Gen. Giovanni Rotondi

STORIA DEL CASTELLO DI AVELLINO

 

A cura di Cirignano Florindo

S'ignora quando e da chi il castello fu edificato.  Il luogo in cui esso s'erge, basso ed angusto, è chiuso: ad ovest dalla collina “ la Terra", a nord e nord-est e a sud e sud-est da due dorsali selvose, che degradano a oriente verso la piana di Atripalda.

Certo il castello è fuori posto, come in una buca. Luogo acconcio sarebbe stato il rialto del duomo, ove, isolato, avrebbe avuto grande dominio morale, campo di vista in ogni senso, e molta forza difensiva: perché l'attaccante non avrebbe potuto trasportare con agio lassù macchine per dare la scalata o per aprire la breccia, e, quand'anche vi fosse riuscito, avrebbe corso poi rischio di venir ributtato giù pei ripidi pendii.

Se il castello fu costruito in quella bassura, e tra due dorsali su cui un'armata assediante avrebbe potuto collocare osservatori e trovare valido appoggio per opporsi ad eventuali atti controffensivi dei difensori della città, fu perché la collina “ la Terra ” era già gremita di case, e si volle elevare il castello a protezione immediata della città, proprio lì, nel settore est, da assalti di milizie o bande dirette contro Avellino e provenienti da Benevento o dalla Puglia o dalla Lucania o da Nocera o Salerno.

Come ci attesta il suo nome, Avellino fu fondata da profughi dell'antico Abellinum, che sorgeva a nord dell'odierna Atripalda, su quel pianoro che è chiamato: “ la Civita ”. 

Il padre Bellabona nei suoi “ Ragguagli della Città di Avellino ”, editi il l656 -libro 2, pag. 145 - dopo aver accennato alle scorrerie dei saraceni e ai danni che ne subì Abellinum, scrisse:“ ... per la qual causa, con licenza d'Aione, principe di Benevento, li 887 lasciarono i cittadini d'abitar il primo luogo, e passarono a far gli edifici dove or si vede la città... ”. Egli ripeté la medesima affermazione nelle pagine 137, 141 e 142 del  II° libro stesso e a pag. 293 del 4° libro, citando sempre per fonte la “ Storia dei Longobardi di Benevento ”, del nobile di Teano e monaco cassinese Erchemperto, vissuto appunto verso la fine del IX secolo. Però il Bellabona avvertì pure, nel libro 2°, a pag. 142, che questa storia non era stampata e che egli la possedeva manoscritta.

Orbene, né la prima né l'ultima edizione dell'opera d'Erchemperto (pubblicate rispettivamente dal Pellegrino nel 1643 e dal Pertz nel 1839) riportano la notizia in esame.

 E' lecito pensare, quindi, che la storia in possesso del Bellabona, intestata al nome d'Erchemperto, contenesse anche interpolazioni d'altri anonimi autori. Viene a mancare così quell'elemento, circa l'anno in cui sarebbe avvenuto l'esodo da Abellinum e sarebbe stata fondata Avellino, che sinora si era ritenuto sicuro.

 Il documento più antico, finora rinvenuto, relativo a persone o cose della nuova e non della precedente città, è una carta notarile dell'891 riportata dal prof. Scandone nella sua “ Storia di Avellino ”, a pag. 86.

In ogni modo Avellino non cominciò a figurare come fortificata che verso la fine del IX secolo.

 Pel primo forse v'alluse Erchemperto nella sua autentica “ Storia dei Longobardi di Benevento ”, laddove riferì che nell'888 il principe Aione venne con tremila uomini, “ castrum in Abellinum ”, donde poi si spinse nella Campania contro il duca Atanasio di Napoli. Però io sono d'avviso che Erchemperto abbia voluto significare che Aione fosse venuto non nel castello o nella fortezza d'Avellino, ma, come è più logico, a “ mettere  campo ”, ad “ accamparsi ”, coi suoi tremila uomini, ad Avellíno .

 Successivamente v'accennarono la “ Cronaca di s. Benedetto ” e la “ Cronaca Salernitana ”, senza dare adito ad incertezze, poiché, nel narrare l'episodio di Guaimaro, svoltosi ad Avellino nell'896, usarono l'espressione: “ oppidum Abellinum ” .

 Inoltre la cronaca di s. Benedetto mise in rilievo che Guido Il di Spoleto mosse allora da Benevento e, con grandi forze -“ machinis et diverso oppugnationum apparatu ” - investì la città. Ora è ovvio che, se Avellino era “ oppidum ” e se Guido venne ad assedíarla con macchine di guerra, ciò vuol dire che Avellino era cinta di mura.

 Inoltre sta di fatto che in quegli anni molte città del principato si fortificarono. Il prof. Pochettino nella sua recente magistrale opera “ I Longobardi nell'Italia Meridionale ” afferma, a pag. 364, che tutte le nostre città, e perfino i villaggi, quali sullo scorcio del IX, quali nel X secolo, per salvaguardarsi dai frequenti attacchi di saraceni o di bizantini o di briganti, elevarono mura o castelli. In tal 'epoca era già avvenuta una certa fusione tra' longobardi e le popolazioni soggette e quindi v'era ormai un comune interesse a fortificarsi. 

I suddetti elementi portano dunque a ritenere che Avellino abbia eretto proprio verso la fine del IX secolo le sue mura ed il suo castello.

Avellino si formò sulla collina “ la Terra ”. Questa non era però allora quale si presenta oggi.

Se si guarda una pianta topografica della città si scorge subito che la gradinata di s. Francesco Saverio e quella di s. Antonio Abate ad un dipresso si corrispondono, e che il Riocupo a nord ed il Fiutimicello a sud, che scendono da ovest, giunti ai piedi di queste due gradinate, vi si addentrano. Evidentemente, quindi, la massa compresa tra il Riocupo ed il Fiumicello era, a valle di tale inflessione, tutta un'altura. E, se si dà un'occhiata dall'atrio e dalla scala del palazzo Tango-Vetroni al terrapieno che è a tergo, si vede che esso non finiva naturalmente lì, ma che fu tagliato. 

Pertanto il solco che è ora la via Umberto I, in origine non esisteva. Invero il 1821, nell'approfondire tale via, si trovarono nel sottosuolo avanzi d'antiche case e di sepolcreti : il che prova che in origine vi sorgevano abitazioni e chiese.

Il solco venne scavato intorno al 1275, d'ordine di Carlo I d' Angiò per far passare proprio per la città la grande strada “ Regia ” o “ della Puglia ”.Ma dopo esso fu ancora approfondito, e anche allargato, altre volte; così nel 1821, quando si die' inizio alla strada Avellino- S. Angelo dei Lombardi-Melfi, e nel 1863, allorché la via I e quella dei s.ti Pietro e Paolo vennero lastricate. La fontana Caracciolo stava più in alto; la attuale via Umberto 1, mentre davanti alla chiesa di s.ta Maria di Costantinopoli arrivava al piano della chiesa, viceversa poi, presso il castello, s'abbassava al disotto dell'attuale livello stradale; e la via dei s.ti Pietro e Paolo scendeva con ripidissima pendenza dal castello a Porta Puglia. Fu appunto coi successivi lavori del 1821 e 1863 che la fontana Caracciolo fu portata ad un piano più basso, e le due vie Umberto 1 e s.ti Pietro e Paolo vennero corrette nei loro dislivelli e portate allo stato attuale.

