La Luna rotola sui cornicioni

Scenari di congedo

di Beppe Mariano

 

recensione di

di Carlo Luigi Torchio

da «Cuneo Provincia granda» n 4 - 2000

 Ora, come in Lontana, nella trama dell'onda nevosa (p.46), il grande massiccio montuoso diventa l'emblema d'una "vita aperta alle avventure", o l'inmagine simbolica di sogni infranti: "residui di Monviso nei tuoi sogni" (p. 51). Ma i paesaggi non sono mai "asettici" o goduti per se stessi con gusto idillico o men che meno estetizzante. Rimandano costantemente ad una inquieta e inesausta ricerca di verità (piccole o grandi che siano).

Si veda la poesia Dalle lenzuola dimenticate (p.24), dove ricorrono quadri intensi di paesaggio attraverso notazioni tanto brevi, quanto incisive:

. . . Rotolano ingarbugliandosi nubi,/ si compone per un istante/ quell'altro profilo amato./ Già si è sfatto, un turbamento/ ne rimane. Il bucato trabocca/ dalle tue mani,/ s'invola/ è neve

L'autore non sfrutta né prende in prestito la tecnica dell'impressionismo. Mariano coglie con misura scorci di situazioni, passando abilmente dai primi piani agli esterni. Ma imprimendo o suggerendo una nota di malinconia profonda Così in Gracile verde nel recinto (p.32):

Gracile verde nel recinto/ da ogni lato si innalzano/ uniformi muraglie interrotte/ da simmetrici balconi/ infiorati come loculi

dove anche le note o le pennellate ambientali non appaiono fini a se stesse. Infatti i balconi sono "simmetrici", e il poeta si sorprende di vederli "infiorati come loculi". Oppure si veda questo notturno:

La Luna rotola sui cornicioni/ un poco versandosi nelle grondaie,/ si infradicia la terra più tenera/ sotto il pluviale delle massaie. . .

Non è, come dicevo, un impressionismo pittorico o cromatico, bensì legato, per così dire, alla sfèra dello spirito, nel senso che si colgono barlumi o sprazzi della vita dell'anima. Ma più spesso Mariano osserva e riflette. Senza voler fare della poesia gnomica, senza voler arrivare a tutti i costi alla sentenziosità, l'autore fa parlare (o lascia parlare) le cose, ne ricava verità:

Osserevato dal treno in corsa/ fugge il paesaggio/ immobile./ Anche la vita/ è un'illusione della prospettiva (p.9)

La conclusione, come si vede, non cade dall'alto, ma scaturisce spontanea, riflessa o suggerita dalle cose osservate. Briciole di verità nel gran mare dell'esistenza. E forse non solo briciole, nella misura in cui tante volte nelle piccole cose si rispecchiano le grandi. Notevole, per fare un altro esempio, in Ciò che sciaguatta alla deriva (p.47), l'interesse con cui Mariano rende il senso di frustrazione o di sconfitta che afferra l'uomo, quando riflette sul proprio passato:

Ciò che sciaguatta alla deriva/ è il corpo abbandonato di quella vita/ che abbiamo creduto fertile di avvenire

Ma non meno interessante, da questo punto di vista, la poesia Quanto pedalare senza mai arrivare (p 50), dove forse il verso non è tra i più belli né la lirica tra le migliori, e tuttavia rende bene certi aspetti dell'esperienza poetica di Mariano. Un'amarezza di fondo, un'inquieto interrogarsi, più spesso sui piccoli che sui grandi fatti della vita quotidiana per afferrarne qualche significato o un significato. O almeno per esprimere la malinconia di non trovare una speranza - o anche solo un miraggio - che faccia ancora palpitare il cuore come una volta. Lontani i tempi delle certezze, ora si nuota nel mare dell'incerto. Ma si continua a cercare, ci si ostina a voler capire, a strappare alle cose il loro segreto. Ma spesso la conclusione è pessimistica: Quanto pedalare senza mai arrivare!

