Progetti e studi di architettura

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TEMPIO

 

Il Tempio Malatestiano e Leon Battista Alberti

Si può dire che già durante la sua costruzione il Tempio divenne simbolo del Rinascimento e delle sue contraddizioni, e come tale fu subito esaltato e denigrato, attentamente considerato o ostentatamente ignorato. Lo esaltarono gli umanisti della corte riminese, specialmente Basinio in una ventina di versi stupendi a chiusura del suo poema dedicato a Sigismondo (l'Hesperis), e il Valturio nel XII capitolo del suo trattato sull'arte militare; ma contemporaneamente Pio II, che pur ebbe a definirlo "nobile Templum", lo rigettò come esempio di eresia e di paganesimo; ed ebbe largo seguito, dando cosi l'avvio a tutta una letteratura deteriore che non accenna ancora a cessare, e che sottolinea soprattutto le presunte ambiguità del monumento, ignorandone gli autentici significati filosofici e poetici ed esaltandosi in una fantasiosa ricerca di motivi erotici e pagani. Anche sul piano formale il Malatestiano sembra porsi come simbolo delle contraddizioni e delle crisi artistiche del primo Rinascimento, soprattutto per l'evidente incoerenza fra esterno e interno e per l'uso di forme "pagane" estranee alla tradizione cristiana; e anche da questo punto di vista ha suscitato polemiche ed ha trovato denigratori ed esaltatori. L'edificio dunque rispecchia veramente per quanto riguarda la sua vicenda storica e critica, la personalità contraddittoria e la fortuna incerta di Sigismondo, che lo volle e che sembra in esso continuamente rivivere e rispecchiarsi. Poiché il tempio avrebbe dovuto rivelare la potenza della sua casata, lo splendore della sua corte, la ricchezza del suo stato, poiché insomma doveva essere un'opera di prestigio e quindi di rilevanza notevole sul piano politico, Sigismondo cercò artisti importanti e apprezzati nei centri culturali più vivi Roma, Firenze, Ferrara, Venezia - come Leon Battista Alberti e Piero della Francesca e, più tardi, come Filippo Lippi e (probabilmente) Giovanni Bellini. Dal canto suo a Leon Battista Alberti si presentava finalmente l'occasione di realizzare concretamente le sue idee sull'architettura, quelle idee che, già a lungo meditate, stavano negli stessi anni prendendo la forma di un "trattato". Bandita ogni desinenza gotica, si rivolse con piena coscienza all'architettura romana, cercando di riproporne il senso di aulica celebrazione dell'uomo e di esaltazione della sua nobiltà intellettuale. Con gli "antichi" l'Alberti si confronta da pari a pari; li indica come esempio ad un'umanità che vuole rinnovarsi e ritrovare il senso della vita, e quindi della storia, ma nello stesso tempo li critica e li sottopone al vaglio della ragione, per verificarne l'attualità e la validità. Il suo ideale è quello di una bellezza astratta, di un'armonia intellettualistica e in fin dei conti di un equilibrio umano perché cosciente, razionale. Per l'interno dell'edificio l'Alberti poté fissare solo le proporzioni generali ed il ritmo degli spazi laterali in funzione della parte conclusiva; dettare certi principi decorativi; pretendere forse anche un determinato svolgimento iconografico, o almeno contribuire al suo approfondimento, ed un preciso stile per i bassorilievi; ma non poté modificare nella sostanza le forme generali già determinate con la costruzione delle due cappelle di Sigismondo e di Isotta. Per l'esterno dell'edificio però ebbe mano libera, pur dovendo sottostare ad una quantità di limitazioni imposte dalle stesse "cappelle nuove". Adottò dunque materiali e forme classiche nei fianchi e nella facciata, pensati come elementi unitari e in coerenza con la parte interna conclusiva dell'edificio; materiali e forme classiche solenni per riguardo alla divinità, celebrative nei confronti del mecenate, nobili per quanto riguarda le memorie che accoglie e la città in cui sorge. Le memorie: la prima intenzione di Sigismondo, quando aveva iniziato a costruire la sua grande cappella sepolcrale, era stata quella di creare un luogo che accogliesse e conservasse la "memoria" di sé; quando decise il rifacimento totale dell'edificio non mutò quell'intenzione, ma l'ampliò. La chiesa doveva accogliere e conservare la memoria di tutti i Malatesti, quindi anche dei suoi avi e dei suoi discendenti, e inoltre degli uomini che avevano dato e avrebbero dato lustro alla corte malatestiana. In questo senso la chiesa francescana diveniva per eccellenza la chiesa malatestiana, anzi "il Tempio Malatestiano". Per quanto riguarda il rapporto con la città, le epigrafi greche sono esplicite; il tempio era dedicato a Dio e alla città. E può essere interessante notare che Leon Battista Alberti aveva scritto nel suo trattato sull'architettura: "Un tempio ben curato e ornato rappresenta il vanto maggiore e più nobile che possa avere una città". Ma il rapporto dell'edificio con la città è ambiguo. Già la sua ubicazione era eccentrica; e poi sorgeva per un gesto d'imperio, e per volontà, per ambizione, per devozione di una sola persona: il signore, che, per quanto tollerato e a tratti amato, era pur sempre un tiranno. E veniva costruito da maestranze e da artisti stranieri, reclutati nello stato e fuori dallo stato, gravando di tasse o di prestazioni d'opera i sudditi. Il materiale stesso di cui è fatto, la pietra d'Istria, è estraneo alla tradizione costruttiva della città, che è di cotto come tutte quelle padane, con appena qualche ornamento di pietra. Ma l'Alberti non si è certo posto problemi di coerenza con la città contemporanea e medievale, che doveva considerare caduca e disprezzare in quanto frutto di approssimazione, disordine e povertà.
Il suo edificio intendeva ignorare il presente ed il passato prossimo, per riallacciarsi alle testimonianze durature di una civiltà più remota ed autorevole, quella romana, ricercando piuttosto una continuità con l'arco di Augusto e il ponte di Tiberio, già indicati dalla stessa tradizione cittadina come i monumenti più significativi e importanti. Più di uno stimolo e più di un motivo Leon Battista Alberti derivò specialmente dall'Arco d'Augusto, che nella facciata del Tempio viene riproposto e reinterpretato, enfatizzandone il tono celebrativo: celebrativo dell'uomo "nuovo" in senso generale, ma anche del principe colto, del condottiero illustre, del mecenate munifico, che in qualche modo viene cosi assimilato ad un grande imperatore romano ed esaltato su tutti i suoi contemporanei.