Karl Marx
(da Cioffi e altri, I libri di diàlogos , vol. E, cit, p.64 sgg.)

L’analisi del capitalismo

II Capitale: il metodo della ricerca

A partire dal 1850 Marx concentra la propria ricerca teorica sull’economia politica e sulle strutture di funzionamento del sistema capitalistico: la dizione "critica dell’economia politica", che figura quale titolo o sottotitolo di tutte le sue opere sull’argomento, indica appunto l’analisi della realtà capitalistica in rapporto alla rappresentazione che ne dà la scienza economica. Questo lavoro, iniziato con i Manoscritti, condurrà infine al Capitale, il cui primo libro fu pubblicato nel 1867. In tutte le opere di questo periodo sono presenti indicazioni circa la metodologia che Marx intende seguire nella sua ricerca, distinguendosi sia dai classici, come Smith e Ricardo (dei quali pure rielabora alcune dottrine fondamentali, come la teoria del valore-lavoro) sia soprattutto dall’economia borghese "volgare" del suo tempo. Quest’ultima descrive con categorie astratte - come scambio, salario, profitto, capitale - fenomeni la cui esistenza accetta come un dato. Al contrario - secondo Marx - il compito dell’indagine critica, cioè scientifica, è quello di andare oltre "l’apparenza" delle cose, risalendo oltre le loro "forme fenomeniche" per coglierne "l’essenza interna". Osserva Marx che "ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero"; l’economia borghese si colloca, da questo punto di vista, sullo stesso livello dell’esperienza quotidiana, "la quale afferra solo l’apparenza ingannevole delle cose".
Cogliere l’essenza dei fenomeni, cioè comprenderli, significa invece scoprirne la "connessione interna": una strada sulla quale Smith e Ricardo si sono giustamente avviati. Nell’economia politica, osserva Marx, si trova "l’anatomia della società civile": ma la conoscenza di questo organismo non potrà avvenire dissezionandolo in una serie di parti irrelate, bensì mettendo a fuoco le relazioni dialettiche fra le diverse categorie nella totalità dell’insieme.
In ogni società, infatti, "i rapporti di produzione formano un tutto". A questo principio metodologico si ispira l’analisi contenuta nel Capitale.

Merce, valore d’uso, valore di scambio

L’analisi prende le mosse dalla merce in quanto "forma elementare" di quella "immane raccolta di merci" che il capitalismo mostra di essere. Oggetto materiale e sensibile, a prima vista di comprensione del tutto ovvia, la merce rivela, quando viene sottoposta all’analisi, un aspetto di fondamentale duplicità: ogni singola merce, infatti, è contemporaneamente mezzo per la soddisfazione di un bisogno e oggetto che viene scambiato sul mercato; ha un esistenza naturale e un’esistenza sociale, un valore d’uso e un valore di scambio.
Il valore d’uso di una merce ha a che fare con le sue caratteristiche qualitative: un abito, un paio di stivali sono qualitativamente differenti e pertanto possono soddisfare bisogni differenti; il valore d’uso si realizza, in tal modo, nel consumo.
Al contrario, il valore di scambio prescinde dalle differenze qualitative; nello scambio, infatti una merce si rapporta all’altra solo in relazione alla quantità: un vestito si scambia con un paio di stivali o con due camicie, e ciò che conta è la proporzione in cui avviene lo scambio. Lo scambio presuppone dunque un’astrazione dalle caratteristiche fisiche della merce e dalla sua utilità: in una parola, dalla forma concreta della merce. Il valore di scambio rivela l’espressione ditale astrazione e il denaro non è altro che "la forma in cui tutte le merci si eguagliano, si paragonano, si misurano", cioè "l’equivalente generale" di tutte le merci.