E il verso ha almeno il merito di mettere in evidenza con la semplicità di un lessico familiare, la morale ultima che si ricava da questo epigramma.

Ma più spesso la vita appare come ridotta a un passivo scorrere di giomi, segnati da un congegno elettronico.

Il calendario non occorre neppure più sfogliarlo, ora: è lui a "defogliare" elettronicamente (p. 52), cioè come per un moto del tutto estraneo, si direbbe, alla mano dell'uomo. E sembra far sentire che la vita procede anche senza di noi, perché siamo una parte trascurabile dell'essere e dell'esistere. O forse perché non sappiamo più trovare valori in cui credere né abbiamo più miraggi da inseguire, o perché non sappiamo più:

Scoprire/ tra le tante la stella nuova/ nè la parola che brilla nel cicaleccio

E talora non riconosciamo neppure noi stessi, o ci troviamo ben diversi da ciò che eravamo (o credevamo di essere):

Dalla nostra vita di ieri/ ti sei distanziata/ per meglio osservarla/ per meglio osservarti credendo di sapere chi eri. (p. 26)

Oppure uno scopre un altro se stesso, di cui non aveva sospettato l'esistenza:

Osservato mi sento,/ perquisito... dall'altro me stesso (p. 15)

Tema non nuovo, anzi così caro a tutta la lirica simbolista. Altrove invece sono aspetti della vita quotidiana o fenomeni che si manifestano in un mondo assurdo, dove può nascere l'odio anche da situazioni futili. Come capita a volte che, dalla colonna di macchine in fila, salga con la rabbia di chi guida una sorda maledizione:

Ma ancora mi giunge dalle tue luci retrostanti un'insistita maledizione (p.36)

Mariano rappresenta, non giudica, non condanna né scrive sentenze, ma lascia che siano le cose a parlare. E la morale ne scaturisce da sola. L'autore sembra guardare sempre di più all'essenziale, teso com'è a distillare da fatti anche banali una lezione di vita:

Dal tuo eremo,/ al microscopio,/ scorgi brulicare l'altrui vita/ che indolore t'appare/ come un firmamento./ Fisa ti sei in una fredda stella (p. 38)

Si veda il brevissimo e denso Insisti nel cercare il punto (p.33). Detto - mi pare - di chi si affanna dietro al futile o all'occasionale, e intanto si scorda dell'essenziale. Si veda Sotto vari strati d'intonaco (p 25) uno dei migliori e più persuasivi:

Sotto vari strati d'intonaco/ abbiamo ogni volta scoperto/ un affresco diverso

così intenso nella estrema semplicità e chiarezza della conclusione finale:

E se per esso avremo infine/ sacrificato il migliore?

Si veda Riflessa nel quadro, dove realtà e fantasia si fondono tanto da non lasciarci più capire qual sia il vero dipinto: se cioè l'immagine ivi raffigurata o quella che il vetro riflette.

Da situazioni pratiche ( Ne tanto assorto alla guida, p.31) o anche banali, è frequente il trascorrere a significati per così dire, allegorici. Le più comuni circostanze riportano Mariano a interrogarsi sulla vita o sulla sua vita, a ricavarne briciole di verità, come si diceva, in concise sentenze. Dal riflesso nel vetro di un quadro o nello schermo spento del televisore, Mariano ricava una conclusione, incisiva quanto sobria per l'estrema stringatezza del discorso. E quasi sempre il suo è l'occhio triste di chi osserva soffrendo perché da tutto (anche dagli oggetti più comuni) gli viene un'amara constatazione. Sullo sfondo sta anche qui quella tristezza esistenziale di cui ho parlato a proposito di altri testi di Mariano (come «Ascolto dell'erba») (2).

