Edgardo
Sogno
Doppio Sogno o doppio Stato?
(Gianni Barbacetto, da «micromega»
4/2000)
1.
Funerali di Stato
2. Sogno antifascista?
3. Sogno eversore?
4. Sogno golpista
«bianco»
5. Il biennio nero
6.
Destabilizzare per stabilizzare
7.
I volonterosi funzionari del doppio Stato
8. Revisionismo
all’italiana
9.
Bibliografia
1.
Funerali di Stato
Una bara coperta dal tricolore su un affusto di cannone: così, con i
funerali di Stato, si è conclusa nell’agosto 2000 la lunga e
avventurosa vita di Edgardo Sogno Rata del Vallino, per alcuni eroe
partigiano, per altri golpista «bianco», per tutti infaticabile e
irrefrenabile combattente anticomunista. Quei funerali, ad onta di chi
nega l’esistenza del «doppio Stato», ne sono stati l’epifania: la
dimostrazione plastica della sua esistenza, la sua improvvisa
visualizzazione tridimensionale. Lo Stato, in quel giorno estremo, ha
simbolicamente riconosciuto come propria la storia politica e militare di
Sogno, ha rivendicato infine le sue azioni compiute in vita, ha assunto su
di sé la sua carica eversiva. C’è uno Stato che indaga (invano)
sull’eversore dell’ordine costituzionale; e uno Stato che gli tributa
gli onori concessi ai servitori più fedeli: eccolo qui, visibile come mai
prima, il doppio Stato. A poco vale tentare di distinguere tra un
Sogno comandante partigiano, eroe della Resistenza, e un Sogno difensore
dell’ordine atlantico anche oltre e contro la Costituzione; a poco serve
sostenere che solo al primo quegli onori sono stati tributati. Non c’è
un doppio Sogno: uno è il personaggio, una la sua storia, una
l’ispirazione di ogni sua battaglia - dalla giovanile partecipazione
alla guerra di Spagna a fianco dei fascisti, fino agli ultimi ansiosi
appelli prima della morte. Così i funerali di Stato sono stati
inevitabilmente, perfino al di là delle intenzioni di chi li ha concessi,
la solenne certificazione che la storia di Sogno è tutta dentro questo
Stato, che la guerra sotterranea combattuta nei decenni scorsi, anche
oltre e contro la Costituzione, è «guerra di Stato». Vi era un
precedente: i funerali di Stato concessi a Randolfo Pacciardi, il
cui massimo merito istituzionale era quello di essere stato
sotterraneamente scelto per diventare il presidente «forte» della «nuova
Repubblica» progettata da Sogno. Ma almeno Pacciardi era stato ministro,
e a concedergli quegli onori era stato il presidente Francesco Cossiga,
in un contesto internazionale ancora di scontro tra i blocchi. Oggi a
tributare il supremo omaggio a Sogno è invece il capo di un governo di
centrosinistra, e a oltre dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino. Così
quei funerali hanno detto perfino di più: il contesto violentemente
polemico in cui sono stati celebrati, le innumerevoli voci, anche
sguaiate, provenienti dalla politica, la massiccia e corriva copertura dei
media hanno dimostrato che la storia di Sogno non è storia passata, che
la sua guerra non è finita, che i fantasmi della sua ossessione sono
ancora tra noi. In un Paese normale, la morte di un personaggio come Sogno
all’ingresso del terzo millennio sarebbe stata rapidamente archiviata,
anche dagli osservatori più benevoli, come la scomparsa dalla scena di un
uomo del passato, che aveva coltivato vecchie ossessioni e le aveva
mantenute vive ormai fuori dal loro contesto: un soldato giapponese
a cui nessuno aveva detto che la guerra era finita. E invece: quanti elogi
della sua «attualità». Quanti sedicenti «liberali» a intesserne le
lodi. Il problema, allora, non è Sogno. Nel suo nome si è evidentemente
giocata una partita ancora aperta. Ripercorrere e comprendere vita, opere,
miracoli, trasfigurazione e morte di Edgardo Sogno Rata del Vallino può
servire dunque a capire qualcosa di questa partita, dentro cui ancora
siamo.
^
2. Sogno antifascista?
C’è un Sogno antifascista, coraggioso comandante partigiano, mitico
eroe di Radio Londra, medaglia d’oro della Resistenza. Gliel’hanno
concesso anche gli avversari e, del resto, come negarlo? Coraggioso fino
al limite estremo dell’incoscienza, si cimentò anche in imprese
impossibili, come la liberazione di Ferruccio Parri a Milano.
Un’avventura che si sarebbe certamente conclusa con l’uccisione di
Sogno, se non fosse stata tentata in un momento in cui i tedeschi, ormai
in difficoltà, erano pronti anche ad accettare e cercare scambi con gli
Alleati. Ma per capire il comandante della Franchi è necessario uscire
dalla scala di valori di quella cultura europea che si è costruita
sull’asse fascismo-antifascismo. Sogno è fascista? è antifascista? Ha
poco senso porre così la domanda. Su un altro asse egli si muove e compie
le sue scelte cruciali: l’asse Occidente-Comunismo. Sogno (come altri
personaggi del suo contesto: l’Yves Guerin Serac dell’Aginter
Press, per esempio; o il Carlo Fumagalli che come Sogno è stato
insignito dagli Alleati della Bronze Star, e poi negli anni Settanta ha
costituito in Valtellina l’eversivo Movimento Armato Rivoluzionario) è
innanzitutto un guerriero dell’Occidente, un combattente atlantico, un
irriducibile nemico del Comunismo. Fascismo e antifascismo non sono per
Sogno scelte di civiltà, ma strumenti da usare o da riporre, di volta in
volta, a seconda delle convenienze storiche contingenti. Così il giovane
Sogno inaugura la sua avventurosa vita combattendo come volontario a
fianco di falangisti e fascisti, nella guerra civile spagnola scatenata da
Francisco Franco contro la legittima Repubblica che era stata
scelta dai cittadini con il voto: senza Franco, la Spagna sarebbe uscita
dal campo occidentale e scivolata nel campo comunista sovietico, dunque
per Sogno era utile e anzi necessaria una forzatura armata, anche contro
la legittima volontà popolare che si era espressa nelle urne. E così
l’ultimo atto pubblico della vita di Sogno sarà la sua candidatura
nelle liste elettorali degli ex fascisti di Alleanza Nazionale. Tra queste
due esperienze, la parentesi della Resistenza: ma non in nome
dell’antifascismo, quanto invece della lealtà all’Occidente, che
aveva deciso di sconfiggere la Germania dell’antioccidentale Hitler.
Suoi punti di riferimento durante l’esperienza partigiana della Franchi
sono la monarchia sabauda e, ancor più, gli alti comandi alleati. Gli
inglesi sono i suoi referenti immediati, hanno sempre un messaggio
speciale per lui nelle trasmissioni di Radio Londra e privilegiano la sua
formazione armata con numerosi e ricchi lanci di armi e materiali. Quanto
al fascismo, Sogno non lo ha mai sentito come radicalmente diverso da sé.
