Non lasciamoci «incantare» dalla destra di casa
nostra, sognando che quella dei vicini sia sempre la più verde.
Nemmeno mille Berlusconi ce l’avrebbero fatta (ma siamo poi davvero
sicuri che il «genio» sia il Cavaliere?), se la sua resistibile
ascesa non costituisse un episodio di un ciclo politico complessivo. E
di questi «tempi lunghi» non sarebbe male tornare un po’ a
discutere, almeno per non ridurre i «girotondi» a circoli viziosi...
Il problema potrebbe e dovrebbe essere affrontato da molteplici punti
di vista (economico, sociale, geo-politico eccetera); qui mi limito ad
una modesta proposta, che mi sembra potrebbe avere qualche incidenza
sull’agenda di Ulivo e dintorni.
L’affermazione della destra matura in un clima
cu1turale-politico nel quale sembra spezzarsi il rapporto tra agire
politico e conflitto. E una concezione universale della politica ad
imporsi, e precisamente quella per cui l’arte politica»
consisterebbe nel ridurre il conflitto a insignificante rumore, meglio
ancora a eliminarlo. Una buona politica sarebbe perciò quella che
lavora per il proprio auto-superamento, consegnando alla fine il
problema della regolazione dei rapporti sociali a forze anonime,
meccanismi, servo-meccanismi, «leggi» economiche e di mercato. Non
facciamoci distrarre dai fumi tremontiani, che accusano oggi le
tecnocrazie comunitarie. In realtà la destra europea (con l’eccezione
delle sue più periferiche varianti smaccatamente demagogico-populiste)
se la prende con quel poco, pochissimo che ancora di decisione
politica sopravvive negli uffici di Bruxelles. Il suo obiettivo
dichiarato è, infatti, l’abolizione di ogni «regola» che non
siano appunto quelle del «libero scambio». Bruxelles non «lascia
fare» abbastanza.
Ci si potrebbe a buon diritto interrogare se tale
processo di de-politicizzazione non sia immanente alla stessa
democrazia. Prima o poi dovremmo anche porci «in pubblico», e non
solo tra «specialisti», qualche scomoda domanda. Può veramente una
grande democrazia di massa «funzionare» altrimenti che attraverso
meccanismi di delega e rappresentanza sempre più astratti, che la
rendono mera procedura per la designazione di oligarchie e riducono i
discorsi «partecipativi» a ipocriti flatus vocis? E, tali oligarchie
possono oggi affermarsi se non si radicano nei poteri
economico-finanziari, se non formano con essi un unico sistema? Ma
tutto ciò ha un presupposto, quello appunto da cui siamo partiti: che
il conflitto sia ciò che la politica deve «evacuare», poiché esso
è. per natura, distruttivo di risorse e opportunità, perché esso è
«irrazionale». È straordinario come la destra sia riuscita a
costruire proprio intorno a questa prospettiva de-politicizzante un’arma
formidabile (di lotta ideologica, un’ideologia politica in senso
vero e proprio! Chiunque non obbedisca al suo «ordine» non viene
riconosciuto come un «avversario» portatore di interessi e visioni
propri, ma denunciato come «animale non dotato di logos». La destra
raggiunge la massima «universalità» del suo messaggio proprio
assolutizzando ideologicamente i caratteri di questa fase storica, che
vedono l’obiettivo immiserimento della forma democratica e l’apparentemente
definitiva affermazione dell’homo consumans, come idea
regolativa di ogni rapporto sociale.
Allo scardinamento del rapporto tra politica e
conflitto la sinistra non ha saputo rispondere. Una parte di essa
aveva interpretato e vissuto il conflitto nella forma amico-nemico,
che va invece sempre intesa soltanto come «ideal-tipo» della
possibilità estrema della relazione politica. Un’altra parte l’aveva
derubricato a fisiologica concorrenza-competizione sul terreno
distributivo. Un’altra ancora finiva col frantumarne l’idea in una
molteplicità di obiettivi «riformistici», i cui soggetti e
destinatari erano sempre meno percepibili. Il conflitto si trasformava
così in pura lotta parlamentare, per l’«alternanza», come si
dice. Certo, hanno pesato tragicamente su tutto questo «gli anni di
piombo». o, meglio, la loro assolutamente distorta lettura: che fosse
stata l’«altezza» del conflitto precedente, in quanto tale, una
delle loro cause fondamentali — e non invece proprio il fatto che la
sinistra non era riuscita a comprenderne e organizzarne la valenza costitutiva.
Questo è il punto. Il conflitto non è un «fiume
rovinoso» da arginare più o meno efficacemente. Il conflitto può
essere riguardato come «prima causa» di libertà e buone leggi.
Sarà tempo in questo paese di machiavellismi stenterelli di far
ritorno alla virtus del grande fiorentino! È mancata alla
sinistra una teoria che cogliesse il valore costitutivo del conflitto
e lo facesse valere come cardine di un processo di riforma
democratica. Nessun autentico pensiero. prima ancora di una prassi, si
è opposto all’ideologia del Grande Gioco, dell’Ordine senza
alcuna volontà ordinatrice, del «metti la Tecnica al comando e fa’
della politica la sua buona amministratrice». Mentre la destra
proprio questa ideologia usava spregiudicatamente per scardinare ogni
opposizione.