Pertanto la collina “ la Terra ”, quando sorse Avellino, era, nella sua parte elevata, ben più ampia che non oggi, che appare come spezzata in due parti: e cioè nel rialto del duomo e nel solco di via Umberto. Ed era anche meno alta, come ci attestano il pavimento della chiesa dei “ Sette Dolori ” - che è forse la chiesa più antica della città - e il fatto che nel 1874, nel demolire alcune case per allargare la “ Piazza dell'Ospedale ”, si scoprì che queste poggiavano su ruderi di altre che si trovavano ad un livello inferiore.I tre versanti nord, sud ed est erano nei passati secoli assai ripidi. Ce lo mostrano: la ripa che è sul rovescio della chiesa del Sacramento, la gradinata di s. Antonio Abate, il sottoportico della chiesa di s.ta Maria di Costantinopoli, la gradinata del Molinello e la rampa, che, fuori

della città, scende dal vecchio palazzo de Conciliis al ponte sul Riocupo. Anzi il versante est finiva a picco, come si rileva da un' antica stampa, là dove ora sono le case che affacciano sul“ Largo del Castello ”.

Avellino fu distrutta o messa a rovina più volte, sia per eventi di guerra, sia per terremoti, e quindi venne anche più volte ricostruita, subendo modifiche rispetto alla struttura precedente. Così, per esempio, la via e la piazza del Duomo non furono aperte che tra il 1753 e 1758.
Per tutto ciò oggi la plastica del suolo è ben diversa da quella dei primi tempi.

E anche il Riocupo ed il Fiumicello, che lambiscono la collina a nord e a sud, avevano nei passati secoli un maggior volume d'acqua ed erano soggetti a piene: è ancor vivo nella popolazione il ricordo della grande piena del 1878, che devastò campagne, case e chiese.

Insomma, quando fu fondata Avellino, la collina “ la Terra ” era abbastanza ampia, a contorni definiti, e, meno che a nord-ovest, isolata e a versanti molto ripidi.

Benché tutta raccolta sulla collina “ la Terra ”, la città non era ugualmente sicura da tutti i lati.Se essa non correva pericolo a nord e a sud, dove i versanti erano scoscesi e il Riocupo ed il Fiumicello facevano da fossato, viceversa ad ovest e ad est si presentava di possibile attacco: ad ovest, perché ivi la collina si saldava ad una zona pure elevata, ossia a quella di s. Eramo (dogana), del Carmine, delle Oblate, ecc.; e ad est, perché qui il versante, scendendo, si raccordava alla zona piana che adduceva all'antico Abellinum.

 

Fin dall'epoca romana, la collina veniva lambita a nord dalla “ via Campanina ” che portava: ad ovest: a Mercogliano, e di lì, per Campo del Calice, Mugnano, Avella, Nola, a Capua (attuale Santa Maria); e ad est: ad Abellinum. Però, all'altezza di Mercogliano, si distaccavano dalla via Campanina altre due strade: una che, per Forino, scendeva a Lauro e sulla via Nola‑Napoli; e l'altra, posteriore, che, per Summonte, Roccabascerana e Montesarchio, menava anch'essa a Capua. E da Abellinum transitava la “ via Pupiliana ” o “ Maggiore ”, la quale conduceva: a nord, a Benevento, e a sud, a Nocera e Salerno; e ne partiva ad est la “ via Domizia ”, che recava, per Luogosano, all'Appia, donde poi in Puglia o al Medio Ofanto.

Così Avellino, sorta di fianco ad una strada, la via Campania, e tra i due centri stradali di Mercogliano e d'Abellinum, era esposta ad attacchi sia da ovest che da est.Specialmente nella seconda metà del IX 5ecolo e nella prima del X la regione fu teatro di gravi eventi, che occorre riassumere per inquadrare le origini del castello nella storia regionale.

Nell'849 scese l'imperatore Ludovico II con un esercito per porre pace nel principato longobardo di Benevento, da dieci anni in preda alla guerra civile, e per debellare i saraceni, che, chiamati in tale guerra e arsa Capua, s'erano poi messi a compiere scorrerie per proprio conto. Ludovico batté i saraceni e divise il principato in due:

·        quello di Benevento, che comprese Abellinum,

·        quello di Salerno, che comprese Capua. 

Però il conte Landolfo di Capua rese la contea indipendente e l'accrebbe d'altri paesi. Ma, partito l'imperatore, i saraceni mossero dalle loro basi di Taranto e Bari in quattro colonne. Una corse la Campania, una la Puglia, un'altra la Calabria e l'ultima gli Abruzzi. Esse spogliarono o distrussero città, villaggi e badie. Quella della Campania saccheggiò il monastero di s. Vincenzo al Volturno e Venafro, e investì la badia di Montecassino, che, per liberarsene sborsò un elevato tributo.

Peraltro il principe Radelchi, che teneva al suo soldo la banda di Masar in Benevento, venutone in sospetto, la fece massacrare.

L'852 Ludovico Il ritornò e cinse d'assedio Bari, ma questa resistette, ond'egli, tolto l'assedio, se ne risalì a Pavia. E anche il principe Adelchi di Benevento si spinse contro Bari, ma fu battuto e dovè ritirarsi, inseguito dai saraceni.

Successivamente Mofareg-ibn-Salem uscì da Bari con la sua orda, irruppe nella Puglia, nella Calabria e nel Beneventano, e vi compì ruberie e stragi spaventose; mentre che Abbas-ibn-Faid  con un'altra banda, da Taranto irrompeva nel territorio di Salerno. 

E in quegli anni scoppiarono anche discordie e torbidi a Salerno e nella contea di Capua, e corse pure guerra tra questi due stati. Anzi nell'859 Ademaro, principe di Salerno, tentò di distruggere Capua nuova.

Nell'862 Mofareg si mosse da Bari, con la sua banda, arse per via Minervino, Ascoli, ecc., s'avvicinò a Benevento e costrinse Adelchi a comprare la pace, ossia ad impegnarsi a corrispondergli un annuo tributo e a dargli numerosi ostaggi tra' quali la figlia; indi ridiscese a sud, saccheggiò Abellinum (o Avellino), e poi, passato in Campania, mise a guasto Suessola, Calatia, ecc., finché non venne sconfitto, dal vescovo- conte Landolfo II di Capua, a Cimitile e a Cancello.

Mal poco dopo, i saraceni, mentre tornavano da una loro scorreria, carichi di bottino, furono assaliti, sicché dovettero aprirsi il passo combattendo. E allora Mofareg-ibn-Salem accusò i beneventani  d'aver  rotto i  patti e  devastò Telese, Alife, Sepino, Bojano, Isernia, Venafro, e Capua e Teano; e di più impose al monastero di s. Vincenzo al Volturno e a quello di Montecassino di sborsargli ciascuno tremila aurei.

Nell'862 pure Ludovico Il ridiscese nell'Italia Meridionale, per punire due vassalli ribelli che si erano rifugiati a Benevento: compì vandalismi a Isernia e ad Alife, occupò di viva forza s.ta Agata e mise a guasto altre terre del principato. Quindi se ne tornò a Pavia. Ma i saraceni ripresero vigore. Una banda saccheggiò Suessola, Calatia, Cancello, ecc., e una Matera e Conza; un'altra si spinse da Benevento verso Roma e un'altra ancora razziò la Puglia sino al Gargano. E tutte e quattro rientrarono alle loro basi con un gran bottino.   

Nell'865 Ludovico Il ritornò per cacciare i saraceni, si stabilì a Benevento, strinse d'assedio Bari e nell'871 la espugnò facendo strage dei saraceni.

Ritornato tra' trionfi a Benevento, riprese alloggio, con l’ imperatrice e il seguito, in una villa fortificata fuori delle mura. Ma ben presto la sua presenza divenne fastidiosa. Egli esercitava un potere di sovrano diretto, voleva che s'adottassero monete con la sua effigie, e mirava a rendere i principi longobardi e i duchi delle nostre città marinare  niente altro che funzionari dell’impero. L'imperatrice era arrogante ed insolente e minacciava di sbalzare dal trono Adelchi. Le milizie imperiali eseguivano requisizioni senza pagarle, molestavano le donne ecc. . I soldati, allo scioglimento dell'esercito per compiuto servizio, si formavano in bande che si davano al brigantaggio. Per porre fine a tale stato di cose, il principe Adelchi, spinto anche dal principe di Salerno, dal duca di Napoli, ecc., fece attaccare di sorpresa, dal popolo, la villa imperiale, e, dopo tre giorni di lotta, ebbe prigionieri Ludovico, l'imperatrice e le persone del seguito, e li tenne tutti chiusi o tra' ceppi, per 40 giorni, nella rocca, e non li liberò, se non dopo d'aver fatto giurare all'imperatore che non si sarebbe vendicato e che non sarebbe mai più venuto nelle nostre terre.