Lavoro astratto e lavoro concreto

Ma da che cosa proviene e come si determina il valore di scambio? Marx osserva che lo scambio fra due merci presuppone il riferimento a una "terza cosa" che non è né l’una merce né l’altra ma ha tuttavia di necessità qualcosa in comune con entrambe: il lavoro umano in esse oggettivato. Ma la medesima duplicità che caratterizza la merce si trova ora nel lavoro: se dal punto di vista del valore d’uso il lavoro si presenta come lavoro concreto, particolare operazione di trasformazione della natura, dal punto di vista del valore di scambio ciò che conta è il lavoro astratto, il lavoro umano spogliato da ogni determinazione qualitativa, il lavoro in quanto fonte di valore. Tale. " spettrale oggettività" del lavoro è propria della società capitalistica, ove, secondo Marx, il lavoro viene separato dai suoi contenuti determinati, cioè dalla sua forma naturale, e assunto come "unica e identica forza-lavoro umana", cioè nella sua forma sociale. Valore di scambio e lavoro astratto sono dunque coincidenti: e come il valore di scambio è soggetto esclusivamente a determinazioni quantitative, così il lavoro astratto si esprime quantitativamente come tempo di lavoro socialmente necessario. Il valore di una merce è dato dal lavoro in essa contenuto misurato con il tempo: questa misura non riguarda l’opera del singolo lavoratore, ma la durata del lavoro sociale erogato per produrre la generalità delle merci scambiate: anche il tempo di lavoro è dunque un’astrazione e il lavoro individuale figura solo come quota del lavoro sociale.


II capitale è un rapporto sociale

Guardando ora la cosa dal punto di vista dinamico, cioè prendendo in considerazione il processo produttivo di cui la merce è il risultato, si riscontrerà la medesima duplicità che caratterizza la merce stessa, il valore e il lavoro. Da un lato, il processo produttivo è processo di lavorazione, finalizzato alla produzione di valori d’uso per la soddisfazione di bisogni: in questa luce, il lavoro è una "condizione naturale eterna della vita umana".
Dall’altro lato, il processo di produzione è contemporaneamente un processo di valorizzazione, attraverso il quale il capitale si riproduce e si accresce. Qui il lavoro non è finalizzato alla produzione degli oggetti in cui si realizza, ma all’incremento dei valori immessi, come capitale, nel processo.
Lavorazione e valorizzazione vengono assunte dall’economia politica borghese come una cosa sola, perché nel processo produttivo capitalistico esse si presentano come immediatamente unite: ciò permette all’economia politica di presentare il processo di valorizzazione del capitale come altrettanto naturale" ed "eterno" quanto il lavoro stesso.
Al contrario - ed è questa una fondamentale affermazione di Marx - "il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose". Il capitale presuppone e insieme crea una situazione in cui il nesso sociale fra gli individui si realizza attraverso il mercato e in cui i mezzi di produzione sono proprietà di una sola classe, mentre l’altra classe non possiede altro che la propria capacità lavorativa, che consiste nella forza-lavoro.


Feticismo delle merci e falsa coscienza

Il processo di produzione in quanto lavorazione-valorizzazione contiene dunque dentro di sé il rapporto del capitale con il lavoro: rapporto che è di subordinazione della lavorazione alla valorizzazione, del lavoro al capitale. Poiché tutto il valore proviene dal lavoro, il capitale non è che lavoro morto, lavoro oggettivato e cristallizzato in mezzi di produzione: la funzione del lavoro vivo, del lavoro soggettivo e concreto, è solo quella di valorizzare il capitale in quanto valore esistente. Ciò che all’apparenza sembra evidente, e cioè che l’operaio usa i mezzi di produzione, si rivela in realtà il contrario: "Non è l’operaio che utilizza i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione che utilizzano l’operaio", è il lavoro morto che comanda il lavoro vivo. Tutt’altro che naturale ed eterno, il capitalismo è dunque nella sua essenza dominato da una fondamentale inversione, da una sostanziale alienazione e reificazione: "Il dominio del capitalista sull’operaio è quindi il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore". Questo carattere "rovesciato" del mondo capitalistico si esprime compiutamente nel feticismo delle merci: le merci appaiono alla coscienza come cose che hanno in se stesse il loro valore, ma restano del tutto nascosti i processi e i rapporti reali della loro valorizzazione. Nella società dominata dal capitale, dalle leggi del valore e dello scambio, la coscienza degli uomini si trova immersa in un contesto ove vige "la personificazione della cosa e la reificazione della persona"; si trova nella condizione di una falsa coscienza, che non riesce a vedere al di là dei rapporti che la dominano, in quella "religione della vita quotidiana" di cui la merce è il feticcio.


