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materiali didattici - filosofia

Conflitto Costituente

di Massimo Cacciari

(da MicroMega, I girotondi della libertà, supplemento al n° 3/2002 di «MicroMega»)

 

Non lasciamoci «incantare» dalla destra di casa nostra, sognando che quella dei vicini sia sempre la più verde. Nemmeno mille Berlusconi ce l’avrebbero fatta (ma siamo poi davvero sicuri che il «genio» sia il Cavaliere?), se la sua resistibile ascesa non costituisse un episodio di un ciclo politico complessivo. E di questi «tempi lunghi» non sarebbe male tornare un po’ a discutere, almeno per non ridurre i «girotondi» a circoli viziosi... Il problema potrebbe e dovrebbe essere affrontato da molteplici punti di vista (economico, sociale, geo-politico eccetera); qui mi limito ad una modesta proposta, che mi sembra potrebbe avere qualche incidenza sull’agenda di Ulivo e dintorni.

L’affermazione della destra matura in un clima cu1turale-politico nel quale sembra spezzarsi il rapporto tra agire politico e conflitto. E una concezione universale della politica ad imporsi, e precisamente quella per cui l’arte politica» consisterebbe nel ridurre il conflitto a insignificante rumore, meglio ancora a eliminarlo. Una buona politica sarebbe perciò quella che lavora per il proprio auto-superamento, consegnando alla fine il problema della regolazione dei rapporti sociali a forze anonime, meccanismi, servo-meccanismi, «leggi» economiche e di mercato. Non facciamoci distrarre dai fumi tremontiani, che accusano oggi le tecnocrazie comunitarie. In realtà la destra europea (con l’eccezione delle sue più periferiche varianti smaccatamente demagogico-populiste) se la prende con quel poco, pochissimo che ancora di decisione politica sopravvive negli uffici di Bruxelles. Il suo obiettivo dichiarato è, infatti, l’abolizione di ogni «regola» che non siano appunto quelle del «libero scambio». Bruxelles non «lascia fare» abbastanza.

Ci si potrebbe a buon diritto interrogare se tale processo di de-politicizzazione non sia immanente alla stessa democrazia. Prima o poi dovremmo anche porci «in pubblico», e non solo tra «specialisti», qualche scomoda domanda. Può veramente una grande democrazia di massa «funzionare» altrimenti che attraverso meccanismi di delega e rappresentanza sempre più astratti, che la rendono mera procedura per la designazione di oligarchie e riducono i discorsi «partecipativi» a ipocriti flatus vocis? E, tali oligarchie possono oggi affermarsi se non si radicano nei poteri economico-finanziari, se non formano con essi un unico sistema? Ma tutto ciò ha un presupposto, quello appunto da cui siamo partiti: che il conflitto sia ciò che la politica deve «evacuare», poiché esso è. per natura, distruttivo di risorse e opportunità, perché esso è «irrazionale». È straordinario come la destra sia riuscita a costruire proprio intorno a questa prospettiva de-politicizzante un’arma formidabile (di lotta ideologica, un’ideologia politica in senso vero e proprio! Chiunque non obbedisca al suo «ordine» non viene riconosciuto come un «avversario» portatore di interessi e visioni propri, ma denunciato come «animale non dotato di logos». La destra raggiunge la massima «universalità» del suo messaggio proprio assolutizzando ideologicamente i caratteri di questa fase storica, che vedono l’obiettivo immiserimento della forma democratica e l’apparentemente definitiva affermazione dell’homo consumans, come idea regolativa di ogni rapporto sociale.

Allo scardinamento del rapporto tra politica e conflitto la sinistra non ha saputo rispondere. Una parte di essa aveva interpretato e vissuto il conflitto nella forma amico-nemico, che va invece sempre intesa soltanto come «ideal-tipo» della possibilità estrema della relazione politica. Un’altra parte l’aveva derubricato a fisiologica concorrenza-competizione sul terreno distributivo. Un’altra ancora finiva col frantumarne l’idea in una molteplicità di obiettivi «riformistici», i cui soggetti e destinatari erano sempre meno percepibili. Il conflitto si trasformava così in pura lotta parlamentare, per l’«alternanza», come si dice. Certo, hanno pesato tragicamente su tutto questo «gli anni di piombo». o, meglio, la loro assolutamente distorta lettura: che fosse stata l’«altezza» del conflitto precedente, in quanto tale, una delle loro cause fondamentali — e non invece proprio il fatto che la sinistra non era riuscita a comprenderne e organizzarne la valenza costitutiva.

Questo è il punto. Il conflitto non è un «fiume rovinoso» da arginare più o meno efficacemente. Il conflitto può essere riguardato come «prima causa» di libertà e buone leggi. Sarà tempo in questo paese di machiavellismi stenterelli di far ritorno alla virtus del grande fiorentino! È mancata alla sinistra una teoria che cogliesse il valore costitutivo del conflitto e lo facesse valere come cardine di un processo di riforma democratica. Nessun autentico pensiero. prima ancora di una prassi, si è opposto all’ideologia del Grande Gioco, dell’Ordine senza alcuna volontà ordinatrice, del «metti la Tecnica al comando e fa’ della politica la sua buona amministratrice». Mentre la destra proprio questa ideologia usava spregiudicatamente per scardinare ogni opposizione.