Ma ventimila saraceni, nello stesso anno 871, sbarcarono dall'Africa a Taranto e avanzarono in due colonne: una, con Abdallah, invase l'Irpinia e la Campania, si spinse verso Capua e Napoli, e poi, combattendo contro Adelchi, s'accampò sotto Benevento; l'altra, con Ribah, mise a guasto alcune terre e cinse poi d'assedio Salerno.  Nell'872 Ludovico II ridiscese, si diresse su Salerno, sgominò i saraceni che la investivano, e dopo si volse verso Benevento, e pose l'assedio alla città. Ma il principe Adelchi vi resistette; l'imperatore lo perdonò e se ne risalì a Pavia. 

Dopo tre anni, nell'875, moriva a Brescia. Ma altri saraceni sbarcarono a Taranto, e, con a capo Othman, corsero la Puglia, l'Irpinia ed il Sannio sino ad Alife e Telese. Allora le popolazioni della Puglia chiamarono in loro aiuto il bajulo Greorio, dei bizantini d’ Otranto, il quale nell’ 876 avanzò su Bari, vi si stabilì, la fortificò, e di là estese il suo governo sui paesi a nord. 

Intanto il duca Sergio Il di Napoli, quello d'Amalfi, ecc., avevano stretto alleanza coi saraceni. Dato ciò, il principe Adelchi, sconfitto da una banda all'Ofanto, fece pace ed entrò anche lui nell'alleanza. E il conte di Capua ne seguì l'esempio.

Il papa Giovanni VIII nell'877 riuscì a formare una lega contro i saraceni, però né il duca di Napoli, né Adelchi vi parteciparono. E la lega batté solo i saraceni annidati al capo Circeoe poi si sciolse. 

Nell' 878 Adelchi fu ucciso, in seguito a congiura, e venne gridato a Benevento principe, non il figlio, Radelchi, ma un nipote, Gaiderisio. 

L' 879 il duca Sergio di Napoli irruppe, coi saraceni, nel Salernitano e infierì su San Severino, Sarno, Montoro e Giffoni, ma fu poi sconfitto a Nocera. Nello stesso anno si accendeva nella contea di Capua, per motivi di successione, una lotta tra i dinasti stessi. Ma, il papa Giovanni VIII proclamò la sua sovranità su Capua, che gli era stata concessa dal nuovo imperatore Carlo il Calvo. Allora il principe Guaiferio di Salerno reclamò i suoi diritti di supremazia su quella contea, e, con l'appoggio dei saraceni e delle milizie beneventane, attaccò e prese Capua vecchia, che fu arsa per la seconda volta. 

Nell' 880 il principe Gaiderisio venne detronizzato e il già escluso Radelchi Il ne ebbe la corona. 

I saraceni ripresero ardire, e costituitisi man mano altri covi a Cetara, tra Salerno ed Amalfi, a Sepino, in quel di Spoleto, all'anfiteatro di Capua, al Vesuvio, ad Agropoli ed in ultimo a Monte Argento, presso la foce del Garigliano, sparsero il terrore. Per altro essi nell' 880 perdettero la comoda e grande base di Taranto, che fu espugnata dai bizantini. 

I saraceni del Vesuvio, nell' 881, al comando di Soheim, distrussero del tutto il monastero di s. Vincenzo al Volturno, e, cacciati dal duca Atanasio di Napoli, si vendicarono saccheggiando Nola e Salerno.

L' 883 il principe Radelchi II di Benevento fu deposto da una sommossa e venne assunto al trono il fratello Aione; ma nello stesso anno comparve un nuovo nemico: Guido II, duca di Spoleto. Guido, entrato nella clientela dell' imperatore d' Oriente, piombò più volte, con numerose forze, nelle nostre regioni, per farvi conquiste per conto suo. Egli sconfisse i saraceni di Sepino, s'intromise a favore di Capua nella guerra che essa sosteneva con Napoli, e, occupata Capua vecchia, se la tenne per sé. Indi, nell'884, si volse contro Benevento, la investì, la prese e, cacciatone il principe Aione, vi si stabilì da signore. Però ben presto i beneventani si ribellarono: arrestato Guido, coi suoi ufficiali, in una chiesa, l'obbligarono ad andarsene, e richiamarono Aione. Così pure Capua si sottrasse al dominio spoletino.

Anche Guaimaro I, principe di Salerno, entrò nell'887 nell'orbita degl'imperatori d'Oriente; ma, invece degli sperati vantaggi, dovette accogliere a Salerno funzionari e presidio bizantini.

Intanto i bizantini di Bari occuparono di viva forza alcune terre della Pulia soggette a Benevento. Epperò Aione si diresse contro Bari e la cinse d'assedio. Per allontanarlo di là, i bizantini indussero il duca Atanasio di Napoli ad invadere il principato da ovest. Aione, 1’888, lasciò l'assedio, e con tremila uomini venne ad Avellino, donde scese nella Campania. Ma non poté colpire Atanasio, che, avvertito, s'era ritirato; allora si volse verso Capua vecchia, la liberò dalle milizie napoletane che l'avevano investita e la diè ad Atenolfo conte di Capua stessa. Indi Aione ritornò sotto Bari e, aiutato dagli abitanti che si sollevarono, la prese, ne riattò le fortificazioni e ristabilì il dominio longobardo in quella zona. 

In seguito alla perdita di Bari, giunse da Costantinopoli con un esercito lo straticò Costantino, il quale nell'888 attaccò Aione a Siponto, lo costrinse a chiudersi in Bari e infine ad arrendersi e a dichiararsi vassallo dell'imperatore di Oriente.

Poi i bizantini, agli ordini di Niceforo Foca, misero guarnigioni in varie città dei due principati.

Nell' 890 morì Aione e gli successe, sotto reggenza, il figlio Orso, che aveva appena dieci anni.  

Profittando di ciò, il protospatario Simbaticio, l'891, avanzò dalla Puglia, pose l'assedio a Benevento, e, con lusinghe e promesse, la indusse a sottomettersi, ne espulse Orso e la elevò a propria sede di governo. Indi egli estese l'autorità sua su Siponto e altre terre.

In tal modo la potenza bizantina divenne preponderante nel. l'Italia Meridionale. 

Ma nell' 892 il patrizio Giorgio sostituì Simbaticio, e, per completare le conquiste, si diresse su Capua. Però Atenolfo ne respinse gli attacchi. Nello stesso tempo Guaimaro 1, timoroso che il protettorato dell'imperatore d'Oriente su Salerno si trasformasse in vero dominio, mise in campo anche lui milizie contro i bizantini. Giorgio l'893 fu battuto e ferito, morì. 

In attesa del successore assunse il governo di Benevento il turmarca Teodoro. Per la brutalità sua e per le prepotenze che commettevano le sue soldatesche si formò, in Benevento e fuori, una larga congiura per cacciare i bizantini, con a capo il principe Guaimaro di Salerno, che chiamò in appoggio Guido Il di Spoleto suo cognato. 

Guido scese con un esercito, ingrossato dalle milizie dei due principati, strinse d’assedio Benevento e nella 895 la prese. Egli concesse a Teodoro salva la vita contro un tributo di cinquemila aurei. Aiutate da Guido e da Guaimaro, anche le altre città si liberarono dai bizantini.

Così cessò nelle nostre terre il dominio dell'impero d'Oriente. 

Guido s'assise a Benevento da sovrano e vi rimase un anno e otto mesi. Prima d'andarsene, tentò di riunire in uno solo il principato di Benevento e quello di Salerno, sotto lo scettro di Guaimaro I; ma il tentativo fallì per opera d'Adelferio, conte di Avellino, che abbacinò il principe Guaimaro.

