Karl Marx

TESTO:
"Lavoro e alienazione"

da Cioffi.., Corso di filosofia.., cit., p.394 sgg.

Premessa

La pagina dei Manoscritti che presentiamo tratta del lavoro alienato. Per intenderla correttamente, è opportuno richiamare il contesto teorico in cui essa è inserita: Marx introduce il tema dell’alienazione del lavoro per mostrare come la proprietà privata, contrariamente a quanto assume l’economia politica, non sia un presupposto ‘naturale", ma un fenomeno del quale occorre spiegare il fondamento. L’analisi dialettica che egli conduce in queste pagine Io porta ad affermare che la proprietà privata è risultato dell’alienazione, cosi come il capitale non è altro che lavoro alienato appropriato dal capitalista.

TESTO

Noi partiamo da un fatto economico, attuale.
L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. (r.8)
Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione.
La realizzazione del lavoro si palesa tale privazione che l’operaio è spogliato fino alla morte per fame. L’oggettivazione si palesa tale perdita dell’oggetto che l’operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari del lavoro. Già, lo stesso lavoro diventa un oggetto di cui egli può impadronirsi solo con lo sforzo più grande e le interruzioni più irregolari. L’appropriazione dell’oggetto prodotto si palesa tale estraniazione che più oggetti l’operaio produce, meno può possederne e tanto più cade sotto il dominio del suo prodotto, del capitale.
Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione che l’operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che quanto più l’operaio lavora tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Più è grande questa sua facoltà e più l’operaio diventa senza oggetto. Ciò ch’è il prodotto del suo lavoro, esso non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica. [...]
L’economia politica occulta l’alienazione ch’è nell’essenza del lavoro per questo: ch’ essa non considera l’immediato rapporto fra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogiamento dell’operaio. Produce palazzi, ma caverne per l’operaio. Produce bellezza, ma deformità per l’operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori ad un lavoro barbarico, e riduce a macchine l’altra parte. Produce spiritualità, e produce la imbecillità, il cretinismo dell’operaio. L’immediato rapporto del lavoro ai suoi prodotti è il rapporto dell’operaio agli oggetti di sua produzione. Il rapporto del facoltoso agli oggetti della produzione e a questa stessa è soltanto una conseguenza di questo primo rapporto. E ne è la conferma. Considereremo più tardi quest’altro lato. Se ci chiediamo dunque quale sia il rapporto essenziale ch’è il lavoro, ci chiediamo del rapporto dell’operaio con la produzione. (r.55)
Abbiamo finora considerato l’alienazione, l’espropriazione dell’operaio solo secondo un lato: quello del suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto della produzione, dentro la stessa attività producente. Come potrebbe l’operaio confrontarsi come un estraneo col prodotto della sua attività, se egli non si è estraniato da se stesso nell’atto della produzione stessa? Il prodotto non è che il résumé dell’attività, della produzione. Se, dunque, il prodotto del lavoro è la espropriazione, la stessa produzione dev’essere espropriazione in atto, o espropriazione dell’attività, o attività di espropriazione. Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume l’alienazione, l’espropriazione, dell’attività stessa del lavoro. In che consiste ora l’espropriazione del lavoro?
Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoto, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d’altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. Come nella religione l’attività spontanea dell’umana fantasia, dell’umano cervello e del cuore umano, opera indipendentemente dall’individuo, cioè come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività del lavoratore non è attività spontanea. Essa appartiene ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso.
Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale.
Il mangiare, il bere, il generare ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici. [….]
[XXIV]Abbiamo ancora da trarre dalle precedenti una terza caratteristica del lavoro alienato.(r.95)
L’uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche - e questo è solo un altro modo di esprimer la stessa cosa - in quanto egli si comporta con se stesso come nel genere presente e vivente; in quanto si comporta con se stesso come con un ente universale e però libero. [..]
L’universalità dell’uomo si manifesta praticamente proprio nell’universalità per cui l’intera natura è fatta suo corpo inorganico, 1) in quanto questa è un immediato alimento, 2) in quanto essa è la materia, l’oggetto e lo strumento dell’attività vitale dell’uomo. La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura che non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso, per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura, non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, ché l’uomo èuna parte della natura.
Poiché il lavoro alienato 1) aliena all’uomo la natura, e 2) aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all’uomo il genere; egli riduce così la vita generica ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo estrania l’una all’altra la vita generica e la vita individuale; in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimente nella sua forma astratta e alienata. Giacché primieramente il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appare all’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita. Nel modo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico. E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto mezzo di vita.
