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Beconi Cronologia
La Bottega di SINOPIA di Stefano Bucciarelli

Tra le creazioni di Serafino Beconi ve n'è una in cui, in forma del tutto particolare, si proietta e si chiarisce il suo impegno artistico ed umano: è una rivista che egli dirige, imposta, confeziona con cura, di stagione in stagione, dal 1990. Sinopia, si chiama questo "periodico versiliese di arte e cultura". Il suo obiettivo dichiarato è "la difesa e lo sviluppo estetico di tutto il territorio versiliese, dei suoi paesi e delle sue città, del patrimonio storico ereditato e delle iniziative tese ad incrementarlo", nell'assunto dell'essenzialità dell'arte ad ogni umanesimo e della sua affinità ad ogni lavoro veramente libero. C'è, nelle migliori imprese editoriali che hanno avuto luogo, in questo secolo, in questa terra di Versilia, un ricorrente riferimento ad una trama profonda di elementi che hanno a che fare con il fondamento naturale della vita, la radice materiale dell'opera dell'uomo, la sostanza del suo lavoro quotidiano.

Così era, prima della grande guerra, per Versilia di Luigi Salvatori. Egli vedeva, in questa terra che aveva ospitato l'ispirazione michelangiolesca e la profezia shelleyana, "destini di ricchezza e libertà " immancabilmente riservati alla sua gente, ai suoi cavatori, ai suoi marinai, "per la fatica degli uomini, per la nobiltà del suo mercato, per il valore della stirpe". Così era, nel secondo dopoguerra, per Darsena Nuova di Silvio Micheli. Il suo programma artistico muoveva da un cantiere tutto da ricostruire, proprio come "le darsene, i cantieri, gli scali" che la guerra aveva lasciato "come carene spolpate".

La storia pare ripetersi con questo laboratorio di fine secolo che è Sinopia. Il titolo è già un intento programmatico: svelare la trama su cui si instaura l'opera d'arte, stare umilmente al di qua del prodotto finito, per coglierlo a partire da "i pentimenti, le correzioni, le incertezze" dell'artista di cui la sinopia conserva il ricordo; ma anche dalle tracce grafiche lasciate dagli artigiani e dagli operai, dal vissuto della bottega che rimane nascosto ma perenne sotto lo splendore dell'opera compiuta. Quella che si vuol offrire è appunto una testimonianza fatta di segni della cronaca dei nostri giorni, di tracce di un lavoro continuo; non altisonante proclama, nè opera chiusa in una compostezza definitiva, ma contributo partecipe, servizio diuturno, sforzo appassionato. Ecco allora la testata grezza come un intonaco, irregolare come un graffito; ecco le sedici pagine, che nel formato richiamano quelle di Paragone, de Il Verri ; i fogli non spillati, tra cui si annidano come per caso gli inserti; ecco il gratuito coinvolgimento del pubblico nell'evento.

Con la riproduzione di disegni, litografie, stampe, particolari, (ogni numero è di regola dedicato ad un artista) si compone un discorso di tracce grafiche: segni neri sull'avorio della carta, che caratterizzano ogni fascicolo, creando al tempo stesso un filo di continuità visiva. Il tratto coinciso degli interventi scritti deriva da un preciso disposto del direttore: non è la brevità della sintesi giornalistica che si ricerca, nè il laconico riserbo di uno stile asciutto, ma la sapida concentrazione del messaggio da porgere, la trasparente immediatezza del contenuto da comunicare, la compitezza dell'intervento che non vuol sopraffar e l'interlocutore, ma gli lascia lo spazio per meditare. Registri diversi, così, si alternano, uniti dal fragrante milieu di una riunione conviviale; e quando il tono rischia di divenire salottiero, c'è sempre qualcuno che alza la voce, si indigna, denuncia. E' anche una fitta trama di amicizie, quella che tiene insieme le pagine del periodico. Essa è alimentata dal gusto di raccontarsi le proprie esperienze di vita, come nella delicatamente malinconica, argutamente autoironica serie "De senectute mea" di Pier Carlo Santini; è rinsaldata dal riconoscimento del reciproco debito culturale; è proiettata in un legame eterno quando cessa la terrena frequentazione.