Guido poi partì e affidò Benevento al vescovo Pietro: venne eletto re a Pavia e dal papa fu poi incoronato imperatore di Roma.

Allora gli abitanti d'Avellino, spodestarono il loro conte Adelferio, che si ritirò a Capua.

Dopo un anno Guido morì ed il figlio Lamberto ne cinse la doppia corona. 

Nell' 897 l'imperatrice vedova Ageltrude scese con una grossa scorta a Benevento, per far

rimettere sul trono l'espulso principe Radelchi II, suo fratello, e vi riuscì, riaffermando però l'alta sovranità della casa spoletina sul principato

Radelchi non seppe contenere nelle loro pretese i magnatí che l'avevano appoggiato, e, d'altra parte, si prese subito vendette contro coloro che gli erano stati avversi. Esiliò i Rotfrid, i Potelfrid, ecc. e mise ad Avellino, al posto d'Adelferio, il conte Siconolfo, acerrimo nemico dei Rotfrid. Per questo e perché ligio vassallo di Lamberto, Radelchi si rese ostili la nobiltà ed il partito nazionalista. E gli esuli affluirono a Capua, dove il conte Atenolfo li accolse con gran favore. Per la qual cosa, irato, Radelchi mandò truppe beneventane e una banda di saraceni contro Capua, che era già in guerra col duca di Napoli. Ma Atenolfo ne ruppe gli attacchi.

Intanto morirono l'imperatrice Ageltrude e Lamberto, e così Radelchi II perdette la protezione della casa spoletina. I cittadini di Salerno, stanchi del cieco e crudele Guaimaro I, pensarono di sbalzarlo dal trono e di chiamare al suo posto il conte Siconolfo d'Avellino, che aveva a Salerno larga parentela. Il colpo fallì. Però l'889 il figlio di Guaimaro, Guaimaro II, costrinse il padre ad abdicare.

 Dato l'odio formatosi contro Radelchi, i magnati di Benevento e gli esuli si volsero ad Atenolfo di Capua, che appariva come l'unico dinasta capace di far risorgere la potenza longobarda, e strinsero accordi con lui. All' inizio del 900 Atenolfo avanzò, con un'armata, sotto Benevento. I congiurati gli aprirono di notte le porte e incatenarono Radelchi. Atenolfo entrò e fu proclamato dai magnati e dal popolo principe di Benevento.

 Atenolfo riunì in un solo stato, la contea di Capua ed il principato di Benevento, tenendoli però tra loro distinti. Mise fine all’anarchia e ai torbidi cominciati nell'839, diè forza al potere centrale, s'impose ai magnati e ai gastaldi ecc. Ma elesse Capua a sua sede, e pertanto Capua divenne la capitale di fatto, il centro politico e militare del doppio principato, mentre Benevento divenne città subordinata, secondaria.

Per altro restarono ancora in campo i due precedenti e molesti nemici: i saraceni ed i bizantini.

In effetti i saraceni d'Agropoli e quelli del Garigliano si ridestarono.

Atenolfo, per tenerli a bada, formò nel 903 una lega col duca di Napoli e con quello d'Amalfi, ma le milizie della lega furono battute al Garigliano. Allora Atenolfo si volse per aiuti all'imperatore d' Oriente, ma gli aiuti non vennero. Morto Atenolfo nel 910, il figlio Landolfo riprese la lotta contro i saraceni, ma, non appoggiato né dal duca di Napoli. ne da altri, conseguì scarsi risultati.

 Intanto nel 910 i saraceni dei Garigliano e di Sepino compirono scorrerie fino alle porte di

Roma e a Orte e Narni; e quelli di Bojano e del Gargano si gettarono su Canosa, Siponto, Venosa, S. Angelo, Frigento, Taurasi ed Abellinum .

Il papa Giovanni X fece appello ai vari dinasti per debellare i saraceni. E Guaimaro Il di Salerno e poi il marchese di Spoleto batterono: il primo quelli d'Agropoli e l'altro quelli di Sepino e Bojano, obbligandoli a riparare tutti alla foce del Garigliano ove si concentrarono anche i superstiti d'altre bande. Così si formò là un vasto accampamento  che venne pure fortificato e messo, mercé il fiume, in comunicazione col mare.

Finalmente il papa Giovanni X riuscì a costituire una grande lega coi bizantini, coi principi di Capua e Benevento e di Salerno, e coi duchi di Napoli, Gaeta e Spoleto. Però l'imperatore d'Oriente, per concorrervi, volle che questi dinasti si dichiarassero suoi vassalli. Le milizie della lega sotto il comando del marchese Alberico, nel 915 cinsero d'assedio il “ ribát ” del Garigliano, mentre la flotta bizantina incrociava presso la costa. I saraceni resistettero per tre mesi, poi, dato fuoco alle capanne, tentarono di aprirsi un varco, ma, stretti da ogni lato, furono quasi tutti uccisi o tratti schiavi.   

I bizantini della Puglia non seppero né fronteggiare i saraceni del Gargano, né amicarsi le popolazioni, anzi le inasprirono con inique esazioni e con atti di crudeltà. Pertanto alcune popolazioni si ribellarono. Il principe Landolfo di Capua ne trasse profitto e, pur dichiarandosi sempre vassallo dell'imperatore d'Oriente, occupò delle terre pugliesi; ma la corte di Bisanzio lo indusse a restituirle, facendogli promesse che però non mantenne. Landolfo allora, nel 923, disdisse il protettorato bizantino. Guaimaro Il di Salerno e i duchi di Napoli, Gaeta ed Amalfi fecero lo stesso.

Il 923 bande di slavi sbarcarono agli approdi del Gargano, facendo incursioni, tra il 924 e il 926, nella Puglia e nel Beneventano, e il 940 su Capua, Sarno e Nola.

Nel 929 scoppiarono a Bari e in altre città moti antibizantini. Landolfo e Guaimaro v'accorsero, con le loro truppe, cacciarono i bizantini e v'affermarono, col consenso delle popolazioni, il proprio dominio.

Dato ciò, l'imperatore d'Oriente allestì un grande esercito e lo mandò, sotto il comando dello straticò Nuscolo, in Puglia. Nufitto vinse e fece prigioniero Landolfo, ma a sua volta fu poi sconfitto da Teobaldo di Spoleto, e poi ucciso in una successiva fazione. Però dopo, d'ordine del re d'Italia, Teobaldo si ritrasse a Spoleto; e Landolfo, perduto il suo appoggio, nel 937 restituì Bari ai bizantini e accettò di nuovo il protettorato dell'imperatore di Oriente. Nel 940 anche Guaimaro Il di Salerno si sottomise ai bizantini.

Così i principati longobardi ricaddero, ma non per molti anni, sotto la supremazia dell'impero d'Oriente.

Gli eventi ora descritti ci pongono in grado di ritornare a ragion veduta sulle questioni che c'interessano.

Cominciamo da quella che riguarda l'abbandono dell' antico Abellinum.

Abellinum aveva templi, case popolari e case signorili, edifizii pubblici, mura: s'individua pure oggi il perimetro della città e ne sono ancora bene in vista alcuni avanzi dell'anfiteatro e un lungo tratto di mura con due torri. Di più Abellinum era luogo di raccordo di quattro strade e quindi era anche centro commerciale e punto strategico. Ma sorgeva su d'un pianoro basso e in una zona, la piana d'Atripalda, aperta in tre lati, e di facile attacco.

Abellinum, come si rileva dalla serie dei suoi vescovi, che finì il 541, e dalle lapidi, con le date: 543 e 558 trovate tra' suoi ruderi, il 558 era in piedi.

Però con  questi dati s'interrompe o finisce pure la sua vita.  E una  città  dal  nome “Abellinum ” non torna a figurare che verso la metà del IX secolo, in cronache o in carte, in guisa da potersi intendere sotto tal nome la nuova Avellino.