Non si tratta, ora, di «nuove Resistenze». Possono anche essere contingentemente inevitabili - ma se non si trasformano presto in conflitto costituente non finiranno che con l’esprimere la piú assoluta dipendenza da ciò contro cui pretendono di lottare. Conflitto costituente significa costruzione di identità capaci di battersi per il riconoscimento dei propri valori, al di là di ogni schema «economico» di utilità. Sia chiaro: nella dialettica del riconoscimento è implicito, alla fine, un disegno di reciprocità. E dunque il conflitto di cui parliamo non è in alcun modo schiacciabile su quello amico-nemico. Ma ancor meno esso è compatibile con una visione consociativa delle riforme, con una concezione organicistica delle relazioni sociali. Se il presupposto dell’agire politico diviene l’«universale soddisfazione», l’agire politico dovrà essere per la propria morte, poiché esso non è concepibile che nell’orizzonte della decisione. Una decisione è parziale per definizione, e dunque destinata a confliggere con altre parzialità. E questo va ancora una volta ribadito con la massima forza di contro all’universalismo dell’Ordine attuale. Ma un conflitto è costituente quando il soggetto che lo impone, pur consapevole della propria parzialità, elabora un concreto, praticabile progetto di riforma che possa avere senso e valore, per un determinato momento storico, agli occhi di forze potenzialmente decisive nella fonnazione dell’opinione pubblica. Se questo progetto non è, invece, che la risultante dei compromessi e delle mediazioni che si ritengono a priori inevitabili, esso fallirà in partenza, poiché non esprimerà che quella concezione negativa del conflitto, di cui si è parlato. Nel conflitto costituente la dimensione di azzardo è implicita e altissima: io disegno un progetto «generale» sulla base di processi, orientamenti, volontà non già chiaramente determinati, ma possibili, non già sulla base della geografia politica data, ma di quella che può determinarsi proprio in seguito al conflitto, non già in base ad identità culturali-politiche date, ma a comuni destinazioni da produrre. Nulla di più facile che spargere disincantate critiche su tale prospettiva. La fine della politica è stata predicata a sinistra ben prima che fosse praticata a destra come formidabile strumento politico! Non siamo tutti individui sradicati e parvenze di comunità «gettate» in esodi infiniti? Come pensare alla costruzione di identità non fondate su «individualismi proprietari»? Ebbene, si smetta allora di parlare di politica o pretendere di farla. Il mondo rigurgita di attività economicamente e filosoficamente piú gratificanti. Ma se di politica può ancora trattarsi, essa non si darà che o nella forma dell’«universalismo» delle potenze tecnico-economiche, e cioè nella forma dell’anti-politica, o in quella dell’organizzazione determinata di conflitti capaci di costituire nuovi ordini istituzionali. E tali conflitti non potranno che essere agiti da soggettività concrete.

Se il processo di riforma si disincarna dall’individuazione di tali soggettività, se non si sa più rispondere cori sufficiente determinatezza alla domanda «per chí?», così come se si continua a «resistere» sulla trincea delle «nevi di un tempo», il discorso è chiuso - e morto un Berlusconi se ne farà un altro. Se non si impone il conflitto sulla base di una propria autonoma idea di riforma, ma questa diviene immediatamente materia di scambio nel gioco tra le élite, il gioco sarà sempre a somma zero, e dunque incapace di produrre alcun mutamento. D’altra parte, se il conflitto non è impostato concretamente all’interno delle contraddizioni della forma sociale, se è semplicemente «anti» e non immanente ad essa, sarà una semplice idea svolazzante sulle nostre teste, come quella della «moltitudine globale». Non si organizza politicamente alcuna moltitudine, che ha casa ancora nel cielo dell’Universale, ma interessi e culture determinati.

Perché tutto ciò è fondamentale al fine di ripensare la forma democratica (fermo restando che nulla teoricamente vieta di ritenerla destinata ad inabissarsi nell’epoca della globalizzazione). Poiché essa può venire concepita come puro sistema di equilibri tra poteri corporativisticamente defimiti, e trasformarsi così in strumento di conservazione, per quanti inni patrii, chiacchiere partecipazionistiche e «beni comuni» vi si spargano sopra - oppure come lo spazio in cui forze politiche e culturali competono per produrre e far riconoscere identità dotate di significato. Nel primo caso, la piú forte preoccupazione sarà quella di tracciare i confini tra competenza e competenza, di stabilire astratte «immunità», in base ad una visione statica e irrealistica della «divisione dei poteri»; nel secondo caso, l’autonomia di questi poteri è dinamica, «estroversa», in grado di proporre disegni generali di riforma. E le organizzazioni politiche si battono per accrescere il numero e la forza di queste identità, hanno l’occhio alle nuove che si annunciano (e sempre il nuovo si annuncia «sgraziosarnente»), piuttosto che a quelle che tramontano, «tengono» più a quelle che possono «lavorare» nelle contraddizioni attuali dello sviluppo, piuttosto che a quelle che ne hanno caratterizzato fasi passate. Insomma, da un lato è ancora la democrazia procedurale (destinata a trasformarsi nel più inforndato dei decisionismi alla prima «emergenza»); dall’altro lato sta .un’idea di democrazia che si organizza per autentiche «polarità», in tensione tra loro. Un’idea di democrazia come permanente conflitto costituente. Le regole del gioco che derivano dall’una o dall’altra di queste concezioni saranno totalmente diverse.