Non si tratta, ora, di «nuove Resistenze».
Possono anche essere contingentemente inevitabili - ma se non si
trasformano presto in conflitto costituente non finiranno che con l’esprimere
la piú assoluta dipendenza da ciò contro cui pretendono di lottare.
Conflitto costituente significa costruzione di identità capaci di
battersi per il riconoscimento dei propri valori, al di là di ogni
schema «economico» di utilità. Sia chiaro: nella dialettica del
riconoscimento è implicito, alla fine, un disegno di reciprocità. E
dunque il conflitto di cui parliamo non è in alcun modo schiacciabile
su quello amico-nemico. Ma ancor meno esso è compatibile con una
visione consociativa delle riforme, con una concezione organicistica
delle relazioni sociali. Se il presupposto dell’agire politico
diviene l’«universale soddisfazione», l’agire politico dovrà
essere per la propria morte, poiché esso non è concepibile che nell’orizzonte
della decisione. Una decisione è parziale per definizione, e dunque
destinata a confliggere con altre parzialità. E questo va ancora una
volta ribadito con la massima forza di contro all’universalismo dell’Ordine
attuale. Ma un conflitto è costituente quando il soggetto che lo
impone, pur consapevole della propria parzialità, elabora un
concreto, praticabile progetto di riforma che possa avere senso e
valore, per un determinato momento storico, agli occhi di forze
potenzialmente decisive nella fonnazione dell’opinione pubblica. Se
questo progetto non è, invece, che la risultante dei compromessi e
delle mediazioni che si ritengono a priori inevitabili, esso fallirà
in partenza, poiché non esprimerà che quella concezione negativa del
conflitto, di cui si è parlato. Nel conflitto costituente la
dimensione di azzardo è implicita e altissima: io disegno un progetto
«generale» sulla base di processi, orientamenti, volontà non già
chiaramente determinati, ma possibili, non già sulla base della
geografia politica data, ma di quella che può determinarsi proprio in
seguito al conflitto, non già in base ad identità
culturali-politiche date, ma a comuni destinazioni da produrre. Nulla
di più facile che spargere disincantate critiche su tale prospettiva.
La fine della politica è stata predicata a sinistra ben prima che
fosse praticata a destra come formidabile strumento politico! Non
siamo tutti individui sradicati e parvenze di comunità «gettate» in
esodi infiniti? Come pensare alla costruzione di identità non fondate
su «individualismi proprietari»? Ebbene, si smetta allora di parlare
di politica o pretendere di farla. Il mondo rigurgita di attività
economicamente e filosoficamente piú gratificanti. Ma se di politica
può ancora trattarsi, essa non si darà che o nella forma dell’«universalismo»
delle potenze tecnico-economiche, e cioè nella forma dell’anti-politica,
o in quella dell’organizzazione determinata di conflitti capaci di
costituire nuovi ordini istituzionali. E tali conflitti non potranno
che essere agiti da soggettività concrete.
Se il processo di riforma si disincarna dall’individuazione
di tali soggettività, se non si sa più rispondere cori sufficiente
determinatezza alla domanda «per chí?», così come se si continua a
«resistere» sulla trincea delle «nevi di un tempo», il discorso è
chiuso - e morto un Berlusconi se ne farà un altro. Se non si impone
il conflitto sulla base di una propria autonoma idea di
riforma, ma questa diviene immediatamente materia di scambio nel gioco
tra le élite, il gioco sarà sempre a somma zero, e dunque incapace
di produrre alcun mutamento. D’altra parte, se il conflitto non è
impostato concretamente all’interno delle contraddizioni
della forma sociale, se è semplicemente «anti» e non immanente ad
essa, sarà una semplice idea svolazzante sulle nostre teste, come
quella della «moltitudine globale». Non si organizza politicamente
alcuna moltitudine, che ha casa ancora nel cielo dell’Universale, ma
interessi e culture determinati.
Perché tutto ciò è fondamentale al fine di
ripensare la forma democratica (fermo restando che nulla teoricamente
vieta di ritenerla destinata ad inabissarsi nell’epoca della
globalizzazione). Poiché essa può venire concepita come puro sistema
di equilibri tra poteri corporativisticamente defimiti, e trasformarsi
così in strumento di conservazione, per quanti inni patrii,
chiacchiere partecipazionistiche e «beni comuni» vi si spargano
sopra - oppure come lo spazio in cui forze politiche e culturali
competono per produrre e far riconoscere identità dotate di
significato. Nel primo caso, la piú forte preoccupazione sarà quella
di tracciare i confini tra competenza e competenza, di stabilire
astratte «immunità», in base ad una visione statica e irrealistica
della «divisione dei poteri»; nel secondo caso, l’autonomia di
questi poteri è dinamica, «estroversa», in grado di proporre
disegni generali di riforma. E le organizzazioni politiche si battono
per accrescere il numero e la forza di queste identità, hanno l’occhio
alle nuove che si annunciano (e sempre il nuovo si annuncia «sgraziosarnente»),
piuttosto che a quelle che tramontano, «tengono» più a quelle che
possono «lavorare» nelle contraddizioni attuali dello sviluppo,
piuttosto che a quelle che ne hanno caratterizzato fasi passate.
