Lo
strumento dalle antiche origini, ha rappresentato un modo particolare di fare
musica, più coinvolgente di altri strumenti ritenuti più
aristocratici
Il mito greco-romano parla del piccolo Hermes-Mercurio, che nato al mattino già a mezzogiorno era in grado di camminare, e andandosene a spasso trovò sulla spiaggia una tartaruga morta e putrefatta sul cui guscio alcuni residui tendini risuonavano al vento. Il dio dell'astuzia e dell'ingegnosità si mise ad armeggiare, ed in breve ne ricavò quell'aggeggio che gli antichi greci avrebbero chiamato kithara, facendone il loro strumento nazionale.
Quella stessa invenzione
avrebbe in seguito risparmiato al piccolo impertinente una divina sculacciata,
con l'offrirlo a Febo-Apollo in cambio del bestiame che gli aveva rubato. E il
dio-artista non avrebbe resistito alla tentazione, facendo anzi della kithara
uno dei suoi attributi. E tradizionale l'immagine di Nerone, devoto ad Apollo,
che la suona mentre intona il suo poema sulla distruzione di Troia nel guardare
Roma in fiamme. E tuttavia, se la kithara classica ha dato alla nostra chitarra
il nome e ne ha anticipato la funzione di accompagnamento del canto, non si
tratta però dello stesso strumento. La rappresentazione classica ce la mostra
infatti come una cassa di risonanza con ai lati due prolungamenti verticali a
forma di corna, che sorreggevano una sbarra trasversale. Fra questa e il corpo
inferiore della cassa di risonanza erano tese le corde: solo 4 o 5 all'inizio,
ma poi divenute 7 nel VII secolo a.C., 11 nel V secolo, e infine 15. Più che
verso la chitarra, l'evoluzione è verso l'arpa. D'altra parte, la tecnica
moderna dell'accompagnamento con accordi non si sviluppa in Occidente che alla
fine del Medio Evo, per essere poi teorizzata tra XVI e XVIII secolo. Tuttora,
la pratica musicale tradizionale delle culture extra-europee si basa
essenzialmente non sulla sistemazione di note in intervallo con la melodia,
bensì sulla sovrapposizione di linee melodiche simili, ma non identiche.
Ma qualcosa di simile alla
chitarra moderna già esisteva in Medio Oriente, anche ai tempi in cui Nerone si
lanciava nelle sue “kitharate”. Come testimonianza inconografica, il più antico
chitarrista della storia ci guarda da un bassorilievo ittita del 1000 avanti
Cristo. Siamo in prossimità geografica e cronologica con quella Troia della
grande guerra cantata, prima ancora che da Narone, da Omero (anche lui, si
immagina, con in mano una kithara). E come testimonianza archeologica, alcuni
prototipi di chitarra sono stati ritrovati in tombe egizie dall'VIII al IV
secolo a.C.. D'altronde, è tuttora l'Egitto il Paese dei più apprezzati virtuosi
di ud del mondo islamico. Ud, con l'articolo che gli arabi mettono dappertutto,
è al-ud. Sì: è quel famoso liuto dei Trovatori, su cui le lingue romanze
intonarono i loro primi incerti versi, e che in Europa fu riportato
presumibilmente dai Crociati. E lo stesso percorso deve averlo fatto la
chitarra, che rispetto al liuto è una variazione sul tema: con il fondo piatto e
la forma ad 8, invece che convesso e con la forma a pera. Ma è possibile anche
che il viaggio sia stato fatto attraverso quella straordinaria camera di
compensazione tra Islam e Cristianità che fu per tutto il Medio Evo la Spagna.
Comunque, furono artigiani spagnoli quelli che nei secoli la aggiustarono, fino
a darle la forma definitiva. In Spagna si è sviluppata quella scuola di
virtuosismo flamenco che è un po' l'equivalente chitarristico europeo di quel
che rappresenta l'Egitto per gli estimatori di ud. Ed è dalla Spagna che la
chitarra è arrivata in America Latina, per dare vita ad un'altra importante
scuola virtuosistica, con sviluppo di tecniche originali.