Pertanto qualche storico sostiene che l'antico Abellinum fu distrutto dai longobardi, allorché costoro vennero nelle nostre contrade.

I longobardi, scesi da nord, occuparono il 570 Benevento, e dopo, con successive conquiste, costituirono, in appena venti anni, un ducato, che abbracciò il Sannio, l'Irpinia, e parte della Campania, della Puglia, della Lucania e del Bruzio. Le popolazioni s'arresero loro senza opporre molta resistenza, sia perché si trovavano assottigliate e depresse per le guerre, le carestie, le pestilenze, le inondazioni, ecc., sia perché speravano d'essere dai longobardi liberate dalle prepotenze dei bizantini. 1 longobardi si impossessarono degli edifizii pubblici, del terzo delle abitazioni, di tutte le terre demaniali, dei patrimonii delle chiese e di quelli dei cittadini uccisi o esulati; imposero ai proprietarii dei fondi di corrispondere il terzo dei prodotti; assoggettarono a tributi mercanti e artigiani; e stabilirono il proprio dominio raggruppando i varii paesi in gastaldati. Indi essi nel 581 si spinsero, ma senz'esito, contro Napoli, e nel 585 presero Capua e nel 635 anche Salerno. 

Ciò premesso, io sono d'avviso che i longobardi non distrussero Abellinum: 1) perché la notizia della distruzione d'un antico capoluogo sarebbe stata registrata dalle cronache medioevali; 2) perché non avevano né ragione, né interesse a distruggerlo. 

Certo Abellinum si arrese subito ai longobardi. Infatti era, per la sua ubicazione, di facile attacco e, forse, era stato già smantellato nelle mura da Totila nel 542, come Capua, Benevento, ecc.; non aveva vescovo, e cioè chi incitasse a far resistenza; e aveva, come le altre città, una popolazione stanca dei bizantini e ridotta e depressa dalle guerre, dalle carestie, pestilenze, ecc.; epperò non poteva avere né forza, né voglia d'opporsi. D'altra parte conveniva ai longobardi stessi che la città continuasse ad esistere.

 In effetti Abellinum oltre a consentire ai nuovi venuti di sistemarsi con larghezza e oltre a metterli in possesso di tributi sicuri, costituiva, quale centro stradale e a metà marcia tra Benevento e Salerno, un punto di transito, di sosta e d'appoggio, sia per procedere a conquiste verso Salerno, e anche verso Napoli, la Lucania e l'Ofanto, sia per collegare poi con Benevento i paesi conquistati. II longobardi avevano dunque ragione di fortificare Abellinum, non di distruggerlo. 

E' vero che la serie dei suoi vescovi finì il 541, ma non è questo un elemento da cui possa dedursi che la città abbia cessato di esistere. In quell'epoca, per cause non ancora chiarite, ben novanta sedi d'Italia, secondo l'abate Duchesne tra le quali Benevento, perdettero il loro vescovo. Altrettanto è a dirsi del. mancato rinvenimento tra i suoi ruderi di lapidi di data posteriore al 558: senza dubbio molte lapidi andarono disperse e altre potrebbero ancora trovarsi ove venissero compiuti lavori di scavo. E' probabile, infine, che coi longobardi, che erano d'altra civiltà, si sia limitato addirittura nei primi secoli l'uso di porre lapidi. 

Un Abellinum ebbe a gastaldo il gran Rotfrid dall' 832 all'839. Rotfrid era cognato e cancelliere del principe Siccardo di Benevento, era l'uomo più potente ed ambizioso dello stato; e pertanto quell'Abellinum dovette essere l'antica, ragguardevole città, e non l'attuale Avellino, che, se già esisteva, non poteva avere allora che poche e povere case. E un Abellinum figura saccheggiato, dai saraceni l'862: e anche qui credo che sotto tal nome si debba intendere la vecchia e ricca sede, che sorgeva in piano e sulla grande strada Benevento-Nocera-Salerno, e non la nuova Avellino, che, se già esisteva, era piccola e povera e sita su di un'altura e fuori delle strade principali.
 Col trattato di divisione del principato di Benevento (849) fu stabilita, a confine tra due nuovi principati, una linea: che a sud, e cioè tra il territorio di Benevento e quello di Salerno, tagliava la via Pupiliana all'altezza dell'attuale S. Michele di Serino; e ad ovest, ossia tra il territorio di Benevento e la contea di Capua, correva da Forino, per la serra di Montevergine, a Cervinara. Epperò Abellinum divenne d'allora in poi la porta sud del nuovo principato di Be

nevento, o meglio la città elle ne guardava e sbarrava l'accesso dalle provenienze da Nocera e Salerno, e anche da quelle, per la via Domizia o la via Campanina, dalla Puglia o dalla Campania. 

Pertanto era interesse dei principi di Benevento che Abellinum, venisse conservata. 1 suoi abitanti quindi, come del resto quelli degli altri paesi, non potevano esularne, in massa, senza il permesso del principe. Certo molti se n'erano allontanati; però i cittadini più affezionati alle loro case e alle loro terre e i servi dovettero restare. 

Ma Guido Il di Spoleto aveva preso nell'883 Capua, e l'884 anche Benevento, cacciandone il principe Aione; e, d'altra parte, i bizantini, mossisi da Bari, avevano occupato, affermandovi il proprio dominio, alcuni paesi longobardi della Puglia. E' vero elle Abellinum era capoluogo di gastaldato, centro stradale e sorgeva al confine sud, però si trovava in posizione vulnerabile e non aveva difensori, non contando ormai elle pochi abitanti. Era quindi da prevedersi che o Guido o i bizantini si sarebbero spinti anche su Abellinum, perché il possesso di questo, oltre ad altri notevoli vantaggi, avrebbe dato a Guido la possibilità di dar mano a Guaimaro I, suo cognato, principe di Salerno; e ai bizantini la possibilità di collegarsi coli Atanasio, duca di Napoli e loro alleato. 

Il gastaldato d'Abellinum apparteneva virtualmente ai Rolfrid: i gastaldi tendevano infatti a rendere le rispettive gastaldie ereditarie ed indipendenti. Se Guido o i bizantini avessero preso Abellinum, non solo ne avrebbe subìto gravi danni il principato, ma si sarebbe infranto pure il gastaldato: per scansare tale eventualità conveniva abbandonare, con gli abitanti, la vecchia città e fondare un nuovo capoluogo sulla vicina, forte e appartata collina “ la Terra ”. 

Il principe Aione annuì all'esodo. E gli abitanti d'Abellinum, sia per non cadere sotto il dominio di Guido II di Spoleto o dei bizantini, e sottrarsi ad altre possibili scorrerie di saraceni, sia  perché la collina “ la Terra ”, stava a breve distanza, sicché era agevole trasportarvi dalla vecchia città masserizie e materiali per ricostruire la nuova, si piegarono al volere del loro gastaldo. 

Probabilmente sulla collina s'erano già rifugiati precedentemente altri abitanti d’Abellinum, sicché il nucleo della nuova città era già costituito.

Per queste considerazioni io accetto la versione data dalla storia manoscritta cui si riferì il Bellabona, e ritengo che tra  l’884 e l'887 il gastaldo e gli abitanti d' Abellinum abbandonarono, con licenza del principe Aione, l'antica città per trasferirsi nel luogo in cui sorge la nuova Avellino. 

I pericoli per la nuova città cominciarono subito, se fu fondata tra l'884 e l'88 7, o alla metà del IX secolo, se sorse prima. Dico alla metà del IX secolo perché allora presero vigore le scorrerie dei saraceni, e perché l'849, con la divisione del primitivo principato, s'ebbe: 1) che il nuovo principato di Benevento, rimasto piccolo, divenne di non difficile conquista; 2) che Avellino divenne città di confine.