Insomma, da un lato è ancora la democrazia procedurale (destinata a
trasformarsi nel più inforndato dei decisionismi alla prima
«emergenza»); dall’altro lato sta .un’idea di democrazia che si
organizza per autentiche «polarità», in tensione tra loro. Un’idea
di democrazia come permanente conflitto costituente. Le regole del
gioco che derivano dall’una o dall’altra di queste concezioni
saranno totalmente diverse.
L’Ulivo farà perciò bene a ripartire dall’analisi
e dalla ricerca sul campo dei soggetti reali o potenziali in
grado di esprimere conflitti costituenti. Dall’Europa, dal problema
della «costituzione» europea, fino all’ultimo dei diritti della
cittadinanza sociale, questo dovrebbe costituire il problema: a chi ci
rivolgiamo, che cosa promuoviamo, quali energie possono incarnare le
nostre proposte. Da qui partire - e non da come esse vengano intese,
strurnentalizzate o accolte nel contesto degli attuali equilibri di
potenza. Occorre fuggire un realismo paralizzante quanto le cattive
utopie - e ciò significa che le individualità da costruire sono
quelle che agiscono-soffrono contraddizioni vitali. Sono quelle che,
per la loro materiale costituzione, pongono il problema di una
globalizzazione come globalizzazione di diritti, cittadinanza sociale
universale. Occorrerà, allora. ficcare sguardo, mani, piedi e nervi
nei nuovi soggetti (soggetti e sudditi) dell’economia
di rete, nelle nuove professionalità refrattarie all’organizzazione
corporativa data, nella scuola e nella ricerca destinate dalle
politiche di destra a essere «tagliate» o asservite, nel mondo
vitale delle autonomie, del «locale» che aspira ad una sua propria
universalità e che vuole realizzare nei fatti il principio di
sussidiarietà, in alleanza con le organizzazioni autonome della
società civile - di quel «locale» che non ha fatto strame dell’idea
federalistica svilendola a spartizione del potere tra «centro» e
«periferie».
Sulla base di tale impostazione e di tali idee
assume un senso anche il discorso sull’assetto organizzativo dell’Ulivo
e della sua leadership - altrimenti esso resterà, com’è tuttora,
un penoso balletto nelle ridotte di un ceto politico falcidiato. L’Ulivo
può avere una storia, che non sia quella
del defatigante tentativo di mediazione tra le
vecchie «narrazioni» delle sue culture politiche, soltanto come
strumento per il riconoscimento e l’affermazione delle soggettività
che abbiamo indicato. Non si tratta, dunque, secondo i vecchi schemi
partitici, di «allargarlo» a qualche organismo o personalità
«indipendente», ma di concepirlo proprio come affermazione politica
organizzata del valore costituente del conflitto, di una democrazia ricca
di identità culturali in competizione.
Che l’intendenza segua - che la leadership si
articoli secondo tali prospettive. È necessaria la più piena
garanzia che il conflitto di cui si parla non sia «anti» né
«no-»; ed è necessaria, insieme, la più chiara affermazione che la
democrazia non è per noi un gioco procedurale che si arresta alla
designazione dei «rappresentanti». Democrazia è sussidiarietà,
perciò partecipazione effettuale. La democrazia è tale se sprigiona
costantemente energie versus le chiusure oligarchiche e
corporative. E questa volontà l’Ulivo deve saper rappresentare a
tutti i livelli, in primis nella qualità dei suoi leader. È stupido
domandarsi se essi esistono hic et nunc. Ci si può chiedere
come iniziare col piede giusto. Quale leadership allontanerebbe, oggi,
drasticamente per l’Ulivo la possibilità di diventare punto di
riferimento e di coagulo di quel «cervello sociale», che esige
autonomia, libertà, spazio per le proprie iniziative, e vuole costitutivamente
confliggere con oligarchie politiche e corporative e con l’attuale
dominio, nei fatti, dell’Ordine finanziario-monopolistico (mai tanto
affermatosi come negli anni del «piccolo è bello»)? Una leadership
allevata nel gioco puramente parlamentare o espressione di quelle
vecchie «narrazioni». Quale potrebbe, invece, più avvicinarsi all’idea
di quella arrischiata, dinamica democrazia che si regge sulla
competizione tra individualità ricche di significato? Una che tenga
insieme la visione globale e l’organizzazione in essa di conflitti
determinati: poiché mai spontaneamente globalizzazione sarà
universalizzazione di diritti, mai spontaneamente esprimerà altre
logiche che non siano quelle delle potenze economico-finanziarie. Oggi
non può trattarsi di «soluzioni finali», ma di tenere aperto il
processo. Chiudere la porta significherà per la cosiddetta sinistra,
nei prossimi anni, far opera di testimonianza, se va bene - sperare
nei Ruggero e Casini, se va male.