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[da musica, 22 novembre 2001]
Il
silenzio dei cortei e il marketing delle parole
di
curzio maltese
I
cortei di massa
e di protesta che si svolgono da
qualche anno sono, rispetto al passato, manifestazioni silenziose.
Pochi slogan urlati, poche
parole d’ordine. C’è come il timore,
la riluttanza, la paura di usare le
parole. Queste parole della politica, almeno. Parole svuotate, ridotte a slogan pubblicitario. La libertà,
anzi le libertà, ormai finiscono
ovunque, in tutti gli scaffali
del supermercato della politica.
L’immaginazione
al potere, che era il più famoso degli slogan -sessantottini, è stato logorato
da troppe campagne pubblicitarie di jeans. In generale c’è un giusto disagio
nel riproporre le parole d’ordine del passato. Non soltanto perché non c’è
nulla di vecchio, oggi, del giovanilismo dei movimenti anni Sessanta e Settanta.
Ma perché ragioni, stili e miti sono profondamente cambiati, a parte forse
l’eterna e bella icona di Che Guevara, simbolo dei dannati della terra. Ma è
appena un volto sopravvissuto di un mondo ormai scomparso, senza più i punti di
riferimento di allora, il comunismo o il terzomondismo. E come tale rischia
anche quello di finire tritato dal markcting. Anzi, è già successo. Ogni
generazione ha cercato di dare un nuovo senso alle vecchie parole, prima di
servirsene per cambiare il mondo. Ma nessuno aveva affrontato il problema, più
radicale, di togliere alla parola la funzione ormai quasi esclusiva di «vendere»
per restituirle quella di … Non ci crediamo più, alle parole. Trattiamo tutti
coloro che vivono di parole, politici, giornalisti, artisti, con la stessa
diffidenza a annoiata che si riserva ai piazzisti e ai venditori di
enciclopedie.
I
conflitti politici e culturali, una volta, passavano per il confronto di
linguaggi diversi. Gli studenti o gli operai che manifestavano negli anni
Sessanta dicevano cose diverse dai loro avversari, usavano una lingua «inaccettabile»
per le classi dirigenti. Oggi il potere ha imparato l’arte di usare la lingua
dell’avversario per togliere senso alla critica. A sentire i governanti del G8
o i dirigenti del Wto parrebbe che gli obiettivi di questi vertici siano
esattamente gli stessi di chi li contesta: la lotta agli squilibri del mondo,
l’aiuto ai paesi poveri, la tutela dell’ambiente. Sono bastati pochi cortei
(a Seattle in fondo erano soltanto cinquantamila persone) per convincere i
potenti della terra, governati come tutti sanno dalla pura logica del profitto,
a cambiare il marketing e ad adottarne uno al cui confronto impallidiscono non
solo i buonisti, ma perfino le dame di carità.
Lo
stesso uso paradossale delle parole invade a ogni livello la vita pubblica.
L’uomo più ricco d’Italia ha vinto le ultime elezioni raffigurandosi come
«un premier operaio». Il movimento più globale che sia comparso sulla scena
internazionale dal dopoguerra viene chiamato «no global». Eppure, in realtà,
i «no global» chiedono un rapporto diverso fra Nord e Sud, una miglior
distribuzione della ricchezza e una diffusione dei diritti: insomma, un mondo
decisamente più «globale».
E
paradossale un mondo dove circola il concetto di «guerra umanitaria», che poi
si è materializzato nella delirante pioggia di bombe miste a pacchi alimentari
sull’Afghanistan. Bombe che finiscono spesso sui civili che avrebbe bisogno di
aiuti e cibo che quasi sempre finisce ai militari nemici.
È
paradossale che chiunque critichi una politica di un governo degli Stati Uniti
venga definito «antiamericano». Se c’è una democrazia che ha sempre
esercitatola massimo livello il diritto di critica al comandante in capo, fino
agli estremi del Watergate, è proprio quella statunitense. Se un italiano
critica la politica statunitense in Medio Oriente non penso che ce l’abbia con
l’intero popolo americano. Woody Allen per esempio non c’entra e non credo
che Bruce Springsteen si senta offeso per conto di Bush.
In
un sistema come questo, dove tutte le parole finiscono nel magma della
sloganistica pubblicitaria, è forte la tentazione di comunicare altrimenti, in
silenzio, con il corpo, con i gesti soltanto. Il piercing è, da questo punto di
vista, una moda significativa. Perfino la muta e violenta protesta dei Black
Bloc è un tentativo
regressivo di uscire dalle moderne trappole della parola politica.
Ma
non sono grandi soluzioni al bisogno di esprimersi. Delle parole non si può
fare a meno. Bisogna fare lo sforzo di dare loro un nuovo senso. È una tremenda
fatica. Chiunque abbia provato a scrivere una lettera d’amore sa a che cosa mi
riferisco. Com’è bello, profondo, autentico, unico il sentimento che proviamo
mentre ci mettiamo a scrivere. E quanto è spesso brutto, superficiale, finto e
banale il risultato, una volta messo nero su bianco.
È
vero che ci sì può amare anche in silenzio. Ma alla lunga, diciamo la verità,
è molto, molto noioso.