L'occhio spietato del poeta coglie attimi di vita, e anche nelle cose che si fanno per abitudine intravede il riflesso di un vivere alienato, o per lo meno più non allietato dalla speranza. Non tanto da piccole speranze, ma da qualche grande speranza che dia senso e valore al nostro esistere. Si osservi come procede nella lirica Al ritorno dal mare in estate (p. 43). Si parte, nella prima strofe, osservando il bagliore dei fari, ma nella seconda il discorso si sposta sulla vita in generale. La costante di questi "epigrammi" è dunque il passaggio dalla osservazione di un fenomeno a riflessioni esistenziali - se non metafisiche.

Desolazione, solitudine e poesia

Vorrei concludere con qualche riflessione. È stato detto che il nostro tempo è, spiritualmente, un "tempo di povertà". Povertà di speranza soprattutto, perché siamo passati da quella che Hegel chiamava "l'ebbrezza del senso", e cioè la certezza trionfale che la vita avesse un senso, e cioè l'euforia data dalla cieca fiducia in una meta da conseguire (ciò che dava un senso all'esistenza) ad una visione nichilista dell'esistenza (3). Ieri le ideologie pretendevano di cambiare il mondo e davano una cieca, anche se illusoria, fiducia. Ma volendo essere totali, esse avevano finito col diventare totalitarie. E ciò ha segnato la malattia mortale delle ideologie stesse. Ma il volto dell'età postmoderna è un volto nichilista. Viviamo come spettatori in un tempo di deriva, se non di naufragio. Naufragio delle certezze e delle grandi sicurezze. Ha detto qualcuno che noi siamo come orfani di un sogno. Il nostro mondo soffre di frammentazione; siamo non di rado pervasi da un senso di inutilità. È una situazione di frustrazione, di decadenza (già avvertita nell'Ottocento da poeti come Leopardi, e tanto più sulla fine del secolo con l'avvento del Decadentismo), che consiste nella perdita di valori. Mancano grandi orizzonti: siamo malati di indifferenza. E ciascuno, prigioniero del proprio mondo, lamenta la solitudine. Solitudine di orgoglio, forse; ma solitudine sofferta comunque: ciascuno è prigioniero del suo individualismo. Mancano grandi ragioni per vivere insieme. Mi vengono in mente le cose che scriveva, un secolo fa, uno storico e critico famoso - Hippolyte Taine - parlando della Francia d'allora: "Oggi non esiste più una società, ma solo individui che si vivono accanto, [...] che hanno smarrito l'abitudine, I'arte e la capacità di agire insieme"; la nostra è una società in cui "nessuno sa più dove girare gli occhi per trovare una guida" (Les origines de la France contemporaine, 1876-94). L'umanità, oggi, ha soprattutto bisogno di speranza. Ma non di qualche speranza effimera.

Bensì della speranza in un futuro, della speranza che l'uomo, per quanto piccolo, faccia parte di un tutto. Della speranza che questo "tutto" abbia un senso, abbia un fine. Nella lirica del Novecento è evidente che l'angoscia nasce dal "buio" da cui siamo circondati, dal "non sapere" (come si esprime Montale), dal fatto di avvertire la vita come "male" (così Leopardi, così Montale) o come una "condanna" (Sbarbaro) o come una "triste buffonata" (Pirandello).

Si cerca un punto all'orizzonte che dia senso al cammino della storia. E forse la poesia col farci sentire una realtà a cui l'uomo d'oggi diventa sempre più estraneo, può contribuire ad illuminare il cammino dell'uomo. Se è vero ciò che è stato detto di Montale, e cioè che ha saputo "interpretare ed esprimere nel proprio dramma personale... il dramma di un'intera società d'uomini e d'una intera epoca" (4); se la poesia, come sosteneva Ungaretti, è sempre un miracolo (nel senso della etimologia latina, detto cioè di cosa prodigiosa, che sorprende o stupisce); se la poesia è qualcosa che fiorisce insospettata dove meno te lo aspetti, come un fiore bellissimo che magari compare d'improvviso sulle macerie desolate d'un vecchio edificio in rovina - questo è ciò che avviene sulla pagina di Mariano. Poesia che germoglia sulla desolazione di un mondo alienato o di un mondo in dissoluzione. Ed è per questo che i suoi versi si raccomandano alla lettura, ma ad una lettura riposata, ad una lettura meditata, che sappia restituire al testo tutta la carica umana e poetica che lui ha saputo infondergli.