Nel '300, la chitarra aveva
quattro corde: tre doppie, come le ha oggi il mandolino, e una semplice. La
quinta corda, doppia, fu aggiunta in basso alla fine del '600; la sesta arrivò,
in alto, a metà del '700, mentre tutte le corde divenivano singole. E' forse
questa la più importante traccia della lunga evoluzione parallela con il liuto,
anch'esso passato dalle 2-4 corde originali alle 6 definitive (di cui 5 doppie).
Interessante è anche ricordare il progressivo affermarsi in entrambi gli
strumenti della tecnica di esecuzione con le dita rispetto all'originale
prevalenza del plettro, tuttora indispensabile invece per mandolini e derivati.
Ma chitarra e liuto si somigliavano troppo per poter convivere nel successo.
All'inizio, con la nobiltà estasiata dall'esile timbro del liuto, la chitarra è
un po' un parente povero. Ma già nel 1482 Leonardo da Vinci può mandare a Milano
il curriculum che lo farà assumere da Ludovico il Moro, specificando che oltre a
ingegnere, pittore, scultore e scienziato è anche un "suonatore di chitarra". E
nel 1556 un trattato sulla Francia ci informa che lì "tutti sanno suonare la
guiterne". Anche se non si trattava ancora della chitarra attuale di derivazione
spagnola, bensì di un compromesso con la cassa a forma di pera come il liuto ma
a fondo piatto. Un altro simile compromesso è rimasto nell'uso qua e là in
Italia Meridionale, ed è chiamato dagli etnomusicologi "chitarra battente" (ma
nella tradizione pugliese è quella la vera "chitarra". Quella che nel resto del
mondo è la chitarra tout court, lì è detta "chitarra
francese").
In italiano, i trattati di
storia della musica chiamano la guiterne francese "cetra", termine che è però
promiscuamente usato anche per la kithara greca. Probabilmente, la vittoria che
relega il liuto agli specialisti di musica antica è il risultato di una
democratizzazione della società: mentre il suono aggraziato ma fioco del liuto è
inutilizzabile fuori di una stanza chiusa, l'energica "grattata" sulla chitarra
("rasgueo", è il termine tecnico di derivazione spagnola) permette di farsi
intendere dall'auditorio più vasto che ascolta, ad esempio, i cantastorie.
Oppure di far parte di un'orchestrina. Più complicato è invece metterla tra il
frastuono di un'orchestra sinfonica vera e propria. Gli estimatori della
chitarra, è vero, ricordano che Stradivari ne fabbricava, assieme ai suoi
celeberrimi violini. Che Paganini ne era un virtuoso, oltre che di violino e
mandolino. Che Haydn, Schubert, Weber e Rossini scrissero per chitarra
partiture. E che Beethoven la definiva "un'orchestra in miniatura". Ma solo
Verdi ebbe il coraggio di sperimentarla in qualche opera. (Nella storia italiana
suoi illustri appassionati sono stati Giuseppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi,
Massimo D'Azeglio e Bettino Craxi). Altro limite della chitarra era l'uso nella
musica da ballo, al di fuori di alcuni contesti in cui appunto si è dovuto
sviluppare un virtuosismo funambolico. Un esempio è appunto quello del famenco
dei gitani spagnoli; un altro è la get-fiddle del Far West, con la nascita del
caratteristico stile saltellato del finger-picking. Ma zingari e pionieri erano
appunto gente la cui vita nomade li portava ad apprezzare al massimo uno
strumento con la dote della trasportabilità.