Tanto da dichiarare, negli anni Settanta, che «il primo squadrismo
fascista del ’19 e del ’20 è degno di encomio, in quanto fu capace di
rintuzzare la tracotanza rossa». Ma perfino il nazismo, alla fine, non lo
inorridiva troppo, tanto che nel 1999 Sogno si presentò a Torino al
processo contro Theo Saevecke, l’ufficiale tedesco responsabile
dell’eccidio dei martiri di piazzale Loreto a Milano e di tanti altri
crimini contro partigiani, civili, ebrei: Sogno fu testimone della difesa
di Saevecke, che poi per i suoi delitti fu condannato all’ergastolo.
^
3.
Sogno eversore?
Un soldato, un combattente. Il conte Sogno Rata del Vallino ha il
suo battesimo del fuoco nella guerra di Spagna. Poi nella guerra di
Liberazione diventa leggendario come comandante dei partigiani bianchi
della Franchi. Nel dopoguerra il suo ruolo diventa più defilato, la sua
attività più sotterranea, ma non meno intensa. Ufficialmente Sogno, che
ha intrapreso la carriera diplomatica, è nei ruoli del ministero degli
Affari esteri; ma lavora anche per il ministero dell’Interno: soldato
dell’armata invisibile che deve combattere la guerra non dichiarata
contro il comunismo - anche oltre e contro la Costituzione. Negli anni
Cinquanta nascono organismi deputati, a diversi livelli di segretezza e di
operatività, alla lotta contro il comunismo. Sorgono organizzazioni
segrete per la «guerra non ortodossa», quali quelle previste dalla
pianificazione Nato Stay behind (Gladio). Prima ancora, nel
settembre 1951, il Consiglio dei ministri istituisce presso il ministero
dell’Interno una Direzione generale dei Servizi di difesa civile, con la
facoltà di avvalersi anche di «elementi volontari». Più volte portata
in Parlamento, la legge sulla Difesa civile non otterrà mai
l’approvazione definitiva, a causa dell’opposizione delle sinistre,
per le quali il vero scopo dei «volontari» sarebbe stato l’intervento
contro i comunisti, le manifestazioni di piazza e gli scioperi. Ma
organismi di «difesa civile», segreti e senza copertura parlamentare,
sono messi ugualmente in funzione. E Sogno in essi ha un ruolo importante.
Lo ammette egli stesso, in una lettera datata 12 agosto 1969 e inviata
all’allora ministro degli Esteri Aldo Moro per lamentare i
rallentamenti subiti nella carriera diplomatica a causa proprio
dell’attività riservata svolta per il ministero dell’Interno: «Fin
dal 1949 l’onorevole Scelba, allora ministro dell’Interno, mi
interpellò per conoscere se avrei accettato un incarico che avrebbe
comportato il distacco presso il ministero dell’Interno (organizzazione
del progettato Servizio di Difesa civile)». Sogno, in quella prima
occasione, rifiuta. Ma accetta la seconda offerta: «Nel luglio del 1953,
per iniziativa della presidenza del Consiglio (Governo Scelba) mi
veniva nuovamente proposto un incarico di carattere eccezionale e
riservato (organizzazione della difesa psicologica delle istituzioni
democratiche) in ripresa di una operazione avviata nel 1948 per iniziativa
del ministro Sforza nel quadro dell’attività svolta in base al
piano Marshall. Accettai tale incarico». E ancora: «L’azione svolta
per il tramite del comitato da me organizzato ebbe tre fasi principali: in
un primo periodo (fino all’ottobre 1954) essa si concretò nella
realizzazione del progetto che gli onorevoli De Gasperi e Pella
avevano ripetutamente sostenuto in Consiglio atlantico e consistente nel
contrapporre l’azione degli organi promotori e coordinatori della
propaganda occidentale alla costante iniziativa sovietica nel campo della
informazione. Nel secondo periodo (ottobre 1954 - giugno 1955) il comitato
assolse funzioni specifiche nel quadro dei provvedimenti adottati dal
Governo Scelba per la difesa delle istituzioni, assumendo compiti di punta
che non potevano essere affidati a organi governativi. Nel terzo periodo
(dopo il giugno 1955) il comitato ridusse progressivamente l’azione
esterna per concentrarsi su compiti di carattere riservato sempre nel
campo della difesa psicologica. Durante questo servizio prestato alle
dirette dipendenze della presidenza del Consiglio e in collaborazione con
i ministeri dell’Interno e della Difesa, rimasi nei ruoli del ministero
Esteri». La spiegazione del rifiuto che Sogno oppone alla prima offerta
è contenuta in un fascicolo della divisione Affari riservati del
ministero dell’Interno (il servizio segreto civile, progenitore del
Sisde): in una vecchia nota classificata «riservatissima», si dà conto
delle «idee politiche del conte Sogno», il quale è «convinto che il
popolo italiano ama la forza» ed è, appunto, «persuaso inoltre che il
primo squadrismo fascista del ’19 e del ’20 sia degno di encomio, in
quanto fu capace di rintuzzare la tracotanza rossa»; Sogno è tanto
convinto di ciò, che «tenta di rimettere in piedi uno squadrismo
“democratico”, capace di difendere gli ideali cristiani e democratici
contro l’assolutismo comunista»; «nel 1948», ribadisce la nota dei
servizi, «l’onorevole Scelba gli offrì la direzione della Difesa
civile, ma egli rifiutò perché la Difesa civile doveva entrare in azione
soltanto nel caso che i comunisti tentassero un’azione di forza e
(secondo le sue opinioni) non si possono galvanizzare gli uomini soltanto
per un’occasione sola, che potrà anche non verificarsi. Occorre invece
uno squadrismo risoluto e attaccabrighe, capace di prendere l’iniziativa
e non di servire da semplice reazione». Eccolo, l’antifascista Sogno:
appena smessa la divisa partigiana rimpiange «lo squadrismo del ’19 e
del ’20» e sogna un nuovo «squadrismo risoluto e attaccabrighe».
Cercherà di realizzarlo nel movimento Pace e Libertà. Rifiutata nel
1948-49 la Difesa civile perché troppo «morbida», accetta la seconda
offerta di Scelba, nel 1953: s’impegna a organizzare la sezione italiana
del movimento anticomunista transnazionale Paix et Liberté, con compiti
di «contropropaganda» o «guerra psicologica», affidati nel
dopoguerra nei Paesi dell’Occidente in parte a organismi istituzionali
(esercito, servizi...) e in parte a civili, «irregolari» collegati e
controllati da settori istituzionali. Quando, nel giugno 1953, su incarico
del governo francese, arriva a Roma il presidente di Paix et Liberté, Jean
Paul David, il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, insieme al
Capo di Stato maggiore e al Capo della Polizia gli comunicano
ufficialmente la costituzione della sezione italiana di Pace e Libertà,
diretta da Edgardo Sogno. Il ministro degli Esteri Giuseppe Pella, con
lettera protocollata il 18 febbraio 1954 scrive al ministro dell’Interno
Amintore Fanfani: «Nel settembre u.s. si è costituita poi a Milano, via
Palestro n. 22, una sezione italiana di tale movimento. (...) La sezione
italiana di Pace e Libertà è diretta dalla medaglia d’oro Edgardo
Sogno Rata, funzionario del ministero degli Affari esteri in aspettativa
(...). Ti sarò perciò assai grato se vorrai esaminare la possibilità di
rivolgere la Tua attenzione a Pace e Libertà in Italia, alla quale il
ministero degli Affari esteri già fornisce assistenza nei limiti delle
proprie possibilità e competenze (informazioni dai Paesi d’oltre
cortina, giornali, etc.) ma che, per la sua particolare e utile attività
all’interno conviene possa far capo anche al Tuo Dicastero».