Il cercatore d'amore
Ascolto dell'erba
La leggenda di Mòria
Il sorriso le lune del Monviso

NOTE

(1) B. Mariano, Scenari di congedo, "I Gherigli", Collana di poesia a cura di Giorgio Barberi Squarotti e Sandro Gros-Pietro, Torino 1996.

(2) Cfr. Lingua bella, lingua ardita nella lirica di Beppe Mariano, "AdOvest", Cuneo, ottobre 1996.

(3) Cfr. B. Forte, Speranza e cambiamento, Torino, 12 ottobre 1996, "Corso di formazione ecumenica"

(4) Come ha scritto Giorgio Caproni in Montale poeta-vate, "Letteratura", n. 79-81, 1996.

Notizie biografiche

Beppe Mariano è nato a Savigliano dove è quasi sempre vissuto. Ha insegnato storia del teatro per due anni, a Firenze, ed ha scritto di teatro, collaborando per quasi vent'anni a «La Gazzetta del Popolo», prima, e a «Stampa sera», poi. È stato redattore della rivista letteraria di risalto nazionale "Pianura" (diretta da Sebastiano Vassalli), successivamente redattore della rivista fiorentina di poesia "Salvo Imprevisti" (diretta da Mariella Bettarini) e de "La luna e i falò", diretta da Beppe Manfredi. Ha poi ricoperto l'incarico di direttore artistico del Teatro Toselli di Cuneo e nel 1987 un suo atto unico è stato vincitore d'un concorso nazionale e messo in scena dal Teatro delle Dieci a Torino. Per la sua opera poetica ha avuto riconoscimenti prestigiosi, come il premio "Città di Pisa" (1964), il "Pavese" per la poesia inedita (1990) e per il libro di poesie «Scenari di congedo» nel 1997. Con il poemetto «Elva» ha vinto nel 1992 Antiche come le montagne, che è stato musicato da Rita Portera. Il libro «Ascolto dell'erba» è giunto secondo sia al "Manzoni" sia al "Pannunzio" ed ha vinto il "Moncalieri".

Ha partecipato per tre volte alla "Biennale di poesia" di Alessandria, diretta da Giorgio Bàrberi Squarotti. E stato invitato alla "Festa Internazionale degli autori" di Cuneo nel 1999 e nel 2000 alle serate Olivettiane e a rassegne poetiche torinesi. A Cherasco, città natale della madre, ha collaborato al rapporto danza e poesia con la coreografa Graziella Zocchi.

Principali raccolte poetiche

Il «cercatore d'amore», Torino 1965; «Notizie dalla Castiglia», Siena 1987; «Ascolto dell'erba», Cuneo 1990; «La leggenda di Mòria», Savigliano 1993; «Scenari di congedo», Torino 1996. Sue poesie sono state comprese nell'antologia «Poeti piemontesi contemporanei», pubblicata in Romania a cura di B. Rombi e con introduzione di E. Gioanola, Cluj-Napoca 1998, così come nell'«Almanacco del Mito modernismo 2000», edito dal Comune di Alassio e curato da G Conte, T. Kemeney e S. Zecchi. Da segnalare infine il volumetto «Il sorriso e le lune del Monviso», Novi Ligure 2000 - che raccoglie testi composti tra il 1976 e il 1998 -, uscito alla fine del 2000. Le raccolte sono state presentate da: G. Bàrberi Squarotti, S. Vassalli, G. Luzzi, G. Ioli, B. Lanati, C. Fusero.

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