Avellino si trovava di fianco alla via Campanina e tra i due centri stradali di Mercogliano e d'Abellinum, sorgeva sii di una altura, ed era sede di confine tanto verso il territorio di Salerno, quanto verso la contea di Capua. Epperò essa poteva essere attaccata: da bande di saraceni o di ladroni; da Guido di Spoleto o dai bizantini, come punto d'appoggio: da milizie di Salerno o di Napoli o di Capua, dirette a far danni nel principato di Benevento; e da eserciti di passaggio. Ma Avellino era anche capoluogo, del gastaldato dei Rotfrid; i Rotfrid figuravano sempre a capo delle lotte, delle congiure e delle sommosse che avvenivano a Benevento, e quindi Avellino poteva pure essere attaccata, e messa a guasto, per rappresaglia contro i Rotfrid, da truppe inviate a tal uopo o dai principi stessi di Benevento o da sovrani stranieri. 

Certo dunque Avellino aveva ragione di fortificarsi e presto. E gli eventi dinanzi riassunti ci dicono che essa poté aspettarsi codesti attacchi: dall'849 al 900 nel settore est, dal 901 al 915 invece in quello ovest, e dal 915 al 950 di nuovo nel settore est. 

Orbene, come sì vede dai ruderi esistenti, il castello fu edificato davanti alla città a protezione della stessa, nel settore est; pertanto esso venne eretto o tra l'849 ed il 900 o tra il 915 e il 950. 

Ma se si considera che Atenolfo, nel 900, col riunire la contea dì Capua al principato di Benevento, rese più grande e forte lo Stato, che egli s'impose ai gastaldi e ristabilì, l'ordine e la sicurezza all'interno, che Avellino cessò d'essere località di confine in rapporto a Capua, e che nel 915 i saraceni furono annientati al Garigliano, si deve pervenire alla conclusione che Avellino elevò il castello, e anche le mura, prima e non dopo del 900. E così, pure alla stregua dell'esame degli eventi, si viene alla conclusione che Avellino si fortificò verso la fine del IX secolo.

Nell'epoca longobarda la cerchia murata d'Avellino abbracciava l'intera collina “ la Terra ”. 

Infatti essa conteneva: il duomo, l' episcopio ossia l’edifizio oggi adibito a seminario, sei o sette badie e semplici chiese, piazzette o cortili, vicoli, rampe e case . In genere le case erano in muratura, parte a solo pianterreno e parte ad un piano, con scale esterne . Pertanto, anche calcolando la popolazione a meno di duemila abitanti, esse non potevano essere poche. Inoltre occorre aggiungere che all'interno del circuito delle mura doveva ben correre in senso longitudinale uno spazio vuoto di tre o quattro metri. Mancando simile passaggio, in caso d'attacco contro la città, nuclei nemici, data la scalata, avrebbero potuto, dall'alto stesso delle mura, appiccar fuoco o scendere sulle case attigue, senza che i difensori avessero avuto la possibilità d'accorrere nei punti minacciati. 

Evidentemente quindi la città murata comprendeva l'attuale rialto del duomo e la striscia, in quel tempo non approfondita, elle costituisce oggi il tracciato della via Umberto I.  

Guglielmo pose l'assedio al castello. Le due donne fecero grandi sforzi per mantenervi viva la resistenza; ma alla fine il re prese il castello: egli accolse con cavalleresca cortesia le due eroiche contesse e le mandò a Palermo.

Nel 1194 l'imperatore Enrico VI di Svevia scese, con l'imperatrice Costanza, a prendere possesso, per diritto di successione, del regno normanno. Sottomessa la Campania, avuta Napoli e saccheggiò con una casa, sita in Avellino, più venti tarì salernitani da impiegarsi “in fabrica noba de  predicto episcopio ” - afferma giustamente che se la città e il duomo fossero stati distrutti il 1135, come scrive il Bellabona, nel contratto del 1145, si sarebbe parlato di “ rehedificatione ” e non di “ fabrica noba ” che equivale a restauro (cfr.: Rivista Storica del Sannio - anno N'- 1918).  

Il conte d'Avellino, Ruggiero Il dell'Aquila, seguace del re Guglielmo III, all'avvicinarsi dell'imperatore abbandonò la città. Enrico vi fece sosta con l'imperatrice per due o tre giorni, e salì con lei a Montevergine per visitare il santuario; anzi concesse a questo in feudo Mercogliano. L'imperatore dichiarò Avellino città della corona, ma poi la die', con tutta la contea, in feudo a Gualtieri di Parigi. 

Invece nel 1199 Avellino subì un nuovo assedio. 

Il già gran siniscalco Marcovaldo, nel tentativo d'impadronirsi per proprio conto del regno, investì, con la sua masnada, anche Avellino. Ma gli abitanti, mentre gli opposero forte resistenza, gli offrirono una grossa somma, purché s'allontanasse. Marcovaldo accettò e tolse l'assedio.

Nel secolo seguente il castello e la città ospitarono imperatori e re. 

Assoggettata la Campania, passarono per Avellino: Ottone IV nel 910 e Corrado di Svevia nel 1253, coi rispettivi eserciti, per portarsi a sottomettere la Puglia; vi transitò pure Federico II, tra il 1220 e il 1250, nei suoi ripetuti viaggi dalla Puglia a Napoli e viceversa. 

Poi, nella lotta tra il papa Alessandro IV e Manfredi, passarono per Avellino: il cardinale Ubaldini nel 1255, con un' armata pontificia, quando avanzò dalla Campania ad invadere la Puglia, e Manfredi, il 1257, allorché scese dalla valle dell'Ofanto a conquistare Napoli e la Terra di Lavoro.

Indi transitarono per Avellino: Carlo 1 d'Angiò, nel 1273, fermandovisi una notte; e Carlo Martello, re d'Ungheria, il 1290 e il 1293, trattenendovisi due giorni ogni volta .

Nel 1306 il castello e la città furono teatro di un grande evento civile.

Mentre Carlo Il d'Angiò si trovava a Roma, dal papa, il figlio Roberto, duca di Calabria, vicario del regno, convocò ad Avellino il parlamento generale. Convennero qui Roberto, con la corte, í primati del regno, i baroni ed i rappresentanti delle città .Senza dubbio il duca ed i primati presero alloggio nel castello, mentre gli altri s'allogarono nelle badie e nelle case private. Carlo Il fece concedere ad Avellino, in siffatta occasione, molti privilegi. 

Nel 1374 il castello e la città furono saccheggiati. 

In quegli anni si formò nella Campania una banda di ladroni che, man mano, ascese a quattrocento armati a cavallo. Essa, dapprima sotto il comando di Mariotti e poi sotto quello d'Ursillo, occupò Palma, si spinse verso Napoli, devastò la Terra di Lavoro, s'insignorì di Melfi, corse l'Irpinia, la Puglia e il Molise. 

In tali scorrerie la banda, ormai già al comando dell'Ursillo, s'avvicinò ad Avellino, e, con l'intesa d'alcuni abitanti, entrò di sorpresa, di notte, in città ove s'impadronì del castello, essendo il conte del Balzo in Provenza, e die` il sacco alle chiese, al palazzo del vescovo, ai monasteri e alle case dei privati.

Avellino risentì a lungo le conseguenze di queste ruberie e di queste distruzioni.

Ma presto il castello e la città conobbero giorni lieti. 

La regina Giovanna 1 d'Angiò, che già nel 1355 era stata ad Avellino, col suo secondo sposo Luigi di Taranto, vi ritornò nel 1380 col quarto marito, Ottone di Brunswich. Vennero successivamente re Ladislao, di casa Durazzo, nel 1412, e la sorella Giovanna 11, tra il 1414 e il 1418. Però, mentre Giovanna I fu ospite della contessa Elisa del Balzo, Ladislao e la regina Giovanna Il vi stettero come in sede propria, vi tennero corte autunnale, inquantochè Avellino in quegli anni era feudo della corona: e il re e le due regine concessero grazie e privilegi agli abitanti e alla città. 

Ma, ben presto, castello e città subirono attacchi e rovine. 