L’organizzazione è formalmente privata, ma la copertura è
istituzionale. I finanziamenti giungono, secondo le tracce rimaste in
alcune relazioni dei servizi, dagli industriali del Nord, Fiat, Viberti,
Pirelli, con la mediazione dell’Ufficio Rei - Ricerche economiche e
industriali - del Sifar, comandato dal colonnello Renzo Rocca (che
poi morirà, in un suicidio rimasto misterioso). Un funzionario del Sifar,
Vittorio Avallone, racconterà in seguito, in una testimonianza resa al
pretore Raffaele Guariniello, gli intensi rapporti intercorsi tra
servizi, Fiat e Pace e Libertà, anche attraverso il provocatore Luigi
Cavallo, per qualche tempo al fianco di Sogno nel suo movimento. Nel
gennaio 1956, secondo una relazione dell’ufficio Affari riservati del
ministero dell’Interno, si svolge a Milano un congresso internazionale
dei comitati Paix et Liberté, con la partecipazione di rappresentanti di
Italia, Francia, Belgio, Svizzera, Olanda, Germania. «I rappresentanti di
altri comitati, non potuti intervenire», scrive la relazione, «hanno
fatto pervenire messaggi di solidarietà e di augurio. (...) I
congressisti, pur tenendo conto delle particolari modalità di azione
dipendenti dalla situazione politica dei vari Paesi, hanno convenuto che,
in vista dei continui progressi del bolscevismo in tutto il mondo, e poiché
il comunismo rappresenta un grave pericolo per le istituzioni fondamentali
degli Stati democratici, occorre promuovere un anticomunismo di Stato».
è il «doppio Stato» al lavoro: per salvare dal pericolo comunista la
democrazia, si infliggono ferite alla democrazia, promuovendo
organizzazioni segrete che si muovono fuori e contro ciò che è permesso
e stabilito dalla Costituzione democratica. Ma qual era, in concreto,
l’attività dei gruppi di Sogno? Si limitavano alla propaganda
anticomunista? In una circolare interna del luglio 1954 inviata alle
sezioni provinciali vengono chiariti i compiti dell’organizzazione: «Raccogliere
gli indirizzi degli attivisti di tutte le organizzazioni cominformiste (Pci,
Cgil, Udi, Fgci ecc.). Iscrivere su un “libro nero” tutti gli elementi
comunisti che occupano posti di responsabilità nell’amministrazione
pubblica e nelle principali aziende, con scheda biografica per ognuno di
essi. Costruire una rete informativa anticomunista in tutta la provincia,
rete che deve essere clandestina e assolutamente indipendente
dall’organizzazione. Formare una squadra con compiti speciali». Siamo
evidentemente fuori dalla legalità democratica. Schedatura dei comunisti,
organizzazione clandestina e compartimentata. E quali saranno i «compiti
speciali»? E i «compiti di punta che non potevano essere affidati a
organi governativi», di cui Sogno accenna nella sua lettera a Moro,
hanno forse a che fare con quello «squadrismo risoluto e attaccabrighe»
inseguito da Sogno? Una relazione dell’aprile Una relazione
dell’aprile 1954 contenuta nel fascicolo su Pace e Libertà custodito
presso gli Affari riservati conferma che «l’opera di propaganda e di
forza del movimento Pace e Libertà esorbita dalle limitazioni osservate
da analoghe organizzazioni (...) ponendosi su un piano di lotta aperta ed
a oltranza, con organizzazione paramilitare. (...) Il “centro
sicurezza” raccoglie gruppi di ex partigiani autonomi, nonché di
giovani volontari di Pace e Libertà, organicamente costituiti in reparti
da impiegarsi in azione controrivoluzionaria, qualora il potere dovesse
passare in mano alle sinistre, anche se ciò dovesse, malauguratamente,
avvenire attraverso consultazioni elettorali». L’estensore del rapporto
racconta: «L’accesso ai locali è inibito a chicchessia. Essendo
accompagnato dal Sogno, ho potuto personalmente rendermi conto della
elevata efficienza della organizzazione». E conclude con quattro punti:
primo, «il Sogno ha preso diretto contatto, recentemente, con il
presidente del Consiglio, onorevole Scelba. Dell’esito di tale contatto
egli ha trasmesso una succinta, ma delicata, relazione alle autorità
dalle quali dipende»; secondo, «il Sogno opera con la piena
autorizzazione del ministero degli Esteri italiano»; terzo, «l’organizzazione
Pace e Libertà è validamente sostenuta da potenti erogazioni finanziarie
provenienti da gruppi industriali del Nord»; quarto, «il Sogno gode di
un certo appoggio di elementi dell’Ambasciata americana (segreteria
Signora Luce)».
^
4.
Sogno golpista «bianco»
Il combattente Sogno, dopo l’esperienza di Pace e Libertà,
rientra nei ranghi e nel ruolo del ministero degli Affari esteri e passa
alcuni anni fuori dall’Italia come diplomatico in Birmania. Rientra in
patria nel 1970 e subito fonda i Comitati di Resistenza Democratica.
Sostiene di essere tornato in Italia «in un momento eccezionale, in
obbedienza a un dovere morale». Il momento, effettivamente, è
eccezionale: la strage di piazza Fontana, nel dicembre 1969, ha appena
dato il via alla cosiddetta «strategia della tensione», che nella mente
dei suoi ideatori avrebbe dovuto portare a un cambiamento istituzionale e
a una svolta autoritaria. Quelli dal 1970 al ’74 sono gli anni più
intensi della «guerra non ortodossa», teorizzata e preparata da un
convegno, il noto incontro del 1965 all’Hotel Parco dei Principi a Roma,
organizzato dai servizi e dallo Stato Maggiore della Difesa con la
partecipazione di alcuni leader del neofascismo italiano. All’avvio
della fase della «distensione» tra Est e Ovest, i promotori del convegno
(e della «guerra non ortodossa») sostengono che il comunismo non si sta
«aprendo», ma sta soltanto utilizzando tecniche più sofisticate per
penetrare in Occidente. Il nemico è il «dialogo», considerato il
cavallo di Troia del comunismo nell’Occidente. Il pericolo è alle
porte, dunque, e in un momento di rischio eccezionale per l’Italia
bisogna rispondere con mezzi adeguati ed energie eccezionali. Dopo il 1968
degli studenti e il ’69 degli operai, la società italiana si è
spostata a sinistra e il Pci potrebbe conquistare il potere per via
elettorale. Diversi centri si attivano per scongiurare il pericolo: alcuni
ruotano attorno agli ambienti della destra estrema, altri attorno agli
apparati statuali e agli ambienti atlantici. Il fine, per tutti, è unico:
impedire comunque l’arrivo dei comunisti al potere, con ogni mezzo. Le
tattiche sono diverse: alcuni, come gli uomini raccolti attorno al
principe Junio Valerio Borghese, puntano al golpe classico, con
forti tinte neofasciste; altri, come Sogno e Pacciardi, progettano una
svolta presidenzialista e gollista per dare all’Italia un «governo
forte» e una «Seconda Repubblica»; altri ancora ritengono che sia
sufficiente minacciare il golpe per mantenere e consolidare gli equilibri
