Riministoria© Antonio Montanari

Le "Notti" di Aurelio Bertòla. Storia inedita dei Canti in onore di Papa Ganganelli

 

Capitolo VIII

Tra Parini e Dante

 

 

 

 

Crediamo necessario affiancare alle considerazioni fin qui espresse, una nota (non troppo) marginale sul contenuto delle Tre Notti bertoliane, utile a comprendere il passaggio dall’edizione romana a quella senese del primo Canto, ed i successivi ampliamenti con le aggiunte delle altre due composizioni.

Quello "spirito illuminato del secolo" di cui parla Amaduzzi nel 1776, comincia a balenare in questi stessi Canti in onore di papa Ganganelli, proprio a partire dalla prima Notte. La quale inizia con l’invocazione a Young, musa e testimone della novità italiana del testo; culmina nell’esaltazione di Clemente XIV; e si chiude in una chiave autobiografica ("Io giovine poeta amico al sacro/ Util silenzio", I, LVII, 1-2), che permette all’autore di ricordare (I, LVIII, 3) il proprio educatore mons. Pasini, da poco deceduto, così come aveva citato Giovanni Bianchi (ed Amaduzzi, nell’edizione senese).

Le aggiunte nell’edizione senese delle terzine XXXVI-XXXVIII, dedicate alla ragione che "Orna i dover, le passion corregge" (I, XXXVII, 3), e della terzina LI dove si rammenta l’opera di pace svolta dal pontefice, assumono un senso preciso relativamente al quadro storico-culturale in cui Bertòla colloca la celebrazione della figura di papa Ganganelli.

Queste aggiunte testimoniano un marcato interesse verso la poesia civile, che Bertòla cala in un contesto lirico, nel quale prevalgono i toni del "patetico suono" (I, II, 4). Interesse che potrebbe derivare dalla lezione di Parini, nella cui ode La salubrità dell’aria (1759) appare in conclusione il concetto di poesia "utile", che troviamo poi riproposto nella chiusa autobiografica, appena citata, della prima Notte sul "giovine poeta amico al sacro/ Util silenzio".

L’elogio della ragione è collegabile con quello analogo dello "spirito filosofico", contenuto nel Discorso sopra la poesia [1761] di Parini; e dà alla prima Notte un cambiamento di tono: Bertòla non ricorre più soltanto a quella che Macpherson chiamava la "poésie de nature et de sentiment", ma alla lirica "de riflexion et d’esprit" che l’altra avrebbe voluto sconfiggere.

È questa la novità che incontriamo pure nella seconda Notte (in sostanza un canto politico, elaborato però nel rispetto del canone stilistico della poesia notturna), e nella terza Notte, in cui Bertòla rovescia la convenzione del modello di Young. Mentre le prime due iniziavano con la citazione dell’"orror" della montagna [79], la terza s’illumina dell’"insolito conforto" che gli porgono gli "splendori" del Cielo (III, II, 1-6).

Ma ciò che più ci preme di sottolineare in questa terza Notte, è uno spirito dantesco, tra allegorie femminili (la "Donna Real" con alloro, ghirlanda sul capo e l’"aurea tromba", III, VI-VII), e simbologie politiche come l’"Aquila ardita" dalle "temute penne" (III, XI, 4-5), che sembrano rimandare ad analoghi elementi della Commedia.

Con l’ultima Notte pare compiersi un progetto triadico simile a quello della stessa Commedia, con il passaggio dalla lugubre scena del primo componimento (I, I, 4) alla luce dei "chiari più dell’usato" raggi del giorno, che illuminano il verso finale di tutti i Canti clementini (III, XLII, 6).

Questo progetto triadico, se nella conclusione quasi rovescia o smentisce le premesse da cui era partito, esprime tuttavia nel suo svolgersi un mutamento del gusto del giovane Bertòla: pare quasi che, dai modelli della nuova poesia europea, egli voglia ritornare a quelli più solenni e severi della grande tradizione italiana [80].

Tale mutamento di gusto, visti gli esiti successivi, fu di breve durata, frutto di uno scarto tutto bertoliano, collegabile a variazioni non tanto di sensibilità letteraria quanto di umori esistenziali. La solita volubilità, potremmo commentare, ripetendo un giudizio espresso all’unisono sul poeta riminese da Amaduzzi e dalle tante donne che lo amarono, in primis quell’Elisa Mosconi che nel 1785 gli dette una figlia, Lauretta, e che lo chiamava "divino" nelle sue lunghe, appassionate lettere [81].

Una conferma, in sede critica, a tale giudizio, la troviamo nelle parole dello storico Angelo Fabi, finissimo interprete dell’opera e della vita di Aurelio Bertòla, quando osserva che il genio di costui "non era fatto per posarsi, ma per volare da un fiore all’altro" [82].

 

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