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materiali didattici - filosofia

 

L'inimitabile leibniz
di PIERGIORGIO ODIFREDDI

La Repubblica, 3 giugno 2001

I media ci infliggono giornalmente le notizie più sconsolanti sul nostro triste pianeta: terremoti, eruzioni, tornadi, inondazioni, siccità, carestie, epidemie, malattie, incidenti, guerre, assassini, stupri, violenze, rapine, furti, e chi più ne ha più ne metta. Solo gli ingenui possono pensare che, nonostante tutte queste brutture, il mondo sia stato concepito e realizzato da qualche essere buono e onnipotente. Eppure ci fu qualcuno che passò alla storia per aver sostenuto che questo è il migliore dei mondi possibili.

Quel qualcuno era Gottfried Wilhelm Leibniz, il singolare filosofo al quale Massimo Mugnai, già recente curatore della migliore delle raccolte possibili dei suoi lavori (Scritti filosofici, Utet), ha ora dedicato la migliore delle divulgazioni possibili del suo pensiero (Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi). Leibniz nacque nel 1646. Con la scienza infusa, evidentemente, visto che nella Dissertatio de Arte Combinatoria anticipò, a soli vent'anni, quel metodo di aritmetizzazione che è oggi una delle tecniche fondamentali della moderna logica matematica. A dieci anni la lettura di Aristotele e la scoperta della sillogistica lo avevano salvato da una carriera di poeta latino, una lingua che aveva imparato da solo a sei anni leggendo Tito Livio. A quindici anni si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. A vent'anni aveva già pubblicato due tesi: quella di laurea su questioni di filosofia del diritto, e quella di dottorato sulle antinomie giuridiche, i casi cioè in cui la legge permette di dar ragione ad entrambe le parti. La tesi proponeva, come possibili soluzioni, verdetti di indecidibilità e salomoniche decisioni casuali, dopo un appropriato tiro di monetina. Arruolato immediatamente al servizio del Grande Elettore di Meinz, Leibniz ricevette come primo incarico la redazione di una memoria sull'elezione del re di Polonia. Dopo mesi di lavoro produsse un testo di 360 pagine in forma assiomatica, in cui dapprima veniva dimostrata l'ineleggibilità di tutti i candidati meno uno, e poi venivano date venticinque dimostrazioni diverse della necessità di eleggere l'unico rimasto. Il quale, per un caso fortunato, era anche quello proposto dal datore di lavoro di Leibniz. Per un caso sfortunato, però, il lavoro fu finito di stampare troppo tardi, e non evitò l'elezione di un ineleggibile. Il successivo assegnamento di Leibniz fu convincere Luigi XIV di Francia a non attaccare l'Olanda.

Questa volta il filosofo produsse un trattato in cui proponeva al Re Sole una campagna d'Egitto: "il più grande dei progetti possibili, e il più facile di quelli grandi". Il piano fu momentaneamente respinto, ma venne realizzato più di cent'anni dopo da Napoleone. Nel frattempo Leibniz, che s'era recato a Parigi per presentarlo, ci rimase per quattro anni, lanciandosi in una serie di attività: dall'invenzione di una macchina calcolatrice che, a differenza del prototipo di Pascal, era in grado di fare non solo le somme ma anche i prodotti, alla scoperta del teorema fondamentale dell'analisi, che lega fra loro i calcoli differenziale e integrale.

Quest'ultimo risultato, che da solo sarebbe sufficiente a far ricordare Leibniz in tutte le storie della matematica, divenne in seguito la causa di una spiacevole disputa di priorità con Newton, che l'aveva scoperto indipendentemente. Nel 1676 Leibniz fu assunto dal duca di Hannover per scrivere la storia della casata, dalle origini nel 768 al giorno d'allora. Durante un viaggio di tre anni per radunare materiale per la sua storia, Leibniz finì a Roma e gli fu offerto il posto di direttore della Biblioteca Vaticana, che rifiutò perché non era disposto a convertirsi al cattolicesimo. Aveva però un piano per riconciliare protestanti e cattolici, e scrisse un trattato per mostrare che le differenze si sarebbero potute facilmente riconciliare. Dopo questo viaggio i duchi consegnarono Leibniz ad Hannover fino a che non avesse terminato il suo lavoro. Poiché al momento della sua morte, quarant'anni dopo, era arrivato al 1005, questo significò la fine dei suoi lunghi anni sabbatici. Confinato a corte, riservò l'insegnamento essoterico ai nobili, e quello esoterico ai suoi corrispondenti in tutto il mondo, dall'Europa alla Cina. Per i primi scrisse le sue opere filosofiche più famose, che suggerì poi a un collega di non prendere troppo sul serio: la Teodicea per la regina Sofia Carlotta di Prussia, e la Monadologia per il principe Eugenio di Savoia. Ai secondi inviò quindicimila lettere contenenti distillati del suo pensiero, che alla pari di Platone non mise mai per iscritto in maniera sistematica. Forse se ne pentì da vecchio, quando dichiarò: "ho iniziato molto, ma terminato niente". Fra le cose a cui diede inizio ci furono gli Acta Eruditorum, sui quali pubblicò numerosi articoli di matematica, e l'Accademia delle Scienze di Berlino, di cui divenne il primo presidente. Fra quelle che non terminò brillano il progetto di un'enciclopedia, ripreso un secolo dopo dagli illuministi, e i due grandiosi sogni realizzati dalla logica moderna: una lingua philosophica o characteristica universalis, in cui si possa esprimere formalmente il contenuto del pensiero, e un calculus ratiocinator che permetta di decidere matematicamente la validità dei ragionamenti. Proprio la logica fu il centro della sua filosofia, al punto che la sua metafisica è stata da qualcuno definita un panlogismo. Da parte sua, Leibniz dichiarò invece al marchese de l'Hopital che la sua metafisica era tutta matematica. In entrambi i casi, non stupisce che Mugnai sia riuscito a penetrare così bene nel suo pensiero, visto che di professione è un logico matematico. L'idea essenziale della logica leibniziana è che ci sono due tipi di verità: quelle di ragione, necessarie, e quelle di fatto, contingenti. Le verità di entrambi i tipi possono essere provate logicamente, ma con dimostrazioni sostanzialmente diverse. Finite le prime, la cui ragion necessaria è alla portata delle nostre menti. Infinite le seconde, la cui ragion sufficiente può essere percepita compiutamente solo da Dio. Mentre le verità di ragione  sono vere in tutti i mondi possibili, quelle di fatto sono vere solo nel nostro, che è il migliore dei mondi possibili. Se la cosa non ci appare così evidente, è proprio perché non siamo in grado di cogliere il punto di vista di Dio. In particolare non lo fu Voltaire, che mise alla berlina questa idea nel Candide: il "diabolico libretto” che costituì il maggior successo editoriale del Settecento, e in cui Leibniz viene sbeffeggiato nei panni del dottor Pangloss. Tutto sembrò effettivamente andare per il meglio nel 1714, anno in cui Leibniz coronò felicemente l'unico progetto politico che gli sia riuscito: porre il duca di Hannover sul trono d'Inghilterra, iniziando così una dinastia che durò fino al 1837 (quando fu rilevata per esaurimento da un'altra tedesca: la regina Vittoria). Ma Leibniz fu abbandonato dall'ingrato nuovo re, e quando morì due anni dopo non ricevette neppure un funerale onorevole. Assicurare la sua fama era un compito che sarebbe toccato ai saggi, non ai potenti. E il bel saggio di Mugnai contribuisce a mantenerla.