e ritengono che azioni anche violente di disordine possano essere giocate
come carta per ottenere una generalizzata richiesta d’ordine («destabilizzare
per stabilizzare»). Sogno si getta nella mischia. Ristabilisce i contatti
con i vecchi partigiani bianchi della Franchi. Sono con lui Angelo
Magliano, Aldo Cucchi, Rino Pachetti, Andrea Borghesio ed Enzo Tiberti
(di cui, molti anni dopo, sarebbe emersa l’appartenenza alla struttura
Gladio). Insieme preparano un progetto presidenzialista. Sostenitori e
finanziamenti non mancano. Dichiarerà anni dopo il direttore delle
relazioni esterne della Fiat, Vittorino Chiusano, al giudice
istruttore di Torino Luciano Violante: «Nel 1970 o 1971, non
ricordo bene, il dottor Sogno venne nel mio ufficio esponendomi la
necessità di un finanziamento per svolgere un’azione politica che mi
sembrava interessante nei confronti del Pli. Sostanzialmente si trattava
di fare di questo partito l’elemento catalizzatore della destra
democratica anche per sbloccare i voti congelati nel Msi. Il discorso mi
è sembrato valido e ho disposto il versamento di contributi per lo
svolgimento di questa attività». Dalla sola Fiat, Sogno riceve tra il
1971 e il 1974 almeno 187 milioni dell’epoca, che gli servono, secondo
le dichiarazioni di Chiusano, per «conquistare» il Pli e «aprire» al
Msi. Il 30 maggio 1970 nascono ufficialmente i Comitati di Resistenza
Democratica: nell’abitazione dell’architetto Guglielmo Mozzoni,
a Biumo di Varese, presente «una trentina di ex partigiani democratici»,
secondo il racconto dello stesso Sogno. Nel programma in dieci punti
stilato quel giorno si legge: «La crisi che si presenta come certa, anche
se a un’epoca non ancora precisabile, è una crisi profonda dello Stato
e delle istituzioni. Essa costituisce una svolta, un punto limite oltre il
quale viene a mancare la base di legittimità su cui la Repubblica è
stata fondata». Per questo si rende necessario «ristabilire il carattere
democratico, occidentale e nazionale del regime». «Al momento della
crisi rappresenteremo l’unica alternativa con una preparazione e una
legittimità per la fondazione della seconda Repubblica». Al Comitato di
Sogno aderiscono due stranieri eccellenti: John McCaffery Junior,
il figlio dell’uomo che nel 1943-45 guidò da Ginevra i servizi segreti
inglesi in Italia, ed Edward Philip Scicluna, che durante la guerra
fu paracadutato tra i partigiani come ufficiale di una missione inglese e
divenne poi capo della Divisione Lavoro della Commissione Alleata in
Piemonte. Nel 1970 Scicluna era direttore generale della Fiat Agency and
Head Office a Malta. Ha contatti con Sogno anche Hung Fendwich, ingegnere
americano dirigente dell’industria elettronica Selenia, considerato
eminenza grigia della Cia in Italia e intermediario tra il presidente Usa Richard
Nixon e il principe golpista italiano Junio Valerio Borghese. Al
pubblico, il movimento di Sogno è presentato il 20 giugno 1971. Sono
appena state aperte le urne delle elezioni amministrative parziali del 13
giugno, in cui l’estrema destra ha avuto un buon risultato elettorale.
Sogno proclama: «Si avvicina il momento in cui sono necessarie soluzioni
che non rientrano più nella meschinità del calcolo e del dosaggio
politico ordinario, il momento in cui fatalmente prevale chi sa concepire
una comunità più ricca di motivi ideali, una società fondata su valori
morali più generosamente e generalmente sentiti». Nell’ottobre
successivo, un gruppo di medaglie d’oro della Resistenza iscritte alla
Fivl, la Federazione Italiana Volontari della Libertà, firma un appello
contro i «frontismi estremi» e a favore di Edgardo Sogno. Nel gennaio
1972 inizia le pubblicazioni la rivista Resistenza Democratica: editore è
Enzo Tiberti, ex partigiano delle Brigate Garibaldi, iscritto al
Pci fino al 1948, poi passato al fronte anticomunista ed entrato nel 1960
nelle file di Gladio. Il primo numero della rivista ha articoli firmati,
tra gli altri, da Massimo De Carolis, da Aldo Cucchi, dal
generale Sabatino Galli. Sul secondo numero di Resistenza
Democratica il giornalista televisivo Enzo Tortora scrive sulle «follie
del dittatore-attore Fidel Castro» e compaiono anche articoli in
favore del Movimento nazionalista ucraino che si rifà al governo
filonazista di Jaroslav Stetzko. A una delle manifestazioni del
Comitato, il 28 febbraio 1972 al teatro Odeon di Milano, accanto a Sogno
ci sono il massone Aldo Cucchi, il solito Massimo De Carolis
e un socialdemocratico che farà strada: Paolo Pillitteri. Nel
frattempo si riavvicina a Sogno anche Luigi Cavallo, che aveva già
collaborato con lui negli anni Cinquanta, ai tempi eroici di Pace e Libertà.
Nel settembre 1973, all’indomani del golpe del generale Pinochet in
Cile, Sogno commenta: «Nel caso del Cile è ingiusto e disonesto accusare
i militari di aver ucciso la democrazia». Nel novembre successivo,
parlando a Milano, afferma: «In momenti come questi non possiamo lasciare
il nostro destino e quello dei nostri figli nelle mani di politici di
mestiere che hanno perso il senso della storia e si sono rassegnati al
peggio. Nei momenti decisivi per questo Paese noi abbiamo sempre avuto
piccole minoranze, uomini singoli che sono intervenuti e che hanno assunto
la responsabilità della guida morale e delle grandi decisioni. Di fronte
alla situazione in cui stiamo scivolando, l’intelligenza e il mestiere
politico non sono più sufficienti». E ancor più chiaramente: «La
ripresa di un cammino ascendente nello sviluppo economico, sociale e
politico del Paese è impossibile senza una rottura della continuità con
l’attuale regime, senza una radicale modificazione dell’attuale quadro
politico e senza il totale ricambio dell’attuale classe politica». Con
il passare dei mesi, si accentuano i caratteri eversivi del movimento e si
riducono le distanze tra le due ali del «partito del golpe» che è al
lavoro in Italia: molti partigiani abbandonano Sogno, che si avvicina
invece agli uomini del principe Borghese, come Remo Orlandini; e Andrea
Borghesio, amico personale di Sogno e sostenitore del suo progetto fin
dalla prima ora, entra nell’esecutivo piemontese del Fronte Nazionale di
Borghese, fianco a fianco con il neonazista Salvatore Francia, capo
piemontese di Ordine Nuovo. Sogno dunque, per sua stessa ammissione,
lavora per la «rottura», per «una radicale modificazione» del quadro
politico. Progetta un piano eversivo che sarebbe dovuto scattare mentre le
grandi fabbriche erano chiuse e l’Italia era in vacanza, tra il 10 e il
15 agosto 1974. Prepara un’azione, anche armata, che sarebbe
scattata in caso di vittoria elettorale delle sinistre. Un «golpe bianco»,
anticomunista e liberale, un’azione «violenta, spietata e rapidissima».
