’incremento degli occupati degli ultimi anni. I milioni di nuovi occupati, come abbiamo visto in precedenza, si sono concentrati nei servizi e nel commercio al dettaglio, che rappresentano i settori a più bassa produttività. I quasi 13 milioni di nuovi occupati del settore dei servizi hanno addirittura diminuito la propria produttività dell’0,61% all’anno tra il 1991 e il 1997. La conseguenza dell’abbassamento della produttività americana è sotto gli occhi di tutti, infatti, il deficit della bilancia commerciale viaggia intorno ai trecento miliardi di dollari all’anno. Se fosse vero ciò che affermano i sostenitori del miracolo della produttività dell’economia statunitense dovremmo trovarci di fronte ad un’invasione dei mercati mondiali da parte delle merci made in Usa, in realtà accade proprio il contrario, sono proprio gli Stati Uniti ad assorbire i surplus commerciali di Giappone ed Europa.
Internet, e-commerce e miracolo economico

Nell’immaginario collettivo la nuova economia s’identifica con il diffondersi di Internet sull’intero pianeta e sulle potenzialità offerte dalla rete telematica nello sviluppo del commercio elettronico. La vera rivoluzione consiste nel fatto che Internet, per la prima volta nella storia, fornisce al capitalismo la possibilità di velocizzare il processo di circolazione delle merci, contribuendo in tal modo ad un abbassamento generalizzato dei prezzi ed a una crescita economica molto sostenuta. Grazie al commercio elettronico il capitalismo, sempre secondo i fautori della new economy, riceverà un forte impulso per il suo sviluppo, con la creazione di milioni di nuovi posti di lavoro ed un sostanziale miglioramento delle condizioni salariali e di lavoro. Nell'immediato futuro trovare un posto di lavoro sarà un gioco da ragazzi, basterà saper usare il computer, avere un minimo di conoscenza del linguaggio informatico e dell’inglese e le aziende faranno a gara per assumerti; questo è quello che quotidianamente ci propina la classe dominante.
Secondo le stime più aggiornate, si valuta che il numero di utenti di Internet, stimato a 142 milioni nel 1998, sia destinato a raggiungere 500 milioni nel 2003. Intorno alla rete si stanno già scontrando le grandi imprese americane, europee e giapponesi per la conquista dei potenziali consumatori. Sviluppatasi negli Stati Uniti per scopi militari, Internet si è trasformata in un potentissimo strumento per incrementare le vendite delle merci. E’ proprio intorno al commercio elettronico che si è scatenata la grande battaglia; grazie alla crescita degli utenti di Internet il commercio elettronico, che nel 1998 era ancora allo stato embrionale con scambi di poco superiori agli otto milioni di dollari e concentrato soprattutto negli Stati Uniti, dovrebbe raggiungere i 40 nel duemila e superare gli ottanta nel corso del 2002[iii].
L’espansione di Internet è stato paragonata dagli economisti borghesi a qualcosa di veramente rivoluzionario assimilabile alla nascita dell’industria automobilistica. Anche Internet, così come l’automobile nel passato, nei prossimi anni sarà in grado di produrre effetti benefici sull’intero sistema capitalistico. Ma la confusione e la mistificazione sono alla base della propaganda borghese. Porre sullo stesso piano la fabbrica delle automobili o di qualsiasi altra merce, con l’espansione del commercio elettronico, significa identificare due sfere completamente diverse del processo d’accumulazione, quella della produzione e della circolazione delle merci. Significa in sostanza identificare la fabbrica che produce automobili, per esempio la Fiat, con gli autosaloni che invece provvedono a commercializzare le auto. Le aspettative di sviluppo dell’economia mondiale sono legate alla diffusione del commercio elettronico e alle sue ricadute sull’intero sistema produttivo. Se consideriamo però che il fenomeno interessa esclusivamente la sfera della circolazione del capitale possiamo capire come la nuova economia si sostanzi in una vera e propria bolla di sapone che serve esclusivamente per attaccare le condizioni di lavoro del proletariato mondiale.