Nel 1436 re Alfonso I d'Aragona si diresse, con le sue truppe, da Nola su Avellino, sia per intimorirvi e trarre a sé Trojano Caracciolo, che n'era conte, sia per potersi inoltrare da qui nel Beneventano e nella Puglia. Ma Trojano, che era seguace di Renato d'Angiò, non s'arrese alle istanze fattegli e inibì il passo alle milizie aragonesi. Alfonso allora pose l'assedio ad Avellino, ma, ad onta di ripetuti sforzi non riuscì ad entrarvi e si ritirò per la strada Capriglia. 

Dopo quattro anni il re ricomparve con un poderoso esercito e, espugnata la città, la mise a sacco. Il castello, parecchie chiese, molte case ed alcuni monasteri divennero fumanti rovine centinaia e centinaia di cittadini caddero sotto le macerie furono uccisi. 1 superstiti dovettero restringersi ad abitare negli edifizi rimasti in piedi sulla collina del duomo e la città, che contava dieci parrocchie, dopo la distruzione, non poté mantenerne che appena una, quella del vescovado. Alfonso demolì anche le case del contado e le palazzine di Bellizzi che era in quell'epoca 1 sito di villeggiatura dei signori di Avellino. 

Trojano s'affrettò a chiedere perdono e, impegnatosi a porvere aiuti ad Alfonso contro Renato d'Angiò, riebbe la città. 

Ma, morto Alfonso nel 1458 e succedutogli Ferdinando 1, la lotta tra gli Angíoini e gli Aragonesi riprese vigore con la venuta di Giovanni d'Angiò, figlio di Renato, che sbarcò presso la foce del Garigliano. Ben presto la Terra di Lavoro, il Molise, la Capitanata, Bari, ecc. alzarono la sua bandiera, mentre feudatari di altri paesi andavano a giurargli appoggio: tra essi è da segnalare il conte Giacomo Caracciolo, succeduto nel 1449 a Trojano in Avellino. 

Il re Ferdinando fece avvisare Giacomo d'attenersi agli impegni contratti dal padre e, per costringervelo, pose a guasto, ripetute volte, le terre della contea; infine, attaccò con un'armata Avellino, se ne impadronì e vi lasciò un presidio. In seguito, il re restituì a Giacomo la città; ma il conte tornò ad adoperarsi per Giovanni d'Angiò. 

Nel 1460, il re e il duca vennero a battaglia nei dintorni di Sarno. Ferdinando fu completamente sconfitto e subito l'Irpinia, la Lucania, il Salernitano, la Calabria insorsero a favore di casa d'Angiò. 

Ma il re mise in campo nuove truppe e il conte Sanseverino di Cajazzo indusse potenti baroni ribelli a ritornare fedeli verso la dinastia d'Aragona. Il duca di Milano e il papa inviarono a Ferdinando loro milizie, mentre in suo aiuto sbarcava Scanderbeg dall'Albania con mille fanti e ottocento cavalli. Queste forze, operando quali in una regione e quali in un' altra, ridussero all' obbedienza tutto il regno; sicché il duca d’Angiò, rimasto senza appoggi, nel 1464 chiese pace al re e si ritrasse dapprima ad Ischia e indi in Provenza. 

Lo stesso anno 1464 Ferdinando venne ad occupare Avellino per punirvi Giacomo Caracciolo cui tolse la contea che annesse al demanio. Il re si trattenne a lungo in Avellino ed eresse nella chiesa di S. Giacomo una cappella reale, istituendovi anche una commenda dell'Ordine di S. Giacomo della Spada. 

Nel secolo seguente la città e il castello ebbero sotto il governo di Maria de' Cardona un cinquantennio di pace e di ricostruzioni. 

Maria ereditò nel 1513 la contea di Avellino e il marchesato della Padula; prese a marito il conte Artale de' Cardona, suo cugino, e, rimastane vedova, passò a seconde nozze con Francesco d'Este, figlio del duca di Ferrara. Morì a Napoli nel 1563, senza lasciare eredi.

Di singolare bellezza, assai ricca, di vasta cultura, pia, e molto appassionata per la musica, annoverata tra le signore più illustri dei suoi tempi, usava dimorare a lungo ad Avellino. Teneva corrispondenza con insigni scrittori di tutta Italia, alcuni dei quali le dedicarono le loro opere. Fu forse durante il suo governo e per suo impulso che si formò qui (come se n'erano formate tante altre in varie città) l'unione di dotti che assunse il nome di “ Accademia de' Dogliosi ”. 

La Cardona accolse di frequente nel castello letterati e musicisti e tenne convegni intellettuali, concerti, ecc.; d'altra parte, essa diè pure sviluppo alla città e ne accrebbe industrie e commerci. Infatti v'aprì ferriere; v'eresse chiese e conventi; vi formò l'ampio ospedale, di S. Onofrio, in luogo di due più piccoli; istituì una fiera franca d'un giorno la settimana e prolungò a dodici giorni quella annuale, che in addietro era di otto. 

Così, una donna, la dell'Aquila-Sanseverino, aveva esaltato il castello, nel 1162, col suo eroismo; e ora un'altra donna lo illustrava con la sua cultura e con le sue opere. 

E Avellino, che nel 1532 contava poco più di 1000 abitanti, nel 1561 giunse ad averne 1600. 

Questo periodo di quiete venne interrotto nel 1528 da un'incursione. 

Declinata la fortuna del de Lautrech, che con un'armata francese assediava Napoli, il capitano spagnuolo Saiavedra, nell'idea che Avellino parteggiasse per la Francia, con un distaccamento di fanti e cavalli s'impadronì di sorpresa del castello ed abbandonò la città al saccheggio. Inoltre trasse seco prigioniero il vescovo, fra Angelo da Mandrigana, lo chiuse in prigione a Napoli, e, nell'intento d'indurre le chiese a sborsare pel suo riscatto una elevata somma, lo torturò per più giorni, e non lo mise in libertà che in seguito a proteste di potenti personaggi. 

Poi il castello assurse di grado e viceversa la città ne discese. 

Il 1581 Marino Caracciolo, già duca d'Atripalda, marchese della Bella, comprò dalla corona, per 113.469 ducati, Avellino col casale di Bellizzi e ottenne nel 1589 il titolo di principe della città stessa. 

Però Marino pose per condizione, all'atto dell'acquisto, che ad Avellino non dovessero risiedere ufficiali regi; quindi la udienza provinciale venne trasferita a Montefusco; e la città che nel 1595 annoverava 2850 abitanti perdette il rango, tenuto fin dal 1284, di capoluogo della provincia di “ Principato Ultra ”. 

Camillo Caracciolo, verso il 1615, ridusse, come vedremo, il castello quasi a palazzo, e convertì il terreno attiguo in giardino; successivamente il castello e la città ebbero sotto Marino II, dal 1617 al 1630, un periodo di splendore. 

Marino rinunziò, perché malaticcio, alla professione delle armi, onde poté risiedere ora a Napoli ora ad Avellino. Ricchissimo, mantenne corte numerosa ed amò avere al suo soldo anche altri titolati, un Commeno, principe di Macedonia, il marchese di Montalbano, il conte Majolino Bisaccioni, ecc. cui die' incarichi varii * il governo della città. Versato nelle lettere e nelle matematiche * gran mecenate volle circondarsi d'uomini d'ingegno e di sapere. Coadiuvato dal poeta Giambattista Basile, conte di Torone, infuse nuova vita alla locale Accademia de' Dogliosi mentre varii scrittori gli dedicavano le loro opere. 

Il principe usò riunire nel castello i soci dell'Accademia de' Dogliosi, per discutere con essi di questioni scientifiche, letterarie, morali o per ascoltare versi; vi organizzò anche feste o veglie sontuose, allietate da rappresentazioni, da concerti, da balli o da giuochi. 