Secondo le dichiarazioni di Luigi Cavallo, avrebbe dovuto essere «un
golpe di destra con un programma avanzato di sinistra, che divida lo
schieramento antifascista e metta i fascisti fuori gioco». Un colpo
organizzato «con i criteri del Blitzkrieg: sabato, durante le ferie, con
le fabbriche chiuse ancora per due settimane e le masse disperse in
villeggiatura». Conseguenze immediate: lo scioglimento del Parlamento, la
costituzione di un sindacato unico, la formazione di un governo
provvisorio espresso dalle Forze Armate, che avrebbero dovuto attuare un
«programma di risanamento e ristrutturazione sociale del Paese», una
riforma elettorale-costituzionale da sottoporre a referendum,
l’attuazione di una politica sociale avanzata che consentisse «il
rilancio dello sviluppo economico». La lista del nuovo «governo forte»
era pronta. Presidente del Consiglio: Randolfo Pacciardi;
sottosegretari alla presidenza del Consiglio: Antonio de Martini e
Celso De Stefanis; ministro degli Esteri: Manlio Brosio;
ministro dell’Interno: Eugenio Reale; ministro della Difesa: Edgardo
Sogno; ministro delle Finanze: Ivan Matteo Lombardo; ministro
del Tesoro e del Bilancio: Sergio Ricossa; ministro di Grazia e
Giustizia: Giovanni Colli; ministro della Pubblica istruzione: Giano
Accame; ministro dell’Informazione: Mauro Mita; ministro
dell’Industria: Giuseppe Zamberletti; ministro del Lavoro: Bartolo
Ciccardini; ministro della Sanità: Aldo Cucchi; ministro della
Marina mercantile: Luigi Durand de la Penne. Il governo di tecnici
imposto dal «golpe bianco» sarebbe stato legittimato davanti
all’opinione pubblica - nei progetti dei suoi strateghi - dalla
contemporanea messa fuori legge del Msi e dei gruppi extraparlamentari di
destra e di sinistra: ciò avrebbe dovuto garantire una sorta di
equidistanza politica. La fine dell’immunità parlamentare e un
tribunale speciale per i politici, accusati di essere corrotti e incapaci,
avrebbero dovuto infine assicurare consenso al «rinnovamento» e una
legittimazione «morale» alla svolta eversiva, presentata come intervento
necessario per salvare il Paese
^
5.
Il biennio nero
In quegli anni cruciali, tra il 1970 e il ’74, in Italia dunque si muove
un grande, composito, non privo di conflitti «partito del golpe». Il
principe Junio Valerio Borghese prepara un colpo di Stato,
sostenuto dai movimenti neonazisti italiani, Ordine Nuovo di Pino Rauti
e Avanguardia Nazionale di Stefano Delle Chiaie, appositamente
riuniti sotto la nuova sigla Fronte Nazionale. Per una cruciale «ora x»
del 1973 erano pronti a scattare anche i congiurati, militari e civili,
della Rosa dei Venti. E per l’agosto 1974 era programmato il «golpe
bianco» di Sogno. Le stragi, in questo contesto, sono progettate come
momenti di disordine, da addebitare ai «rossi», affinché il Paese
reagisca chiedendo che venga ristabilito l’ordine. L’«ora x» non
scatta, ma nel «biennio nero» ’73-’74 scattano molte azioni
progettate e realizzate come preparatorie al golpe: 7 aprile 1973,
attentato al treno Torino-Genova (fallito per l’imperizia
dell’attentatore, l’ordinovista Nico Azzi, che si ferisce con
l’innesco della sua bomba); 12 aprile 1973, manifestazione fascista a
Milano con uccisione di un agente di polizia, colpito da una bomba a mano;
17 maggio 1973, strage alla questura di Milano, per mano del falso
anarchico Gianfranco Bertoli (quattro morti, 46 feriti); 28 maggio
1974, strage di piazza della Loggia a Brescia (otto morti, 94 feriti); 4
agosto 1974, strage dell’Italicus (12 morti, 48 feriti). Brescia e
Italicus fanno parte di un programma di quattro stragi, due delle quali, a
Silvi Marina vicino a Pescara e a Vaiano in Toscana, sono fallite. Ma in
tutta Italia sono centinaia gli attentati minori che vanno a segno.
Intanto in Valtellina erano pronte le truppe armate di un altro partigiano
bianco, Carlo Fumagalli. Pronta a Milano la «Maggioranza
silenziosa» di Adamo Degli Occhi e Massimo De Carolis, il cui
compito era dare sostegno di piazza all’attesa svolta istituzionale.
Pronto anche il gruppo armato di Giancarlo Esposti, che stava forse
preparando un clamoroso attentato a Roma quando, abbandonato da chi gli
aveva promesso sostegno e copertura, viene abbattuto in un conflitto a
fuoco al Pian del Rascino, il 30 maggio 1974. A tutta questa fittissima
attività eversiva non erano estranei gli apparati istituzionali italiani
e i centri informativi della Nato e degli Stati Uniti, che sapevano,
tolleravano, vigilavano, ora spingevano, ora frenavano. Senza quella guida
e quella tolleranza, il grande circo dell’eversione non serebbe durato
più di qualche mese. Nel 1974, però, la svolta. Cambia il quadro
internazionale, finisce (sotto i colpi dello scandalo Watergate)
l’amministrazione Nixon negli Stati Uniti, cade il regime di Caetano
in Portogallo e quello dei colonnelli in Grecia. In Italia, dentro
gli apparati e nella politica, arriva alla resa dei conti lo scontro
feroce tra un’ala più tradizionalmente filogolpista (a cui apparteneva,
tra gli altri, il capo del Sid Vito Miceli) e un’ala più
disposta a un cambiamento dei metodi della «guerra non ortodossa»
(incarnata dal capo dell’Ufficio D del Sid Gianadelio Maletti e
dal suo punto di riferimento politico, Giulio Andreotti). Durante
questa durissima guerra intestina, nel 1974, anno cruciale, si aprono
alcuni spiragli sulla verità: i magistrati di Milano Gerardo
D’Ambrosio ed Emilio Alessandrini danno nuovo impulso alle
indagini sulla strage di piazza Fontana, coinvolgendo direttamente anche
l’informatore del Sid Guido Giannettini; un giovane giudice di
Padova, Giovanni Tamburino, scopre il piano eversivo della Rosa dei
Venti e fa arrestare addirittura il capo del Sid, Miceli; a Torino il
giudice istruttore Luciano Violante apre un’inchiesta sul «golpe
bianco» che farà finire in carcere Edgardo Sogno. Dura pochi mesi. Poi
gli apparati e la politica tornano a garantire impunità per tutti, mentre
la macchina giudiziaria disinnesca le tre indagini, strappate dalla
Cassazione ai magistrati che le avevano avviate. Quella di Milano è
spedita a Catanzaro, quelle di Padova e Torino a Roma, dove si
bloccheranno per sempre.
^
6.
