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Davide Sparti



AL DI QUA DELLE PAROLE

LA LINGUA BATTE



Nel leggere questo nuovo libro di Giovanni Commare mi ha colpito soprattutto il ricorso a numerosi frammenti in lingue straniere, ed anzi, non solo straniere ma anche radicalmente estranee. Nel leggerle (o meglio: nel sillabarle con incerta pronuncia) si è scaraventati al di qua delle parole verso un mondo di puri suoni. E' su questa circostanza che vorrei riflettere. Nel passato vi sono stati diversi esempi di sonorizzazione del prodotto poetico. Ne ricordo qui due, senza che ciò implichi alcun legame diretto fra il lavoro di Commare e tali possibili precursori. Il primo sono le sperimentazioni sonore dada di Hugo Ball, Richard Huelsenbeck, Raoul Hausmann o Kurt Schwitters. Adottando una concezione collagista della poesia, dada opera un montaggio di pure unità foniche. I suoni non hanno più la funzione di accudire ai significati; perdono la loro originaria carica semantica e valorizzano un'anarchia verbale che si sottrae all'imperativo della significazione. L’altro esempio, di poco successivo, sono le poesie recitate di Langston Hughes, uno dei rappresentanti di spicco della Harlem Renaissance degli anni Venti. La sua preoccupazione dichiarata è ritmica, ed investe la musicalizzazione del linguaggio, rivendicando l’ originaria contiguità di percezione sonora, lingua e musica. Cercando la musica nella lingua la performance poetry vive in una dimensione fonica affine con la tradizione del racconto orale, dei sermoni, del blues e della gergalità innovativa di strada tipica della cultura afro-americana. Benché la componente anarchico-teatrale ed anche quella musicale siano cruciali, vorrei andare più a fondo e sottolineare ciò che «sta sotto» tali sperimentazioni poetiche. Si tratta del primato della vocalità. Benché la parola sia la destinazione della voce, prima ancora della valenza semantica del suono articolato in parola (il registro semantico) vi è la materialità fonica della vibrazione sonora da cui la parola scaturisce (il registro vocalico della phonè); vi è una persona viva che spinge aria attraverso il torace e la gola. Prima ancora di «dire» qualcosa, il poeta che ricorre a tali suoni valorizza la funzione più «nuda» del linguaggio: quella fatica. Evoca, invoca, richiama… Ora, e vengo al punto principale, piuttosto che ai suoni, la metafisica occidentale ha ricondotto la radice del suono alla lingua, concepita a sua volta come calco di una logica che sarebbe intrinseca alla mente, quindi esterna ed anteriore alla voce. Il contrassegno dell’essere umano è spostato dalla fisicità del corpo alla mente. Il soggetto rappresentato dalla metafisica non ha neppure voce, o meglio: «parla» a se stesso mediante la voce insonora della coscienza ed il lavoro silenzioso del pensiero, che per definizione non parla né invoca: cogita. Nascendo dal «diaframma» anziché dalla «testa», la voce ed i suoni evocano parti del corpo non alte, né sublimi. Ai suoni ed alla voce si sostituisce la parola, intesa come guscio acustico di un’idea. Alle orecchie quali camere acustiche che godono dei suoni e della loro risonanza come il palato gode del dolce e del salato, si sostituiscono le orecchie quali galleria semantica, veicolo di un significato che va diritto alla mente. Non che i suoni e la voce non abbiano alcun senso: il punto è che vi è un «altro senso» radicato nel corpo (della realtà). Ogni lingua, peraltro, ha il suo codice fonatorio: alcuni suoni sono ammessi, altri no. Nel pensiero antico, i suoni disciplinati sono quelli conformi all’armonia numerica (harmonia invoca un ordine sonoro che è retto da misura e proporzione: i suoni sono ricondotti ad un’unità che risulta stabile per via dell’equilibrio fra parti combacianti), ammessi in quanto rivelativi dell’ordine divino iscritto nel mondo. Solo ciò che si presenta con questo particolare nulla osta, quello di armonizzarsi e accordarsi in una proporzione, risulta allora legittimo. Si afferma così un’austerità sonora che si oppone ai suoni «selvaggi» (così furono spesso considerati quelli dei jazzisti e dei poeti, e così vengono considerati quelli dei bambini, a cui si impone il sacrifico di ogni vocalizzazione non pervenuta alla parola). In un’epoca che esaspera l’elemento visivo e logico-linguistico, il suono spogliato dalla sua funzione semantica diventa insensato, irrazionale, persino pericoloso. I frammenti sonori inseriti da Commare nel suo testo mi sembra possano avere lo scopo di rappresentare la phonè, evocando un mondo in cui predominano la sfera acustica e l’espressione della corporeità, ossia ritmo e respiro, caratteristiche che sfuggono al controllo del linguaggio, e che, come se non bastasse, hanno un potere incantatorio che ammalia, attira, seduce. Ed allora facciamoci inondare dal potere evocativo di tali suoni, godiamone acusticamente, concediamoci al piacere di qualcosa che asseconda i ritmi e le pulsioni iscritte nel corpo. Ma tali frammenti sono solo una parte del testo di Commare, che affianca alla sperimentazione sul significante la ricerca di un significato. O forse dovremmo dire che ricerca il senso (della vita) sia attraverso quello che si può dire, sia attraverso quello che si mostra e si sente, consapevole che il senso della vita è qualcosa di vicino, di annidato nelle pieghe della quotidianità, ma anche qualcosa di imprendibile, che differisce ogni tentativo di definizione. Come ricorda Wittgenstein, si tratta di uno di quei casi in cui qualcosa risulta nascosta perché sempre sotto gli occhi e dunque troppo visibile: nascosta in superficie, per così dire. Il doppio registro, fonetico e semantico, è pertanto la testimonianza della doppiezza e ambiguità della vita, il cui senso è sempre anche circondato e raddoppiato da un altro senso, un altrove del senso che Commare cerca di conoscere ed evocare mediante quel bordo estremo del linguaggio (che è anche linguaggio del limite) detto poesia.

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