Per riprendere l’esempio della nascita dell’industria automobilistica, questa oltre a favorire la creazione diretta ed indiretta di milioni di posti di lavoro, ha contribuito in maniera determinante alla produzione di plusvalore e quindi ad alimentare il saggio del profitto dell’intero sistema. Il capitalismo è in grado di sostenere il suo processo d'accumulazione soltanto se nella società esiste una classe sociale in grado di produrre plusvalore. Ora, nonostante le promesse di miracoli, anche nell'era della new economy il plusvalore si produce esclusivamente nel mondo della produzione. Malgrado i continui attacchi sferrati dall'ideologia della classe dominante contro la teoria del valore-lavoro di Marx, in base alla quale il valore di una merce si determina solo ed esclusivamente dalla quantità di lavoro socialmente necessario a produrla, questa non è stata finora mai smentita dalla critica borghese ma trova sempre di più delle conferme nella realtà del capitale. Il capitale investito è in grado di auto valorizzarsi soltanto grazie al lavoro del proletariato che non viene retribuito dal capitalista. Il "miracolo" del capitalismo è da ricercare soltanto nella capacità della borghesia di far produrre al proletariato una quantità di nuovo valore superiore alla sua retribuzione. Da un capitale iniziale uguale a D, alla fine del ciclo produttivo il capitalista si ritrova in mano una somma pari a D', che è tanto maggiore rispetto al capitale inizialmente investito quanto più grande è il plusvalore prodotto dal proletariato durante il processo produttivo. Ora, se andiamo ad analizzare l'intero processo di produzione, possiamo osservare come il capitale sia in grado di estorcere plusvalore al proletariato soltanto in un particolare momento del ciclo. Il capitale investito nella produzione può essere diviso in due grandi categorie: una parte del capitale, investita nell'acquisto di strumenti di lavoro e in materie prime, compone il capitale costante, una seconda parte investita nell'acquisto della forza lavoro dell'operaio, rappresenta quello che Marx ha definito capitale variabile. Nella fase della produzione accade che il capitale costante impiegato cede durante il processo produttivo solo ed esclusivamente il proprio valore alla nuova merce che si sta producendo, senza che in questo passaggio si determini alcun aumento di valore (per esempio un capitale costante del valore di dieci se viene tutto consumato in un solo ciclo produttivo attribuisce alla merce che si sta producendo un valore pari a dieci; Marx definisce costante questa quota del capitale complessivo appunto per il fatto che mantiene costante il proprio valore nella fase della produzione), mentre la forza lavoro attribuisce alla nuova merce prodotta una quantità di valore superiore al capitale variabile impiegato per acquistare l'utilizzo della forza lavoro stessa (la parte del capitale complessivo necessaria ad acquistare la forza lavoro del proletariato è definita variabile da Marx in quanto varia il proprio valore nella fase della produzione). La differenza tra il valore della merce prodotta è il totale del capitale impiegato nella produzione della merce rappresenta il plusvalore; questo non è altro che lavoro non retribuito dal capitalista. E' grazie al plusvalore estorto alla classe operaia mondiale che il capitale può remunerarsi nella forma del profitto, dell'interesse e della rendita. Il plusvalore si produce quindi esclusivamente nella sfera della produzione e si sostanzia di lavoro operaio non retribuito, mentre, malgrado le apparenze, nella fase della circolazione il plusvalore già prodotto si realizza attraverso la trasformazione delle merci in denaro. Nella fase di circolazione si ha la trasformazione delle merci, che incorporano già il plusvalore prodotto nella fase della produzione, in denaro; si chiude il ciclo della produzione capitalistica con la trasformazione di M (merce contenente il plusvalore) in D (denaro che rappresenta il capitale inizialmente investito più il plusvalore prodotto nella produzione). Nella sfera della circolazione non si produce un solo atomo di plusvalore, in essa avviene la realizzazione, nella forma di denaro, del plusvalore precedentemente creato nella sfera produzione delle merci. Pensare, come fanno i sostenitori della new economy, che il commercio elettronico possa dare un impulso ai processi d'accumulazione, significa ignorare completamente i reali meccanismi del funzionamento del sistema capitalistico. In altre parole la scienza economica borghese, alla ricerca affannosa di nuovi schemi interpretativi, è costretta a rispolverare le ingiallite pagine degli economisti mercantilisti, i quali nel XVII e XVIII secolo attribuivano al commercio la capacità di creare nuovo valore. In un solo colpo vengono dimenticati i risultati scientifici conseguiti dalla scuola fisiocratica, e soprattutto dall'economia classica di Smith e Ricardo, che correttamente avevano posto l'origine del valore nel lavoro svolto dagli operai nel mondo della produzione.