Destabilizzare per stabilizzare
Edgardo Sogno, per la verità, non ha mai negato di aver lavorato
per una svolta istituzionale. Anzi, lo ha più volte rivendicato con
orgoglio. Egli stesso, nel marzo 1997, rende pubblica la lista dei «suoi»
ministri. Che non stesse scherzando è poi garantito da una parte degli
apparati di Stato e della politica. Un rapporto del Reparto D del Sid,
realizzato dal colonnello Sandro Romagnoli e dal capitano Antonio
Labruna, conferma che nel periodo compreso tra il 10 e il 15 agosto
1974 si sarebbero realizzati «atti eversivi non meglio precisabili tra i
quali però sarebbero rientrati: un’azione di forza in direzione del
Quirinale; imposizione al Presidente Leone di profonde
ristrutturazioni delle istituzioni dello Stato e formazione di un governo
di tecnici con a capo Randolfo Pacciardi. L’azione verso il
Quirinale dovrebbe essere capeggiata da tale Salvatore Drago, che
potrebbe personalmente contare anche su un consistente gruppo di
appartenenti alla Ps; gli atti eversivi dovrebbero determinare come scopo
finale l’intervento di imprecisati reparti militari favorevoli
all’eversione». Andreotti, allora ministro della Difesa,
conferma: dichiara infatti subito al giudice Violante di aver
ricevuto dal Sid documentazione sui piani eversivi in preparazione e,
rilevato che «l’entità del pericolo esigeva iniziative immediate»,
aveva ordinato al capo del Sid, il generale Miceli, di informare
immediatamente Polizia e Carabinieri. Miceli aveva eseguito: il 10
luglio 1974 aveva consegnato al comandante generale dell’Arma dei
Carabinieri, generale Enrico Mino, e al capo dell’Ispettorato
Antiterrorismo, Emilio Santillo, un appunto nel quale si informava
dell’iniziativa eversiva e si comunicavano i nomi di Ricci, Drago,
Pacciardi, Sogno. Il generale Mino conferma a Violante di aver
inoltrato ai comandi territoriali dei Carabinieri due successive
disposizioni con le quali si ordinavano dispositivi di vigilanza, da
rafforzare ulteriormente nei giorni prefestivi e festivi e durante le ore
notturne. La seconda disposizione, emanata il 22 luglio, fu decisa,
afferma Mino, perché era stato informato «che i programmi eversivi che
mi erano stati comunicati si stavano traducendo nei giorni successivi in
azioni concrete». Il 10 agosto il generale Igino Missori,
comandante della divisione dei Carabinieri Podgora, competente
sull’Italia centrale e dunque su Roma, aveva impartito l’ordine di
predisporre un ulteriore contingente armato per un eventuale impiego nei
giorni festivi e nelle ore notturne. Contemporaneamente, il capo della
Polizia Efisio Zanda Loy aveva disposto un aumento del contingente
armato di stanza al Quirinale e nella tenuta presidenziale di
Castelporziano, scegliendo «guardie particolarmente addestrate alla
difesa personale e al tiro con le armi». Qualche generale (Piero
Zavattaro Ardizzi, Luigi Salatiello, Giuseppe Santovito) era stato
cambiato in fretta di posto, a quanto testimonia Andreotti, il quale
sostiene di aver deciso di «operare subito qualche spostamento in punti
cruciali per togliere eventuali collegamenti». Tutti i protagonisti di
questa pochade, in realtà, sembrano muoversi in modo ambiguo, tenendo i
piedi in più scarpe; nessuno (neppure Andreotti, che a posteriori dice di
essersi mosso) denuncia pubblicamente le manovre eversive. Comunque al
golpe vero e proprio non si giunge, ma nello stesso tempo i responsabili
degli atti eversivi sono di fatto coperti e protetti. «Destabilizzare per
stabilizzare»: alla svolta del 1974 l’obiettivo è raggiunto.
^
7.
I volonterosi funzionari del doppio Stato
Dopo il ’74 il «partito del golpe» si scioglie o, meglio, cambia
tattica. Abbandonata quella dello scontro frontale, si avvia a praticare
nelle mutate condizioni internazionali, politiche e sociali una più
raffinata, foucaultiana occupazione dei centri di potere, coordinandosi in
quel club dell’oltranzismo atlantico noto come Loggia P2. Continuità e
cambiamento: tutti i protagonisti della dura stagione passata alla storia
come «strategia della tensione», compreso Sogno, li ritroviamo nelle
liste della loggia di Licio Gelli, che del «partito del golpe»
aveva fatto parte, con ruoli non marginali; tutti gli elementi salienti di
programma del «golpe bianco» passano nel gelliano Piano di Rinascita
Democratica; e Sogno compare anche nella vicenda Sindona: con Gelli, John
McCaffery, Philip Guarino, Carmelo Spagnuolo e Anna Bonomi Bolchini è
tra i firmatari degli «affidavit» al bancarottiere, le dichiarazioni
giurate che chiedevano alla magistratura americana di non estradare Michele
Sindona in Italia, poiché qui era perseguitato dalla giustizia in
quanto anticomunista. Intanto la vicenda giudiziaria di Sogno si risolve
felicemente. Un mese e mezzo di carcere; i servizi e il governo che
oppongono il segreto di Stato su molti dei documenti che lo riguardano; il
trasferimento del procedimento a Roma; la richiesta di proscioglimento del
pubblico ministero, il 7 dicembre 1977, per insufficienza di prove; la
dichiarazione del giudice istruttore, il 12 settembre 1978, di non doversi
procedere per le attività eversive di Sogno e dei suoi coimputati «perché
il fatto non sussiste». Negli anni seguenti Sogno fa sentire la sua voce
attraverso un’ossessiva attività pubblicistica, sempre a tinte forti. A
un saggio sulla «guerra non ortodossa» apparso su Micromega (Gianni
Barbacetto, Il Polo occulto, Micromega 8/95) reagisce scrivendo sul
Giornale che si tratta di «ripugnante cinismo e di intollerabile
aggressività totalitaria che continuano a imporci una risposta di totale
rottura». Ma non risparmia critiche neppure alla destra, colpevole
(scrive sul Foglio nel novembre 1998) di non opporsi con sufficiente
energia al comunismo, di non lavorare per quella «paralisi totale del
sistema» auspicabile per «approdare, dopo trent’anni, a un chiarimento
se non col mitra, almeno britannicamente coi guantoni». La lotta politica
si sovrappone alla voglia di menare le mani, e spesso in questa si
esaurisce. Così fino alla fine, fino alla morte e ai funerali di Stato.
Comprensibile, per un volonteroso funzionario del doppio Stato, «uomo
dalla voce femminea, dal coraggio grandissimo e dalla debole intelligenza
politica», come ha scritto Giorgio Bocca. Meno comprensibili i
commenti di chi oggi lo ha descritto come un eroe vittima di una
persecuzione giudiziaria, contro le sue stesse, orgogliose rivendicazioni:
«Avevamo assunto l’impegno di sparare contro i traditori pronti a fare
il governo con i comunisti», di «impedire con ogni mezzo che il Pci
andasse al potere, anche attraverso libere elezioni», dichiara
apertamente nel 1990. E nella sua ultima lettera, estremo messaggio
inviato a un gruppo di amici e sostenitori il 13 luglio 2000: «La difesa
sul piano del pensiero e della logica non esiste al di fuori della
distruzione fisica, ossia della guerra civile. Per cinquant’anni mi sono
battuto per la distruzione dello Stato. Non c’è soluzione al di fuori
della distruzione totale di questa realtà». Questo è Edgardo Sogno,
personaggio chiave della «guerra non ortodossa» italiana, più di
chiunque altro (esclusi i politici, che si sono poi comunque rapidamente
riciclati) protagonista cosciente del «doppio Stato»: proprio perché
egli non era fascista, non era uno dei tanti neri che credevano di usare
gli apparati dello Stato e ne erano invece usati. Ma Sogno ha almeno il
merito di avere rivendicato orgogliosamente, senza ipocrisie e fino
all’ultimo, di aver combattuto e di voler continuare a combattere. Non
ha mai negato di aver compiuto le azioni per cui è stato processato, le
ha solo ritenute necessarie e meritorie. Gli rende un cattivo servizio,
dunque, chi sostiene che il processo in cui è stato imputato è stato una
«persecuzione giudiziaria». Chi, come Silvio Berlusconi, ha
scritto (sul Giornale): «Per aver combattuto il comunismo in tempo di
pace e con le armi della parola e degli scritti egli è stato incarcerato,
accusato di crimini inesistenti da parte di una magistratura più ligia ai
principi dell’ideologia comunista che non a quelli dello Stato di
diritto. Le vicende giudiziarie di Sogno sono state una delle pagine più
tristi dell’Italia repubblicana, e continua ad essere un vulnus della
nostra storia civile il fatto che coloro che ne furono protagonisti non
hanno mai avuto il coraggio personale e la saggezza politica di
riconoscere che non si trattò di un umanissimo errore giudiziario, ma di
una persecuzione frutto, forse anche inconsapevole, dell’odio ideologico».