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I numeri di Sinopia ci offrono uno sguardo sul Novecento dalla finestra dello studio di Beconi. Le presenze sono numerosissime; inutile sarebbe qui un indice, chè ogni lettore deve potersi compilare mentalmente il suo. Tra gli artisti di cui si ornano i fascicoli della rivista, ci sono Lorenzo Viani, Galileo Chini, Moses Levy, Mino Maccari, Renato Santini, Eugenio Pardini, Ugo Guidi, Pietro Cascella, Fausto Maria Liberatore, per citare solo alcuni dei più noti; ma anche giovani, come il viareggino Marco Maffei che apre nel numero di prova. Serie analoga è quella dei poeti, cui è volta per volta dedicato l'inserto "Le stagioni": nomi cari alla tradizione versiliese come Viani, Pea, Ghiselli, Jenco; ed offrono loro inediti Giovanni Giudici, Piero Bigongiari, Mario Tobino. C'è chi in Versilia passa (Moravia, Montale), chi viene a lavorare (Henry Moore) , chi vi elegge la propria seconda patria (da Jenco a Murabito), chi colloquia a distanza (come Alberto Magri), chi vi lascia i suoi segni (come Giovanni Michelucci). Campeggia, com'è naturale, l'esperienza di Viani, cui Viareggio, "città frivola e balocca", non ha saputo rendere onore, a cominciare dal dileggio riservato a quel monumento che, composto con Rambelli, è "il vero simbolo della città". E ci sono tutte le stagioni della cultura versiliese, nelle sue intersezioni, adeguatamente ricercate e documentate, con gli ambiti lucchese, toscano, nazionale. Vi troviamo l'epoca dei furori dannunziani e dei languori pucciniani; poi, gli abbaglianti e mondani anni '30, con le presenze segnate sull'originale album del Caffè Principe: da Fregoli a Moravia, da Papini a Repaci. Si seguono gli sforzi della ripresa, affidata alla generazione di coloro che negli anni '30 avevano eseguito le prime prove: il tentativo di Mario Marcucci di conoscere l'universo nella breve strada del proprio paese; l'indagine esistenzia le condotta da Renato Santini con i suoi soggetti, straccali, paesaggi marini, maschere; l'esaltazione del lavoro e la celebrazione della marineria di Silvio Micheli. Si giunge all'attuale momento, tenendo accesi fuochi di speranza, remando contro la deriva consumistica. Pare salvarsene Pietrasanta, capitale mondiale dell'arte del marmo; rischia di esserne coinvolta in pieno Viareggio, "villaggione pago di due lustre medaglie: il carnevale nell'inverno, e nell'estate il Premio Letterario", esperienza, quest'ultima, sempre più distante dalla città.

Sinopia, scaffale della memoria, vetrina di intenti, cerca di non essere una rassegna eclettica. Il direttore è consapevole che il nostro secolo è "un tempo che produce fenomeni aggrovigliati e complessi. E' un tempo che vive di contraddizioni, camaleontico, mutevole". Ma è tempo di bilanci, dunque di scelte. L'arte è luogo delle "cose nate dal cuore", è lavoro di "persone oneste", è "impegno quotidiano fatto di studio, prove, riflessioni e spietata autocritica". Se si accetta questa visione severa e intransigente, monacale dell'operare artistico, non si può essere tolleranti verso il consumistico, il commerciale, il dilettantesco, il superficiale. E' in gioco l'arte come valore da salvare per il nuovo secolo, il valore dell'arte come ricerca della verità. Ecco perchè negli interventi di Serafino ricorre una così frequente attenzione a due "generi" apparentemente dismessi, o comunque emarginati nei dibattiti più recenti: l'autoritratto e il monumento. In realtà, essi contengono l'essenza di ogni prodotto artistico, che è ricerca e lettura del vero sé, così a livello individuale come sociale; segno, respiro, lascito. Come diceva Santini: "La pittura per me è un autoritratto...finchè un quadro non mi assomiglia vuol dire che non ci siamo". E il monumento, d'altra parte, è l'autoritratto di una società, segno di "una cultura, di una fede, di un'ambizione civica"; ammonisce, chiama alla memoria collettiva, alla commemorazione.