Conclusioni

Se si riflette su questo aspetto si comprende come la tanto osannata new economy sia un fenomeno destinato a incidere solo negativamente nelle dinamiche dei processi d’accumulazione. Se in passato le fabbriche hanno rappresentato il motore dell’economia capitalistica, contribuendo in maniera determinante nella produzione di plusvalore e nella creazione di milioni di posti di lavoro, il commercio elettronico rappresenta lo strumento che nel prossimo futuro potrà agevolare la fase di circolazione del capitale, ma mai alimentare la produzione di plusvalore, linfa vitale del processo d’accumulazione del capitale. Da un punto di vista generale l'e-commerce ed Internet non solo non potranno far ripartire il sistema capitalistico in quanto i saggi di profitto non saranno alimentati da una sola goccia di nuovo plusvalore, anzi la loro diffusione è destinata a sopprimere milioni di posti di lavoro. Come abbiamo visto in precedenza, negli Stati Uniti la creazione dei nuovi posti di lavoro è avvenuta per la quasi totalità nel settore dei servizi, che presenta una produttività molto più bassa rispetto alla media dell’intero sistema. Se le nuove tecniche telematiche si espanderanno anche nel settore dei servizi è ipotizzabile una vera e proprio falcidia di posti di lavoro. Per fare qualche breve esempio, nel settore bancario, grazie ad Internet è oggi possibile fare tutte le operazioni di Borsa, acquistando o vendendo azioni, richiedere un blocchetto degli assegni o fare un bonifico. Se le dinamiche attuali saranno confermate nell’immediato futuro, e tutto lo lascia presupporre, il settore bancario è destinato a subire una vera e propria emorragia di posti di lavoro. Se in passato tutte queste operazioni richiedevano impiegati altamente specializzati e competenti, già ora è possibile fare quasi tutte le operazioni bancarie semplicemente utilizzando un programma informatico. Ma il settore delle banche non rappresenta che un solo caso; infatti, sono tantissimi i campi in cui Internet è destinata a distruggere posti di lavoro, un caso classico è quello delle agenzie di viaggio e delle librerie. Mentre oggi per acquistare un pacchetto di viaggio o un libro siamo costretti a recarci in agenzia o in libreria, grazie ad Internet sarà possibile (per i libri è già possibile anche in Italia) acquistare i prodotti direttamente dal computer di casa. Tutto ciò offre sicuramente dei vantaggi ai consumatori, in quanto potrà determinare, almeno nel breve periodo, un abbassamento dei prezzi dei servizi offerti, ma sicuramente inciderà negativamente sul piano occupazionale in quanto ci saranno meno impiegati nelle agenzie di viaggi e meno commessi nelle librerie. La prospettiva è quella di assistere alla ristrutturazione del settore dei servizi, che negli ultimi decenni è stato l'unico settore capace di assorbire la manodopera in eccesso espulsa dall'industria. Dopo la ristrutturazione delle fabbriche degli anni settanta, la nuova economia rappresenta la fase della ristrutturazione nei servizi. Tutto questo darà vita ad un processo di proletarizzazione di vaste dimensioni e interesserà soprattutto quella classe media considerata dall'ideologia borghese la vera spina dorsale della società dei servizi.
La new economy a differenza di quanto afferma la classe dominante non è quella rivoluzione che dovrebbe migliorare le condizioni generali dell’umanità; dietro questa nuova formula si nascondono cambiamenti importanti nei processi d’accumulazione che vedono ancora una volta la borghesia internazionale attaccare pesantemente le condizioni di vita del proletariato.
In realtà, lo sviluppo della rete telematica e l’espandersi dell’e-commerce, non producendo una sola goccia di plusvalore, non spostano di una virgola il problema della caduta del saggio medio del profitto, vera causa delle crisi economiche. Anzi proprio la diffusione di Internet e dell’informatica hanno permesso al capitale finanziario di spostarsi con estrema facilità in ogni angolo del pianeta, facilitando il processo di globalizzazione del capitale finanziario[iv] e l’espansione delle attività parassitarie. I recenti balzi delle borse mondiali e le successive cadute sono la più limpida dimostrazione che una massa enorme di capitali è alla ricerca affannosa di plusvalore.
La rivoluzione della new economy consiste in definitiva nel miraggio di potersi arricchire velocemente e senza lavoro, investendo i capitali nelle attività finanziaria senza sporcarsi le mani nella produzione. La crescita delle attività finanziarie sta producendo i propri effetti soprattutto negli Stati Uniti, dove imprese e famiglie negli ultimi anni si sono indebitate fino al collo per investire in borsa. L'indebitamento dell’intera economia statunitense è ormai arrivato ad un livello tale da mettere in pericolo la stabilità dell'intero sistema finanziario mondiale; infatti le imprese e le famiglie americane, visti i relativamente bassi tassi d'interesse, hanno iniziato ad investire in borsa non con i propri risparmi ma con i soldi presi a prestito nella speranza che il trend positivo dei mercati borsistici continuasse all'infinito. Il circolo che si è realizzato è stato quello che milioni di imprese e famiglie ottengono prestiti ad un tasso del cinque o sei percento, nella speranza di vedere i propri investimenti rendere il trenta o quaranta per cento l’anno. La caduta dell'indice Nasdaq, che nel giro di due mesi si è sgonfiato del 40%, ha messo in grosse difficoltà imprese e famiglie americane in quanto trovandosi in mano azioni svalutate, non riescono più a far fronte ai debiti contratti con le banche. Per gli strettissimi legami tra le attività finanziarie e l'economia reale, una caduta degli indici azionari avrebbe una ripercussione immediata sulla domanda globale. Negli Stati Uniti i consumi interni sono stati sostenuti soprattutto con le plusvalenze realizzate in borsa, una caduta degli indici azionari si tramuterebbe in una caduta dei consumi e in un rallentamento dell'intera economia mondiale. La new economy non è quella rivoluzione che ci presenta la classe dominante ma è la conferma che il capitalismo per attenuare la propria crisi non può far altro che esasperare le attività finanziarie e nello stesso tempo attaccare costantemente il proletariato, tagliando pensioni e salari, espellendo milioni di lavoratori dai processi produttivi e quando tutto questo non basta scatenare conflitti in ogni angolo del mondo.

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