L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c’è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è la libera attività. Il lavoro estraniato sconvolge la situazione in ciò: che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza.
La pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come consapevole ente generico, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L’animale produce solo se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo confronta libero il suo prodotto. L’animale forma solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente, quindi forma anche secondo le leggi della bellezza.
Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come un ente generico. Questa produzione è la sua attiva vita sua, dell’uomo, e sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita generica dell’uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. Allorché, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua produzione, è la sua vita generica che gli sottrae, la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura. Egualmente, quando il lavoro alienato abbassa la spontaneità, la libera attività, ad un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica.
La coscienza che l’uomo ha del suo genere si trasforma dunque, attraverso l’alienazione, in ciò: che la vita generica gli diventa mezzo. Il lavoro alienato fa dunque:
3) della specifica essenza dell’uomo, tanto della natura che del suo potere spirituale di genere, un’essenza a lui estranea, il mezzo della sua esistenza individuale; estrania all’uomo il suo proprio corpo, come la natura di fuori, come il suo essere spirituale, la sua essenza umana; (r.173)
4) che un’immediata conseguenza, del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è Io straniarsi dell’uomo dall’uomo. Quando l’uomo sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l’altro uomo. Ciò che vale del rapporto dell’uomo al suo lavoro, al prodotto del suo lavoro e a se stesso, ciò vale del rapporto dell’uomo all’altro uomo, e al lavoro e all’oggetto del lavoro dell’altro uomo.
In generale, il dire che la sua essenza specifica è estraniata dall’uomo significa che un uomo è cstraniato dall’altro, come ognuno di essi dall’essenza umana. [...]
A un ente altro da me.
Chi è questo ente?
La divinità? Certamente nei primi tempi la produzione principale, ad esempio la costruzione di templi ecc., in Egitto, in India, al Messico, appare al servizio degli dèi e anche il prodotto appartiene agli dèi. Ma gli dèi non furono mai i soli padroni del lavoro. Tanto meno la natura. [...] L’ente estraneo, al quale appartiene il lavoro e il prodotto del lavoro, al servizio del quale sta il lavoro e per il godimento del quale sta il prodotto del lavoro, può esser soltanto l’uomo stesso.
Quando il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e gli sta di fronte come una potenza estranea, ciò è solo possibile in quanto esso appartiene a un altro uomo estraneo all’operaio. Quando la sua attività gli è penosa, essa dev’essere godimento per un altro, gioia di vivere di un altro. Non gli dèi, non la natura, soltanto l’uomo stesso può esser questa potenza estranea sopra l’uomo. [...]
Attraverso il lavoro alienato l’uomo non istituisce, dunque, soltanto il suo rapporto con l’oggetto e con l’atto della produzione come con un uomo estraneo e nemico, ma istituisce anche il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e il suo prodotto, ed il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini. Come egli genera la produzione sua per la propria privazione, per la propria pena, e il suo prodotto quale perdita, quale prodotto non appartenente a lui, così egli genera il dominio di chi non produce sulla produzione e il prodotto. Come egli si aliena la sua propria attività, attribuisce all’estraneo la attività non propria. (r.207)
Abbiamo considerato fino ad ora il rapporto solo dal lato del lavoratore, lo considereremo poi anche dal lato del non-lavoratore.
Dunque, nel lavoro alienato, espropriato, l’operaio produce il rapporto a questo lavoro da parte di un uomo estraneo e che sta fuori. Il rapporto dell’operaio col lavoro genera il rapporto del capitalista - o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro - col medesimo lavoro. La proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell’operaio alla natura e a se stesso.
La proprietà privata risulta così dall’analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell’uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell’uomo alienato.
Abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro espropriato (della vita espropriata) dall’economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma nell’analisi di questo concetto si mostra che, mentre la proprietà privata appare come ragione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di quest’ultimo, così come gli dèi sono in origine non causa ma bensì effetto dello smarrimento dell’intelletto umano. Poi questo rapporto si rovescia in un effetto reciproco. Solo all ‘ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata questa mostra di nuovo in risalto il suo segreto: cioè che, da una parte, essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente ch’essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione. […]

da K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, in Opere filosofi che giovanili, trad. di G. Della Volpe, Editori Riuniti, Roma 1969.