Macché errore giudiziario, risponderebbe Sogno, se fosse in vita. Egli
aspettava un riconoscimento per quello che aveva fatto, non una difesa per
ciò che non avrebbe fatto. Lo sanno bene, in realtà, anche i suoi amici
e difensori che però, privi della sua franchezza e bloccati
dall’ipocrisia politica, si guardano bene dallo scrivere la verità.
^
8.
Revisionismo all’italiana
Si è compattata una pattuglia di revisionisti all'italiana, politici
potenti, giornalisti e intellettuali di una certa fama. Sono le loro
parole a spiegare, se sottoposte a un adeguato lavoro ermeneutico, perché
in Italia un personaggio come Sogno sia ancora preso sul serio, a
dieci anni dalla fine del confronto tra Est e Ovest
1. La democrazia secondo Sogno. Dunque Sogno si faceva
pubblicamente vanto delle sue azioni, anche illegali: «Avevamo assunto
l’impegno di sparare contro i traditori...». Lo sanno bene anche coloro
i quali lo difendono oggi. Essi parlano ipocritamente di «persecuzione
giudiziaria», ma in realtà ritengono non che Sogno non abbia commesso i
fatti di cui è stato accusato, ma semmai che questi non siano reato:
sacrosanto intervenire per fermare il comunismo, anche oltre e contro la
Costituzione. Così essi fanno proprio il cardine del pensiero (in verità
non molto sofisticato) di Sogno: la democrazia non è fine e valore
non-negoziabile, ma mezzo e strumento da utilizzare quando serve, da
accantonare quando scattano «interessi superiori». Curioso esito: questa
concezione strumentale e ancillare della democrazia è esattamente la
stessa del loro nemico mortale, il comunismo marxista. Sogno e i suoi
difensori (compreso il vecchio compagno di loggia Silvio Berlusconi)
vi si adeguano con una perfetta e speculare simmetria: altro che valori
liberali.
2. I «comunisti», nemici immaginari. Il nemico contro cui Sogno
ha combattuto, pronto fino all’ultimo a menare le mani e a «sparargli
addosso», è una proiezione immaginaria, una costruzione paranoica: il
mostro comunista sovietico, il demonio che toglie la proprietà, che
estirpa la libertà, che uccide i valori cattolici occidentali, che
precipita gli oppositori nei gulag. I suoi avversari reali, in verità,
erano diversi: perché il Pci aveva accettato fin dal 1945
l’appartenenza dell’Italia al campo occidentale e difendeva la sua «via
nazionale al socialismo» contro il Cominform; ma ancor più perché i
nemici concreti di Sogno erano i milioni di italiani che, votando
comunista oppure no, avevano come loro obiettivo non il comunismo, ma
migliori condizioni di lavoro e maggiore democrazia. Anche i crociati
dell’anticomunismo, sotto gli alti ideali di libertà, spesso
nascondevano la difesa di interessi molto concreti e la paura di semplici
rivendicazioni socialdemocratiche (la riforma del regime dei suoli,
qualche cauta nazionalizzazione...) realizzate in altri Paesi d’Europa
senza alcun spargimento di sangue. L’ideologia, in quegli anni di dure
contrapposizioni, finiva per oscurare gli obiettivi reali di entrambi i
fronti. Succede ancor oggi ai nuovi crociati dell’anticomunismo, che
parlano di supreme libertà universali, ma pensano a molto meno nobili arbìtri
personali.
3. L’asimmetria dei fronti. Sostengono gli amici di Sogno che in
Italia il Comunismo era potente e terribile (il Giornale è giunto fino a
sparare in prima pagina, il 14 agosto 2000: «Il Pci progettava il colpo
di Stato», con esilarante, lunghissimo commento di Paolo Guzzanti:
«Il golpe rosso»). Dunque sono giustificate le contromosse
dell’Occidente. In realtà in Italia, Paese saldamente ancorato nel
campo dell’Occidente, la «low intensity war», la «guerra non
ortodossa», è stata combattuta tra due fronti asimmetrici: da una parte
gli apparati e gli uomini armati di eserciti regolari e irregolari,
dall’altra i cittadini disarmati che si radunavano in una piazza per
manifestare contro il fascismo o che addirittura erano tranquillamente
impegnati nei loro affari in una banca o se ne stavano seduti nella
carrozza di un treno o nella sala d’aspetto di una stazione.
4. Il doppio Stato. Ernesto Galli della Loggia, che si è
autoproclamato caposcuola e portavoce del revisionismo all’italiana, non
perde occasione di scrivere contro la teoria del doppio Stato. Negli
episodi eversivi s ono coinvolti non organi e strutture dello Stato,
scrive Della Loggia, ma solo «singoli individui inseriti nella pubblica
amministrazione». Lo dimostrerebbe anche il fatto che «le sentenze hanno
sempre e solo riguardato un certo numero di funzionari». Geniale: si sono
mai viste sentenze contro organismi collettivi, in uno Stato di diritto,
in cui le responsabilità penali sono sempre e solo personali? Della
Loggia, in nome dei suoi pregiudizi ideologici, si improvvisa commentatore
in una materia che evidentemente non conosce: basta leggerle, le sentenze
e le carte processuali e le testimonianze dei protagonisti e le ricerche
degli studiosi, per rilevare la corposa presenza di strategie e la pesante
ingerenza di apparati, stranieri e italiani, nella storia dell’eversione
(gli consigliamo per esempio i saggi di Vincenzo Vinciguerra,
all’ergastolo per la bomba di Peteano, nazista non pentito). Corpi «deviati»,
si diceva un tempo: in realtà le «deviazioni» dall’ordine
costituzionale erano compiti d’istituto, obbedienza alla logica
sotterranea del doppio Stato.