Le rappresentazioni consistevano nello svolgimento di soggetti mitologici, storici o di fantasia con scene e personaggi, con musica o discorsi, con canto o mimica, e con riprese di ballo o a figure o a coppie libere; due di questi spettacoli, diretti dal conte Majolìno Bisaccioni e da lui stesso descritti, riscossero largo plauso. 

Marino s'occupò anche della città di cui distinse, nel 1619, la popolazione in ceti, riconoscendo a quattordici famiglie la qualifica di nobili: soccorse opere pie; istituì maritaggi; edificò la chiesa di s. Carlo Borromeo, che nel 1817 fu trasformata in teatro comunale; condusse a termine la chiesa col monastero del Carmine ed eresse nuove e più ampie mura, con due porte monumentali: Porta Napoli e Porta Puglia. 

Allora Avellino contava da 3 a 4.000 abitanti. 

Il 1630 il castello ospitò, per tre giorni, Maria d'Austria, sorella di Filippo IV re di Spagna, regina d'Ungheria e poi imperatrice; e nel 1632 il principe Zaga Christos, pretendente al trono d'Etiopia; nel 1640 esso die' stanza, per maggior tempo. al vicerè duca di Medína e alla duchessa, con la loro corte.

 Il 1647, estesasi alle provincie la rivoluzione cominciata da Masaniello in luglio a Napoli, i baroni armarono gente a loro spese per conservare i proprii feudi.   

Il principe d’Avellino, Francesco Marino, diciassettenne, s'impegnò ad assoldare anche 400 vassalli. Ma il viceré, ai primi d'ottobre, gli mandò ordine di trattenersi nella città e d'impedirvi il passaggio delle vettovaglie dirette a Napoli. Il principe pose infatti la città in assetto di difesa. 

I “ popolari ” di Montoro, spinti da un de Blasio, tumultuarono, ed insorsero anche gli abitanti di San Severino; Francesco Marino si recò a pacificare gli uni e gli altri. Non essendovi riuscito a San Severino, venne di nuovo ad Avellino, mise insieme una forza adeguata e con questa ridiscese a San Severino ove lo scherano Paolo di Napoli aizzò i popolari contro di lui al grido dì “ morte ”. Il principe fu costretto ad allontanarsi e dovè aprirsi Ansalone, con quei di Montefusco, e dal Crescenzio, con altri di Lucera, formata così una massa di quattromila uomini e trecento cavalli, cinse Ariano, e, dopo due o tre giorni di combattimento, con la promessa che avrebbe concesso condizioni onorevoli, la prese. Però, ad onta della promessa fatta, i suoi scherani uccisero il duca di Salza, il marchese di Buonalbergo, il marchese di Bonito, ecc. Anzi, ucciso il duca di Salza, preside del Principato Ultra che da Montefusco s'era ritirato ad Ariano, ne recisero la testa. 

Tuttavia a Napoli ed in provincia i “ popolari ” per l'estrema penuria dei viveri in cui languivano e per le prepotenze e l'avidità dei propri capi, cominciarono a sentire il bisogno d'uno stato di pace e d'ordine. D'altra parte gli eventi mutarono, poiché il 6 aprile don Giovanni d'Austria e il nuovo viceré conte d'Ognatte entrarono, con duemila spagnuoli e alcuni reparti a cavallo, e coi baroni napoletani e i loro armigeri, nei quartieri insorti di Napoli, accolti con segni di festa; circondarono il torrione del Carmine, costringendovi Gennaro Annese ad arrendersi, e misero drappelli di guardia nei punti principali. Tra i baroni figurarono il principe d'Avellino e quello della Torella che vi avevano condotto 180 vassalli. Venne catturato nello stesso giorno il duca di Guisa, presso Capua, mentre tentava, con una piccola scorta, di porsi in salvo negli Abruzzi. L' 11 don Giovanni pubblicò un indulto generale. Questi eventi fecero sì che nelle provincie s'assottigliarono ovunque le schiere dei rivoluzionari mentre ingrossavano quelle dei partigiani della Spagna. 

Pertanto città e terre mandarono rappresentanti al governo vicereale a fare atto d'obbedienza: Avellino inviò i suoi il 17 o 18 aprile a don Giovanni d'Austria per trattare la resa. Il 20 giunsero ad Avellino Francesco Marino e lo zio principe della Torella, con 150 armati a piedi e altri a cavallo, a riprendere possesso del castello e della città. Francesco Marino fece impiccare in largo numero i colpevoli dei passati moti e i capi dei popolari; del resto, quasi tutti ì baroni fecero altrettanto nei rispettivi feudi. 

Nel maggio successivo i due principi sottomisero, spianandovi barricate e trincee, anche Atripalda, San Severino ecc. 

Nel 1656 il castello divenne centro di provvidenze per fare fronte alla peste che infieriva in Avellino e nell'Italia Meridionale. 

Manifestatasi l'epidemia a Napoli, il principe Francesco Marino, che era ivi trattenuto pel suo ufficio di gran cancelliere del regno, rimise al vescovo, Pollicini, il governo della città e mandò due medici con l'avvertimento di impedire l'entrata dei forestieri e di tenere dogana fuori dell'abitato. Il vescovo indisse funzioni nelle chiese e processioni, ma, non avendo danaro, non poté porre mano a preparativi; la popolazione benché ne fosse consigliata, non si impose cautele, sicché il morbo ai primi di giugno incominciò a manifestarsi.  

Il principe, ottenutane licenza dal viceré, il 10 giugno si trasferì ad Avellino e prese stanza nel castello. Anche lui, per le spese subite nei precedenti tumulti e poi per la consegna della chinea al papa, eseguita con straordinaria pompa, non aveva mezzi, ma in ogni modo provvide ai vari bisogni. Chiamate a sé autorevoli persone, le costituì in giunta di vigilanza sui servizi pubblici, e, con ordini dati dal castello, vietò di nuovo la entrata dei forestieri, stabilì il mercato alla Puntarola, costrinse i cittadini agiati a fare un prestito all'amministrazione comunale, fece aprire un lazzaretto e un cimitero, obbligò i commercianti di granaglie  ad accantonare grano o farina e i fornai a confezionare pane in sufficiente quantità, fece costruire carrette pel trasporto dei morti, proibì le riunioni nelle piazze e nelle vie, uscendo spesso a cavallo per dare impulso ai servizi e confortare gli ammalati. 

Intanto, chiusa la dogana, cessati i traffici e i commerci, la città, che viveva a gabelle, cadde in estrema miseria. 

Il 7 luglio morì, di peste, il vescovo. Il contagio si diffuse rapidamente: si contarono fino a quaranta casi al giorno, dei quali i più tra le donne. Diminuirono medici e becchini ed i morti restavano insepolti. E principe indusse medici d'altri paesi a venire in Avellino, concesse la grazia a quei detenuti che s'impegnarono a raccogliere e seppellire i morti, fece aprire un secondo e indi un terzo cimitero, anticipò danaro ai farmacisti per l'acquisto di medicinali, ecc. 

In settembre l'epidemia decrebbe e Francesco Marino con ordini sempre dati dal castello, fece separare gli appestati dai sani, e, non essendovi ancora posto nel lazzaretto, ne costituì un altro; inibì contatti coi forestieri e fece cominciare le disinfezioni degli alloggi. 

Nel marzo dell'anno successivo il principe, costretto ad assentarsi, affidò il governo della città all'abate Michele Giustiniani con l'incarico precipuo di far procedere alla disinfezione completa della città. 

Secondo il Giustiniani, la popolazione di Avellino sì sarebbe ridotta, in conseguenza della peste, da 10.000 a 2.500 abitanti. Il primo dei due dati però non è esatto perché la città che al tempo di Marino Il comprendeva 3 o 4000 anime, all'inizio dell'epidemia non potè averne che, al massimo, 4500. 

Comunque essa attraversò un periodo di profonda decadenza ed il castello rimase pressoché abbandonato, finche, agli inizi del settecento, non venne sostituito dal nuovo palazzo dei principi al Largo d'Avellino (Piazza Libertà).  

 

 

 

 

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