GUIDA ALLA LETTURA
in Cioffi, cit, pp. 399-400

In questa GUIDA ALLA LETTURA ricostruiremo il significato del termine alienazione" prima di Marx; quindi daremo una traccia per seguire l’argomentazione marxiana.

Significato di alienazione
Il termine, prima di Hegel, è impiegato nell’economia politica per indicare l’atto della vendita (Alienation) e nella tradizione contrattualista per indicare il trasferimento della libertà naturale dall’individuo alla società politica; in entrambi i casi ci si riferisce dunque alla cessione ad altri, di beni o di diritti.
Hegel fa dell’alienazione una delle categorie logico-metafisiche ccntrali della sua dialettica: l’alienazione è il momento della scissione dell’unità, della particolarizzazione dell’ universale, dell’uscire dello Spirito da sé e del porsi in altro, nella natura e nella storia. L’alienazione è dunque "estraneazione>, perdita dell’unità immediata dello Spirito con se stesso, e "oggettivazione", realizzazione della sostanza-soggetto nell’oggetto. Alienazione e oggettivazione coincidono in Hegel dal punto di vista del concetto (cioè della ‘verità"), poiché rappresentano il momento negativo il cui significato necessario è di essere superato nella riappropriazione di se stesso da parte dello Spirito a un più alto livello di sviluppo. L’autocoscienza ritrova se stessa (ovvero si riconosce) nell’oggetto e dunque ricompone l’unità perduta nell’alienazione. Quest’ultima - può dunque dire Hegel nella Fenomenologia - "ha significato non solo negativo, ma anche positivo", poiché "la forza dello Spirito consiste nel restare uguale a se stesso anche nell’alienazione".
In Feuerbach, l’alienazione perde questo significato di momento negativo ma necessario: essa è la separazione da sé, che l’uomo attua, delle forze e qualità proprie della sua essenza e la loro ipostatizzazione in Dio. L’alienazione è dunque perdita, privazione: l’uomo diviene il prodotto, la creatura di un ente esterno da lui stesso creato, in posizione di assoluta dipendenza da questo. Alienazione religiosa e alienazione filosofica coincidono, per Feuerbach, in quanto entrambe si fondano sull’inversione di soggetto e predicato: onde la disalienazione, la riappropriazione da parte dell’uomo di se stesso, sarà compito di quella "filosofia dell’avvenire" che indica nell’amore e nel rapporto dell’uomo con l’altro uomo la sfera della realizzazione delle qualità essenziali umane.
Già nella Questione ebraica Marx ravvisa l’esigenza di mostrare che l’alienazione religiosa non è che la manifestazione di una condizione di alienazione sociale e politica e ne ritrova la radice nella scissione fra hourgeois e citoyen caratteristica della società moderna. Entrambi i lati di questa scissione presentano l’alienazione: da un lato l’atomismo, l’egoismo, il hellum omniurn contra ontnes in cui vive l’uomo privato; dall’altro l’astrazione, la separatezza della società politica, lo stato, dalla comunità umana.

L’alienazione nella società capitalistica - rr. 1-8
In questa presentazione dell’alienazione è da notare:
a) che essa è considerata un <fatto economico, attuale>, dunque verrà indagata in quanto prodotto specifico della società capitalistica: alienazione dell’operaio;
b) che il terreno sul quale viene considerata l’alienazione è quello della produzione e del lavoro.

Alienazione del prodotto del lavoro - rr. 9-55
Il primo e più immediato modo di presentarsi dell’alienazione è quello della perdita dell’oggetto prodotto con il lavoro. Nel prodotto il lavoro si è fatto oggetto, si è "realizzato": ma a differenza di Hegel, che concepisce tale oggettivazione come una "appropriazione" (attraverso il lavoro, l’uomo dà forma alla natura e se ne appropria in modo mediano; si ricordi la figura fenomenologica del servo), nelle condizioni attuali, descritte dall ‘economia politica, questa appropriazione appare invece come alienazione, espropriazione (rr. 14-17). Alle n. 17-26 scopriamo che l’espropriazione dell’oggetto non è solo perdita, ma creazione di un rapporto di dipendenza dal capitale (che è lavoro alienato).
In tutta questa prima parte del testo Marx segue esplicitamente la critica feuerbachiana dell’alienazione religiosa, talora quasi alla lettera: si confronti, per esempio, quanto è detto alle rr. 29-37 con il seguente passo di Feuerbach:
"Per arricchire Dio, l’uomo deve impoverirsi; affinché Dio sia tutto, l’uomo deve essere nulla. (...) L’uomo rinuncia alla sua personalità, nega la dignità umana, l’lo umano".