5. La «tensione senza strategia». Galli della Loggia, in
sintonia con gli altri della compagnia di giro del revisionismo
all’italiana (Angelo Panebianco e Giovanni Sabbatucci, per
esempio), sostiene che l’eversione italiana, comunemente denominata «strategia
della tensione», è stata invece una serie di episodi slegati tra loro,
una «tensione senza strategia». Si tratta di una lettura riduttiva, di
un «revisionismo debole». Debole perché si condanna, atomizzando ogni
singolo evento, a non capire l’insieme, a non spiegare nulla. E debole
perché supportata più da pregiudizi ideologici che dalla conoscenza dei
fatti. Per esempio Della Loggia, per dimostrare la frammentazione della
storia eversiva, mette insieme troppo materiale, da piazza Fontana alla
strage di Bologna, da Argo 16 al terrorismo rosso: fenomeni evidentemente
diversi, con diverse logiche interne (anche se andrebbe individuato quel
«filo nero» che li ha innescati tutti, quel «microclima» che ha
propiziato in Italia, e solo in Italia, la crescita rigogliosa di ogni
tipo d’eversione). Ma per cominciare, senza porsi compiti troppo
superiori alle sue conoscenze, si applichi alla stagione 1970-’74:
questo è l’arco temporale della cosiddetta «strategia della
tensione», che sarebbe più corretto chiamare «guerra non ortodossa» o
«low intensity war». è una stagione incredibilmente ricca di fatti
eversivi, ma compatta, con gli stessi nomi, gli stessi protagonisti che si
muovono sulla scena: i gruppi di civili, neonazisti o «liberali»; gli
apparati militari e i servizi segreti; i politici, alcuni dei quali devono
reggere il gioco, anche quando passa sopra le loro teste; gli uomini degli
apparati atlantici, che vegliano sulla corretta esecuzione - anche con «cover
actions» (azioni coperte) e apparati paralleli - dei dettami del National
Security Council (anche questa una lettura istruttiva, che consigliamo a
Galli della Loggia).
6. La pista internazionale. Dopo aver deciso, per atto di fede
(atlantica), che lo Stato non è doppio, un della Loggia alla spasmodica
ricerca di spiegare come mai comunque in Italia le bombe sono scoppiate e
gli aerei sono caduti, escogita alfine la teoria dello «sfondo storico».
E dunque: stragi e atti eversivi sono accaduti in Italia non perché vi
era al lavoro un apparato, un potente partito trasversale
dell’oltranzismo atlantico, che doveva dare lo stop al comunismo a ogni
costo e con ogni mezzo (anche illegale, anche inappropriato, anche
controproducente: solo a posteriori si può valutare che cosa funziona);
ma perché l’Italia, Paese debolissimo, non ha rinunciato negli anni
Settanta ad avere una propria politica estera, e per di più ardita: così
è diventata il terreno di scontro tra i servizi segreti di mezzo mondo.
Questa tesi non ha nemmeno il pregio di essere originale: è la
riproposizione accademica della vecchia «pista internazionale» che
politici e agenti segreti italiani puntualmente estraevano dal cilindro
dopo ogni bomba. Allora si trattava di depistaggi. Oggi affermare che in
Italia (come altrove) erano attivi i servizi di Usa, Urss, Israele,
Francia, Germania eccetera è una verità banale, che però non spiega
nulla: chi fece che cosa? quali le alleanze e le strategie? quali i
conflitti (anche tra gli americani: Cia-Sid contro Fbi-Affari
riservati...)?
7. Antistragismo e legittimazione. La tesi finale di Della Loggia
è che la teoria del doppio Stato sia «in realtà uno strumento della
lotta politica attuale, un modo per cercare di condizionare il presente
grazie all’uso del passato». Servirebbe a «delegittimare i due cardini
ideologico-politici - l’atlantismo e l’anticomunismo, appunto - di
quella che è stata la ricostruzione democratica in Italia» e della «cultura
politica moderata». Aprendo così la strada alla sinistra, che esibirebbe
l’«antistragismo» come «lasciapassare» per essere ammessa «a
godere di una piena legittimazione politica». Che dire? Non si può fare
la storia partendo dalla fine, elidere i fatti perché rischiano di
delegittimare la parte politica che si è scelto di servire. Atlantismo e
anticomunismo, culture politiche in sé legittime, sono state declinate
nella concreta storia italiana come pratiche che hanno mortificato la
sovranità nazionale e dispiegato l’illegalità antidemocratica: lo
dicono i fatti, e i gusti ideologici di Della Loggia non bastano a
cancellarlo. Intanto, la cultura politica a cui egli si riferisce, «moderata»
non lo è stata affatto: non ha esitato a servirsi di mafiosi e criminali,
stragisti ed eversori per mantenere salda nelle mani la barra del potere.
Speculare, anche in questo, alla cultura comunista, a cui dice di opporsi.
Quanto alla sinistra, non mi pare che in democrazia debba avere alcun
bisogno di legittimazioni politiche, né di esami da superare, magari
davanti alla cattedra del professor Della Loggia. In ogni caso, non la
vedo affatto assumere l’«antistragismo» (e, più in generale, la
legalità) come propria bandiera: peccato, perché proporsi di far
emergere tutta la verità sulla guerra sotterranea combattuta in Italia
sarebbe già un bell’inizio di programma. Ma c’è un punto su cui
Della Loggia ha ragione: il doppio Stato è diventato strumento della
presente lotta politica. Il centrodestra si mostra sensibile alle vecchie
storie dell’eversione italiana, non perde occasione per difenderne i
vecchi arnesi. Strano: una destra nuova, moderna e pulita, davvero
liberale, che cosa avrebbe mai da spartire con la vecchia armata
dell’anticomunismo da guerra fredda, che ha svenduto la sovranità
nazionale e pezzi importanti della legittimità democratica, ha coperto e
condiviso illegalità e stragi come male minore in una guerra che si
poteva e si doveva combattere senza spargere sangue innocente (non si è
fatto così in Francia, in Germania e nel resto d’Europa?). Segno che è
stato stretto un patto non scritto tra il vecchio e il nuovo, anzi che il
«nuovo» non è che la nuova forma del vecchio: sulla scena sono rimasti
gli stessi personaggi, gli ex missini del «polo occulto», i gentiluomini
del club P2, i politici degli omissis. L’impunità per il passato deve
essere garantita: quel passato è presente. Ma c’è di più. Nuove
crociate anticomuniste vengono oggi proclamate da qualche estimatore di
Sogno: in nome, questa volta, della difesa del proprio monopolio
televisivo e del diritto eterno alla commistione d’interessi tra
politica e potere mediatico. Anche l’anticomunismo non è più quello di
una volta: dopo essersi presentato sotto forma di grande tragedia storica,
si ripresenta ora sotto forma di poco nobile farsa.
^
9.
Piccola bibliografia di riferimento
Sentenza-ordinanza del giudice istruttore di Bologna (Leonardo Grassi)
relativa al procedimento penale n.1329/A/84 Rggi (su strage di Bologna).
Sentenza-ordinanza del Giudice istruttore di Milano (Guido Salvini)
relativa al procedimento penale n.721/88/F Rggi (su eversione a Milano).
Sentenza-ordinanza del Giudice istruttore di Venezia (Carlo Mastelloni)
relativa al procedimento penale n.318/87/Agi Rggi (su Argo 16).
Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi, Il terrorismo, le
stragi e il contesto storico-politico, Roma, 1995.
Gianni Barbacetto, Il grande vecchio, Milano, 1994.
Giuseppe De Lutiis, Storia dei servizi segreti in Italia, Roma, 1985.
Giuseppe De Lutiis, Il lato oscuro del potere, Roma, 1996.
Aldo Giannuli, Paolo Cucchiarelli, Il doppio Stato, Roma, 1997.
Vincenzo Vinciguerra, L’Organizzazione, inedito, 1994.
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