La valorizzazione del capitale

Valorizzazione significa che vengono prodotte merci che realizzano sul mercato un valore di scambio maggiore del valore dei mezzi di produzione: la "formula del capitale" che esprime questo processo è D - M - D’, dove D’ sta a indicare che il denaro ottenuto sul mercato dalla merce M è maggiore del capitale anticipato D. Marx ha cura di distinguere questa formula da quella che esprime il processo di circolazione semplice della merce: M - D - M. Si deve notare la diversa posizione e ruolo del denaro nelle due formule: nella seconda il denaro opera come intermediario dello scambio e come rappresentazione dell’identica grandezza di valore (quantità) di due merci qualitativamente differenti, scambiate per ottenere differenti valori d’uso. Nella prima, gli estremi del processo sono entrambi denaro, sono dunque qualitativamente identici, ma quantitativamente differenti per un certo valore, che costituisce la ragione stessa dello scambio, il plusvalore: "Chiamo plusvalore - scrive Marx - questo incremento, ossia questa eccedenza sul valore originario". Il passo decisivo consiste ora nello spiegare l’origine del plusvalore: come è possibile che il capitalista realizzi, alla conclusione di un ciclo di produzione, un valore superiore a quello iniziale? Si potrebbe pensare che egli ottenga questo plusvalore vendendo la merce a un prezzo superiore al suo valore: ma è evidente che tale spiegazione, quand’anche potesse valere per il singolo capitalista o per la singola transazione, non avrebbe validità a livello generale, giacché i maggiori profitti realizzati da alcuni operatori sarebbero annullati dalle corrispondenti perdite degli altri. Dunque l’origine del plusvalore non va cercata nella sfera della circolazione delle merci, ma in quella della produzione, nella relazione D - M, non in quella M - D’: la formula del capitale può essere riscritta come D - M ... M’ - D’, dove M’ rappresenta il capitale-merce valorizzato nel processo produttivo. Il capitale iniziale D compra, con M, due cose: mezzi di produzione e forza-lavoro sotto forma di pagamento anticipato di salari. Lo scambio D - M è per definizione scambio di equivalenti, cioè scambio di valori di identica grandezza: D compra M al valore dato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrre i mezzi di produzione e la forza-lavoro; nel caso della forzalavoro, il suo valore è quello dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l’operaio. Come è possibile allora che uno scambio di equivalenti dia origine a un valore finale non equivalente alla somma dei valori impiegati, a un plusvalore?


Il plusvalore proviene dal lavoro non pagato

La risposta di Marx è che il capitalista non acquista, con il salario, il lavoro dell’operaio, ma la sua forza-lavoro, cioè la sua capacità produttiva, per utilizzarla nel processo di produzione. Essendo una merce, la forza-lavoro ha un valore d’uso e un valore di scambio: dal punto di vista dello scam(pari, ripetiamolo, al valore dei mezzi di sussistenza). Ma la forza-lavoro ha un valore d’uso differente da quello di tutte le altre merci: essa, una volta consumata (cioè applicata al processo produttivo), è in grado di produrre una quantità di lavoro, e quindi un valore, superiore a quello in essa oggettivato e necessario a riprodurla. Poiché il valore si misura in tempo di lavoro, ciò equivale a dire che, sotto i rapporti di produzione capitalistici, la forza-lavoro viene utilizzata per un tempo superiore a quello necessario a riprodurne il valore di scambio. Supponendo che il tempo di lavoro necessario a riprodurre il valore dei mezzi di sussistenza incorporati in un singolo lavoratore sia di sei ore, e che la giornata lavorativa sia di dieci ore, Possiamo affermare che il capitalista estrae da quel lavoratore un pluslavoro pari a quattro ore e un corrispondente plusvalore.
Quello che dunque, nella sfera della circolazione, appare uno scambio di equivalenti, nella sfera della produzione si rivela uno scambio ineguale, la radice stessa dello sfruttamento capitalistico: secondo Marx si dissolve in questo modo, alla luce dell’indagine critica, <(la falsa parvenza di un rapporto di associazione in cui l’operaio e il capitalista si dividono il prodotto secondo la proporzione dei differenti fattori della formazione".