Per questo la sferza del direttore si leva quando il monumento gli appare piuttosto documento di imbarbarimento ideologico (le madonnine degli anni '50 o i pugni chiusi dei '70), o di insensibilità estetica (i più o meno anonimi cippi), o, a tradire la funzione che gli è più propria, di disimpegno o smemoratezza (e qui Beconi non esita a portare il suo affondo addirittura contro il "giocoso guerriero" di Botero o l'"accomodato Puccini" di Tongiani). Invece, anche un busto può, all'opposto, parlare al cuore e alla memoria. Shelley è il poeta che sulla rena di Viareggio trovò "il momento della redenzione, il congiungimento alla bontà del Tutto", per divenire poi, su questi lidi, il corifeo di ribelli e trasgressivi di ogni risma; al suo monumento gli amici di Sinopia rivolgono, con una cerimonia "privata", l'unico omaggio tributato in città nel centenario dell'inaugurazione.

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Per queste tracce si sviluppa, nella seconda parte dell'esperienza di Sinopia, sulle colonne di un ulteriore inserto, la ricerca narrativa di Serafino Beconi: autoritratto, individuale e collettivo, che documenta la vita di una comunità, quella in cui l'autore sente affondare le proprie radici. Torre del Lago è terra di confine tra Mare Toscano e Lago di Maciuccoli, estremo lembo lucchese, landa di mal definito passaggio, terra di nessuno dove "malfattori, fuggiaschi politici, anacoreti, spiriti libertari e quanti altri vittime della malasorte tentavano sottrarsi alla lunga mano dell'autorità". Da questo derivano gli ancestrali caratteri di quelle genti, "spiriti strani, taciturni, leali", ed in ciò si rovescia in positivo lo scherno contenuto nell'appellativo di "confinante". Nel sospeso incanto naturale di acque calme, distese di falaschi, bosco fitto, nasce il sodalizio della Bohème con Ferruccio Pagni e quei pittori del lago, che, a cavallo del passaggio di secolo, con Puccini condividono soggiorno e avventure, vivendo, come polemica alternativa, l'abbandono in un contesto naturale che li ammalia. Ma parallelamente vive lì una umanità forte e tribolata, la cui storia è intessuta di fatiche e speranze, fede e superstizione, sottomissione e ribellismo, la cui vita è attraversata dalla storia grande: l'emigrazione, la guerra, l'industria, il progresso, il fascismo. Il narratore è coinvolto, il suo non è paternalistico e compiaciuto rammentare, ma partecipazione, interesse, condivisione, pietas. Beconi restituisce l'intensità della "veglia", l'apodittica liturgia di chi conduce la narrazione, l'attenzione sospesa di chi è messo a parte di un mistero, l'assenso silente di chi ascolta per l'ennesima volta la celebrazione di un rito, l'intervento di chi assevera, espande, interpreta, associa liberamente particolari ed eventi, per ritornare infine a quel filo narrativo che si dipana con il flusso di una coscienza collettiva: monologo di un microcosmo. Ogni personaggio della storia è titolare di una vicenda esemplare, è momento di un'epopea, di una tragedia catartica, in cui si consuma un ammaestramento, si consolida una appartenenza, si disputa della morte e della vita. \par La Torre del Lago di Beconi \'e8 il luogo della autenticità, della originalità.

Non è per la mitica Thule, la favolosa terra del sogno, nè l'Eden originario. Un sottofondo di tensione attraversa i vari episodi, che in non poche pagine suggeriscono rimarchevoli affinità tozziane. Così è nell'impatto con una futuristica modernità, accarezzata e distante (la stagione degli idrovolanti), nell'angosciosa sospensione di fronte alla malattia (durante la visita del dottore), nell'eccitazione della caccia condotta col sistema della "tela". L' evento del lago è proprio la "tela", festa e dramma: l'inquietudine della vigilia corre sotto uno scenario di naturale placidità, fino allo scoppio della violenza; allora si scatenano lotta per l'esistenza, scontro di pulsioni distruttive, febbre della passione; e, ancora una volta, il destino è segnato per gli sconfitti, per gli esclusi ci sono le briciole.

Viene in mente il radicato convincimento di Serafino:

L'artista è caos vive nel caos, produce caos, e nel tumultuoso disordine ecco che d'improvviso, a volte, per l'incrociarsi di misteriose coordinate, esplode un nucleo d'amore ed egli diventa logos con una incoercibile necessità di rappresentazione.