«Scenari di congedo»di Beppe MarianoRecensione di Carlo Luigi Torchioda «Cuneo Provincia Granda» n 4 - 2000 |
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Chi conosce Mariano sa che
il suo non è mai stato un discorso prolisso o
stemperato. E tuttavia qui ha ancora guadagnato in
sobrietà e stringatezza. Ma se in questi versi
c'è la concisione dell'epigramma, manca in
realtà - o non è prevalente - la
volontà di pungere o dissacrare. Il discorso resta
lirico (nel senso che la tradizione letteraria italiana
conosce: cioè di colloquio o di sommesso dialogo con
se stessi) nella misura in cui l'autore passa quasi sempre
dall'osservazione di un fatto o di un fenomeno alla
riflessione sulla vita e sulla condizione dell'uomo. E
specie su quella dell'uomo moderno. In fondo Mariano non fa
che interrogarsi, o interrogare le cose, per ricavare da
esse un filo, un senso, un messaggio. Rispetto alle poesie
precedenti sembra dunque avvenuto, per, così dire, un
processo di decantazione. La parola si è
come spogliata del superfluo
ed è arrivata sempre più a cogliere con
incisività quasi epigrafica. Le situazioni sono,
sì, varie e diverse, ma tese tutte a distillare
briciole di verità o qualcosa che riporti al valore
autentico delle cose. Mariano, a quanto pare, ha percorso
molta strada sia sul piano stilistico (acquisendo una
notevole sobrietà espressiva) sia sul piano dei
soggetti, approdando ad una scabra
essenzialità che
è il dono più grande della poesia. E a volte
è giunto a vedere con lucidità quello che
forse il nostro occhio non sa più vedere. E se il
Mariano precedente (quello, per
intenderci, di «Ascolto
dell'erba» e di «Mòria») ho dovuto
rileggerlo per apprezzarlo, questi «Scenari» (1)
mi hanno conquistato subito. Poetica
policromia Vorrei anzitutto fare
qualche osservazione in ordine ai motivi e ai soggetti di
questa lirica (che sono assai più vari di quanto a
prima vista verrebbe fatto di pensare), e alla sua visione
delle cose. La tastiera tematica di Mariano è
più ricca di quanto verrebbe fatto di sospettare,
sfogliando l'esile libretto o scorrendo le brevissime
composizioni (che non superano mai i 14 versi, e cioè
la dimensione di un sonetto, e raramente
eccedono la misura dell'ottonario). E i suoi orizzonti sono
più ampi di quanto possa parere a prima vista, a
giudicare dalla brevità dei componimenti o dal loro
numero limitato. È ben vero che in questi
«Scenari di congedo» non tutto è nuovo.
Questa raccolta infatti presenta un evidente legame con una
parte almeno della silloge precedente, perché
già in «Ascolto dell'erba» la sezione
finale si intitolava appunto «Scenari».
E le affinità non si
limitano al titolo, visto le coincidenze di vocabolario
(ritornano qui termini tipici di Mariano, come "sciaguatta",
"coitali", "tergiorizzonte"...) e il discorso conciso che
tende all'essenziale.
C'è una ripresa di sei versi - un intero componimento
-, ricupero significativo e a suo modo programmatico. In
«Ascolto dell'erba», infatti, Mariano
scriveva: dopo una
prosopopea di trombe prolungate/ alla fine ci intendiamo tra
rimproveri/ di
fari intermittenti e ostinati/
allo snodo divergiamo
per sempre/ ma
ancora mi giunge dalle tue luci/
retrostanti
un'insistita maledizione che qui, grazie alla
punteggiatura e a pochi ritocchi, diciamo così,
"metrici" (e cioè ad un diverso "taglio" del verso e
ad una più indovinata collocazione dei vocaboli)
diventa un epigramma con una sua
struttura compatta e
autosufficiente. La novità sta nel fatto che il
discorso ora si concentra e acquista in intensità.
Questi aspetti mettono certo in luce la coerenza
dell'autore. Ma nella nuova silloge si fa anche più
chiaro l'intenso lavoro di scavo interiore e l'affinamento
dei mezzi espressivi in vista di un risultato che, se non
è nuovo del tutto, tuttavia si fa apprezzare per i
risultati raggiunti, e soprattutto per la continuità
e la maturità stilistica. A volte, anzi, Mariano
ricupera testi non recenti, ma ben degni di essere
ricuperati, Come Vieni di corsa
lieve (p.45), poesia d'amore breve ma intensa con note
di delicata pittura. Qui
il discorso si dipana lungo il filo di un ricordo lontano.
Lontano, ma indelebile, da cui germoglia una poesia d'amore
senza frasi d'accatto, senza il ricorso a ritmi
precostituiti, che ha la delicatezza di un'antica lirica
greca: Vieni di corsa lieve/
quasi a non toccare il prato/ col torrente che la primavera/
scioglie rapinoso. Fiori di melo disperdi/ sulla sepoltura
delle macchine/ tronchi rami di pesco/ il mio roseto
insidi. Mio fiore rugginoso/
adulta bambina/ forse già domani t'involerai/ polline
d'una visione Mariano ha qui raggiunto
un esito di assoluta purezza espressiva, con mezzi di
estrema sobrietà. E
così pure ne L'estate arrugginisce lungo un
sole (p. 51 ) che mi sembra fra tutti uno dei più
suggestivi. In questo caso la figura
femminile è appena sbozzata, presentata com'è
soltanto di scorcio. E la donna "che si tiene all'albero",
"sferzata" dolcemente dalla pioggia, con i capelli disfatti,
si risolve in un'immagine icastica, nuova, originale,
potente: L 'estate arrugginisce
lungo un sole/ sghembo e abbreviato./ Le castagne
hanno tonfi smisurati. Restano trucioli d 'erba nel motore,/
residui di Monviso nei tuoi sogni/ .La pioggia ti ha
sorpresa,/ piacevolmente
sferzata, come l'albero /
cui ti tenevi,
nudità ebbra del suo nudo./ Ma nei tuoi capelli
ancora disfatti/ serbi
ardore d'agosto Ribolli, come mosto, in
amore. Si tratta di due poesie
non recenti (come abbiamo sospettato fin alla prima lettura,
e come ci è stato confermato dall'autore), ma rimaste
vive e fortunatamente ripescate e salvate.
Anche l'ambiente e il
paesaggio hanno la loro
parte in questa raccolta. Spesso ritorna il grande sfondo
alpino, quello di un Monviso maestoso, ma soprattutto
amiliare ("Ho in faccia il
Monviso materno").Ora
è il: Monviso
mozzato da nubi tempestose,
dal vento lapidato. . .