La composizione organica del capitale e il profitto

Marx ha guadagnato il concetto di plusvalore analizzando criticamente la "forma fenomenica" dei processi di produzione capitalistici al fine di rinvenirne "l’essenza". Ora il concetto di plusvalore gli serve per reinterpretare criticamente gli elementi e le categorie del sistema economico - come i prezzi, il profitto, la concorrenza - e per descriverne le tendenze fondamentali. Se si guarda al profitto, per esempio, si scopre che esso non deriva da tutto il capitale, come vuole l’economia borghese, ma solo dallo sfruttamento della forza-lavoro. Marx distingue, in proposito, tra il capitale investito in mezzi di produzione (macchinari, materie prime, attrezzature) e quello investito nell’acquisto di forza-lavoro. Chiama il primo capitale costante (c), poiché non muta la sua grandezza di valore nel corso del processo produttivo, e il secondo capitale variabile (v), perché, come abbiamo visto, ha la caratteristica di valorizzarsi; chiama poi composizione organica del capitale il rapporto tra queste due parti. Ora, il capitale convertito in mezzi di produzione si trasferisce con grandezza immutata nel prodotto, e quindi conferisce a esso la quota di valore corrispondente al proprio consumo; dal capitale variabile, invece, proviene il plusvalore (Pv), il cui saggio (s) sarà dunque dato dal rapporto tra il plusvalore stesso e il capitale variabile: s = Pv/v. Questo rapporto dà la misura dello sfruttamento della forza-lavoro (perciò Marx lo chiama anche "saggio di sfruttamento"). È l’estrazione di plusvalore che dà origine al profitto, che non è dunque "remunerazione" del capitale totale, ma proviene dallo sfruttamento della parte variabile di esso. Il saggio di profitto (p) sarà dato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale globale investito: p = Pv/e + v. L’andamento del saggio di profitto dipende, dunque, sia dall’andamento del saggio di plusvalore sia dalla composizione organica del capitale: l’uno e l’altra sono diversi nei differenti settori produttivi.
Di conseguenza, a livello dell’intero sistema economico, si dovrà parlare di un saggio di profitto medio, derivante dal rapporto tra la massa del plusvalore e l’intero capitale sociale investito.


Plusvalore assoluto e plusvalore relativo

Interesse primario del capitale è evidentemente quello di aumentare il saggio di plusvalore, cioè la propria valorizzazione; un primo modo per ottenere tale risultato è l’aumento puro e semplice della giornata lavorativa: Marx chiama assoluto il plusvalore così ottenuto, caratteristico di una situazione in cui si suppone costante il tempo di lavoro necessario alla riproduzione dei mezzi di sussistenza. Questa visione non corrisponde però alla realtà dinamica propria del capitale.
Il capitale opera una riduzione del tempo di lavoro necessario (e quindi del valore della forza-lavoro) attraverso l’aumento della produttività del lavoro, pur restando costante o addirittura diminuendo, secondo una tendenza storica che appare irreversibile, la durata della giornata lavorativa. Il plusvalore così ottenuto è detto da Marx relativo, ed è la forma specifica del plusvalore nel capitalismo sviluppato: nell’esempio fatto sopra, se il tempo di lavoro necessario passa da sei a cinque ore, si realizza un aumento del saggio di plusvalore.


Le macchine e l’alienazione

Marx analizza le fasi che storicamente hanno caratterizzato questo aumento della produttività del lavoro: la cooperazione (più lavoratori che operano insieme allo stesso processo di produzione), la divisione del lavoro, la manifattura (che riunisce funzioni lavorative ancora artigianali sotto un unico capitalista), la grande industria, in cui l’operaio svolge funzioni lavorative parcellizzate al servizio della macchina. Se inizialmente il capitale si è mosso entro condizioni tecniche date, con il suo sviluppo esso ha rivoluzionato profondamente tali condizioni, sottomettendo alle sue esigenze di valorizzazione (plusvalore relativo) non soltanto il lavoro, ma anche la scienza e la tecnica.
La macchina - meglio, "il sistema di macchine" - è appunto l’espressione di questo fenomeno: mentre lo strumento di lavoro aveva la funzione "di mediare l’attività dell’operaio nei confronti dell’oggetto", ora è l’attività dell’operaio "a mediare soltanto ormai il lavoro della macchina, la sua azione sulla materia prima". Il lavoratore non si trova più all’inizio del processo di trasformazione della natura, ma assume il ruolo di mediatore: all’inizio sta ora "un automa costituito di numerosi organi meccanici e intellettuali, di modo che gli operai stessi sono determinati solo come organi coscienti di esso".


I punti chiave

  • Quale approccio metodologico adotta Marx nell’analisi dell’economia capitalistica?
  • Quale fondamentale duplicità si riscontra nei concetti di merce, lavoro e valore?
  • Che cosa significa che il capitale è un "rapporto sociale"?
  • In che cosa consiste il feticismo delle merci?
  • Spiega la formula marxiana D - M - D’ utilizzando i concetti di plusvalore e pluslavoro; che cos’è, in questa analisi, il profitto?






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