Alienazione del lavoro come attività - rr. 56-95
Il nesso tra questo "lato" e il precedente è indicato con chiarezza da Marx quando osserva che l’alienazione del prodotto del lavoro presuppone l’espropriazione della stessa attività lavorativa: appunto perché non considera questo aspetto, l’economia politica. pur sottolineando la centralità del lavoro, "occulta" l’alienazione in esso presente.
Marx indica, senza svilupparli, due aspetti del fenomeno:
uno, di carattere antropologico, riguarda il carattere costrittivo e penoso assunto dal lavoro (si sente qui la presenza di Fourier con la sua tematica del lavoro "coatto");
l’altro, di carattere economico, riguarda la riduzione del lavoro a merce.
In generale, Marx mette qui in luce il capovolgimento di funzioni essenziali che caratterizza la società capitalistica: la sua analisi ha una forte accentazione etica, come si vede dal fatto che l’inversione essenziale è quella tra fine e mezzo (tema che verrà ripreso con più forza nel seguito).

Alienazione dal genere - rr. 96-173
L’analisi di Marx si muove in direzione di una sempre maggiore generalità:
qui mostra come l’alienazione del prodotto del lavoro e del lavoro stesso comporti la perdita da parte dell’uomo della sua essenza più propria.
La nozione di "ente generico" (Gattungswesen) è feuerbachiana. Per Feuerbach, l’uomo è ente generico in quanto può prendere a oggetto la propria essenza, può manifestare la propria universalità (in forma alienata, in Dio).
Marx accoglie la nozione feuerbachiana, ma ne accentua la dimensione sociale e pratica. Al centro della sua concezione di "ente generico" sta il momento della produzione, della lavorazione e trasformazione della natura. L’uomo è ente generico perché è in grado di oggettivarsi consapevolmente attraverso il lavoro; a differenza dell’animale, l’uomo producendo intrattiene con la natura un rapporto di mediazione (vedi per esempio le rr. 127-153).
Il concetto per cui il lavoro (inteso in senso ampio come attività pratica di produzione) dà forma alle cose, concetto non presente in Feuerbach, è centrale nella Fenomenologia hegeliana. Marx riconosce esplicitamente il merito di Hegel su questo punto. Ma qui si vede anche con chiarezza la differenza tra il concetto hegeliano e quello marxiano di alienazione: mentre in Hegel alienazione e oggettivazione coincidono (uscir da sé dello Spirito per riconoscersi nelle sue produzioni), Marx distingue nettamente tra il valore positivo e necessario deIl’oggettivazione (il lavoro è necessario per la realizzazione dell’uomo) e l’alienazione che di fatto si dà nelle condizioni della società capitalistica (rr. 154-165).

Alienazione dall’altro uomo rr. 174-207
Si noti che l’estraniazione dell’uomo dall’altro uomo, già denunciata come tipica della società civile, è ricavata qui come risultato dell’alienazione del lavoro.
Rispetto a Feuerbach, che la faceva risalire all’alienazione religiosa, nell’antropologia di Marx questa alienazione è ricondotta a una situazione pratica. Perciò, il movimento dell’emancipazione non potrà semplicemente aver luogo a opera di un rovesciamento filosofico, ma dovrà investire il terreno dei rapporti concreti fra gli uomini.

Alienazione e proprieta privata rr. 208-fine
Qui Marx ritorna al punto da cui aveva preso le mosse, e cioè la proprietà privata: l’estraneazione fra uomo e uomo si esprime da ultimo nel fatto che il prodotto del lavoro di un uomo, dell’operaio, è appropriato da un altro uomo, dal capitalista.
Con ciò, la proprietà privata è mostrata come risultato e insieme come condizione del lavoro alienato.
Si badi che Marx non ha mostrato qui la genesi storica della proprietà privata (è questo un compito che affronterà solo a partire dall’ideologia tedesca) ma la sua genesi, potremmo dire, dialettica: ovvero ha messo in luce come quello della proprietà privata sia un rapporto che non può essere assunto come un principio, ma che deve essere indagato nelle sue connessioni con le modalità in cui il lavoro è erogato e appropriato: indagine che può essere condotta solo nel momento in cui tale rapporto giunge al suo massimo sviluppo (rr. 227-231).





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