L’Ulivo farà perciò bene a ripartire dall’analisi e dalla ricerca sul campo dei soggetti reali o potenziali in grado di esprimere conflitti costituenti. Dall’Europa, dal problema della «costituzione» europea, fino all’ultimo dei diritti della cittadinanza sociale, questo dovrebbe costituire il problema: a chi ci rivolgiamo, che cosa promuoviamo, quali energie possono incarnare le nostre proposte. Da qui partire - e non da come esse vengano intese, strurnentalizzate o accolte nel contesto degli attuali equilibri di potenza. Occorre fuggire un realismo paralizzante quanto le cattive utopie - e ciò significa che le individualità da costruire sono quelle che agiscono-soffrono contraddizioni vitali. Sono quelle che, per la loro materiale costituzione, pongono il problema di una globalizzazione come globalizzazione di diritti, cittadinanza sociale universale. Occorrerà, allora. ficcare sguardo, mani, piedi e nervi nei nuovi soggetti (soggetti e sudditi) dell’economia di rete, nelle nuove professionalità refrattarie all’organizzazione corporativa data, nella scuola e nella ricerca destinate dalle politiche di destra a essere «tagliate» o asservite, nel mondo vitale delle autonomie, del «locale» che aspira ad una sua propria universalità e che vuole realizzare nei fatti il principio di sussidiarietà, in alleanza con le organizzazioni autonome della società civile - di quel «locale» che non ha fatto strame dell’idea federalistica svilendola a spartizione del potere tra «centro» e «periferie».

Sulla base di tale impostazione e di tali idee assume un senso anche il discorso sull’assetto organizzativo dell’Ulivo e della sua leadership - altrimenti esso resterà, com’è tuttora, un penoso balletto nelle ridotte di un ceto politico falcidiato. L’Ulivo può avere una storia, che non sia quella

del defatigante tentativo di mediazione tra le vecchie «narrazioni» delle sue culture politiche, soltanto come strumento per il riconoscimento e l’affermazione delle soggettività che abbiamo indicato. Non si tratta, dunque, secondo i vecchi schemi partitici, di «allargarlo» a qualche organismo o personalità «indipendente», ma di concepirlo proprio come affermazione politica organizzata del valore costituente del conflitto, di una democrazia ricca di identità culturali in competizione.

Che l’intendenza segua - che la leadership si articoli secondo tali prospettive. È necessaria la più piena garanzia che il conflitto di cui si parla non sia «anti» né «no-»; ed è necessaria, insieme, la più chiara affermazione che la democrazia non è per noi un gioco procedurale che si arresta alla designazione dei «rappresentanti». Democrazia è sussidiarietà, perciò partecipazione effettuale. La democrazia è tale se sprigiona costantemente energie versus le chiusure oligarchiche e corporative. E questa volontà l’Ulivo deve saper rappresentare a tutti i livelli, in primis nella qualità dei suoi leader. È stupido domandarsi se essi esistono hic et nunc. Ci si può chiedere come iniziare col piede giusto. Quale leadership allontanerebbe, oggi, drasticamente per l’Ulivo la possibilità di diventare punto di riferimento e di coagulo di quel «cervello sociale», che esige autonomia, libertà, spazio per le proprie iniziative, e vuole costitutivamente confliggere con oligarchie politiche e corporative e con l’attuale dominio, nei fatti, dell’Ordine finanziario-monopolistico (mai tanto affermatosi come negli anni del «piccolo è bello»)? Una leadership allevata nel gioco puramente parlamentare o espressione di quelle vecchie «narrazioni». Quale potrebbe, invece, più avvicinarsi all’idea di quella arrischiata, dinamica democrazia che si regge sulla competizione tra individualità ricche di significato? Una che tenga insieme la visione globale e l’organizzazione in essa di conflitti determinati: poiché mai spontaneamente globalizzazione sarà universalizzazione di diritti, mai spontaneamente esprimerà altre logiche che non siano quelle delle potenze economico-finanziarie. Oggi non può trattarsi di «soluzioni finali», ma di tenere aperto il processo. Chiudere la porta significherà per la cosiddetta sinistra, nei prossimi anni, far opera di testimonianza, se va bene - sperare nei Ruggero e Casini, se va male.