In Italia, ancora all'inizio
del secolo gli strumenti a corde erano tipici degli artigiani di paese, che
consideravano l'abilità nell'usare le dita per produrre i suoni un ideale
complemento all'abilità nell'usare le dita per il loro lavoro. Caratteristica
era soprattutto la bottega del barbiere, vera filarmonica dei poveri dove nelle
ore di chiusura i vari "mastri" si vedevano per provare chitarre, mandolini e
violini. Fu una specie di rivolta democratica quella con cui ad un certo punto
il monopolio musicale di queste aristocrazie manuali iniziò ad essere sfidato
dalle bande paesane. Ma il gran bisogno, prima della diffusione di radio e
dischi, restava quello di uno strumento maneggevole che permettesse di
sviluppare volume per il ballo senza dover pagare troppi suonatori. I pastori,
gente con giornate dai molti tempi
morti, utilizzavano la zampogna, dai lunghi tempi di costruzione e accordatura,
e che invece dell'accordo sviluppava l'arcaico accompagnamento a bordone (in
cui, invece di quattro note, la melodia è accompagnata solo da una). Nel ceto
medio si affermò nell'800 il pianoforte, che ogni signorina di buona famiglia
doveva imparare, ma con i problemi di trasportabilità evidenziati dalla famosa
barzelletta yiddish sul perchè gli ebrei sono spesso grandi violinisti e non
pianisti ("hai mai provato a dover scappare all'improvviso con un pianoforte in
spalla?"). Infine, dagli ambienti contadini, si affermarono come risposta
vincente fisarmonica e strumenti affini (dall'organetto italiano alla concertina
anglo-sassone, al bandoñeon argentino): veri riassunti portabili del pianoforte
che, inventati nel 1824, ci misero appena un secolo a divenire gli strumenti
principe della musica popolare. E lo sarebbero rimasti, se proprio la diffusione
della musica preregistrata non avesse cambiato totalmente i termini della
questione. Non solo, infatti, si può ballare ora con un giradischi, dove prima
bisognava assoldare almeno un suonatore (o servirsi di un amico che però doveva
riunciare lui a ballare). Ma l'ascolto massiccio di esecuzioni a livello
professionale tende a viziare l'ascoltatore ai danni dei suonatori dilettanti,
la cui esecuzione non sarà mai altrettanto pulita, nè il repertorio altrettanto
vasto. E l'incentivo a passare ore a studiare, se non si vuole farlo come
lavoro, viene meno in maniera
drammatica. E' d'altronde un caso se negli ultimi cento anni la "biodiversità"
musicale è tanto calata? Provate un po' a calcolare quanti nonni e prozii del
vostro albero genealogico armeggiavano con violino o mandolino o tromba o
fisarmonica. E fate il confronto con quanti dei loro discendenti lo fanno
ancora...
Ma se per il bisogno di
ascoltare musica la tecnologia è spiazzante, per la voglia di cantare neanche
l'infernale marchingegno del karaoke è riuscito veramente a sostituire l'antico
strumento ittita come fonte di accompagnamento: nè troppo forte da coprire la
voce, nè troppo debole da non sentirsi, nè troppo complicato da perdercisi, nè
troppo semplice da impazientire le smaliziate orecchie di oggi. Certo, un conto
è imparare i quattro "accordi del barbiere" che bastano a ripetere qualche
popolare canzone da cantautore, un conto è apprendere la tecnica solistica di un
Andrés Segovia. Come insegna qualunque maestro la chitarra è lo strumento più
facile da suonare male, ma è anche il più difficile da suonare bene. Non è
questo però che interessa a coloro a cui la chitarra sul cuore è, per dirla con
le parole di Carl Sandburg, "un compagno portatile, un piccolo amico che pesa
meno di un bimbo appena nato".
L'unico nemico, per la
popolarità di quello che è oggi lo strumento più suonato nel mondo, è in fondo
sè stessa. Quel delirio di onnipotenza che, attraverso il rutilante mondo del
rock e del pop, l'ha portata a farsi elettrica, a riempirsi di effetti speciali,
ad assumere le più improbabili forme, dalla stella alla mannaia. Illusione
suivida, visto che sul piano della tecnologia le tastiere resteranno sempre più
versatili delle corde, perdendo in compenso l'handicap del peso. La chitarra
acustica, insomma, è destinata a rimanere il più popolare degli strumenti
tradizionali. Ma la chitarra elettrica non può che rimetterci, di fronte a
quegli infernali pianini portabili in cui basta premere un tasto, e tutta la
canzone salta fuori da sola. Seguita pure dai relativi applausi
preregistrati...
Maurizio
Stefanini. Romano, 39 anni, laureato
in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista professionista. Collabora con
diversi quotidiani e riviste a carattere nazionale. Ha appena pubblicato,
assieme a Giovanni Negri, I Senzapatria. Avanti rispetto alla politica,
indifferenti alla cosa pubblica, stanchi di un Paese che non funziona. Il
romanzo degli italiani fai-da-te per le Edizioni Ponte alle Grazie. Altri
suoi libri: Struttura e organizzazione del Primo Gruppo Divisioni Alpine,
Fidel Castro, Cinque secoli di storia di Timor
Est.