Capitolo ottavo:

VA BENE COSÌ…

Aveva vinto. Il cuore, intendo.

Non credevo avrei mai corso per qualcosa che fosse altro da me stesso.

Mi sbagliavo. Dio, quanto mi sbagliavo.

Perché corsi, quel giorno, per lei. O verso di lei, non saprei bene dirlo.

 

"Porca miseria, Ailing!".

Quell’animale di Shibuya mi gridava in faccia e non me ne fregava niente. Niente. Le parole di Kojiro mi rimbombavano ancora nell’anima e mi torturavano… o forse a farmi male era un’altra cosa, un pensiero emotivo che avevo dovuto affrontare proprio di fronte a quanto avevo sentito dirmi la sera prima.

 

Davanti alla porta chiusa della palestra mi fermai per un secondo, a riprendere fiato e a domandarmi cosa facessi lì. Era davvero la cosa giusta?

Mi trovai a chiedermi cosa ci fosse dietro quel vetro opaco. Mi resi conto che non sapevo davvero nulla di lei.

Dovevo entrare?

 

"Sei una stupida! Non ti metto in mano i guantoni per massacrare le matricole!".

Va bene. Lo avevo fatto di nuovo. Di colpire con tutta la rabbia la ragazza di fronte a me sul ring. E, terribile, non mi dispiaceva. Né mi sentivo colpevole.

"E comunque se vuoi davvero fare il torneo, vedi di impegnarti! Non ti passo un altro ritardo, né una sola assenza in più".

"Ma io devo partire dopodomani!", risposi.

Per me la partenza era un dato di fatto.

 

Mi decisi a spingere quella porta. Appena in tempo. O appena fuori tempo. Dipende dai punti di vista.

Vidi un uomo imponente scaraventare per terra con un pugno un mucchietto fragile di ossa. Vidi quelle ossa spinte contro il pavimento con una violenza terribile e le vidi rialzarsi, come se nulla fosse stato.

"Takako!".

Dissi il suo nome. Proprio il suo nome.

Si voltò di scatto verso di me: in un istante il suo viso incattivito, si sciolse in un’espressione splendida di gioia. Davvero di gioia. Ma non feci in tempo a sorridere di quell’emozione che era per me, solo per me, pulita e sincera. Non feci in tempo perché svanì troppo in fretta.

 

Wakashimazu.

Pensavo che il cuore potesse esplodere di gioia solo per gli altri. O solo con Taro. Per Taro.

Sbagliavo. Sbagliavo un mucchio di cose, allora.

Sputai per terra, ai piedi di Shibuya: quello era ciò che pensavo della sua violenza.

Raccolsi in fretta le mie cose e dissi qualcosa alla ragazza che ancora si tastava dolorante la scapola.

"Oota, se piangi per questo, la boxe non fa proprio per te".

Non sapevo cosa sarebbe stato giusto o logico o corretto fare, sapevo solo che Wakashimazu mi aveva trovata, in qualche modo. E che volevo andare vicino a lui.

"Takako… cioè… scusami… Ailing"

"Takako va bene", gli dissi.

Avevo voglia di sorridere. Di dimostrare in qualche modo una felicità così cristallina da farmi paura, ma… ma avrebbe detto di nuovo che non voleva i miei sorrisi di plastica.

 

Pregai perché mi sorridesse. Pregai con tutta l’anima, ma non servì. Perché per qualche ragione che non potevo conoscere né comprendere, Takako aveva paura di me.

Il tempo non esisteva più: lei mi guardava con gli occhi strani della mia stessa battaglia inutile contro le emozioni. I nostri visi, forse, non erano mai stati così vicini.

Una goccia silenziosa di sangue le scivolò dal naso, ma fu come se si fosse dimenticata di trattenerla tanto era piccola, casuale.

Istintivamente le passai il dorso della mano sulle labbra dove quella lacrima rosse stava correndo. Lei fissò la mia mano: pallidissima.

Quel giorno vidi il terrore, cieco, incomprensibile.

"Non farlo più…", tremava la sua voce.

"Ma era solo per pulirti la faccia", dissi e mi bastò terminare per sentirmi un idiota.

"Tu… tu non farlo più…".

Afferrò con violenza le mie dita, sfregandole per cancellare quel sangue: si fermò solo di fronte alla mia mano pulita. Sana.

 

Solo allora, quando vidi la sua pelle compatta, forte, sentii il cuore placare il suo orrore.

Non doveva farlo più. Mai più. E non mi importava nulla di non avere controllato le mie emozioni, non mi importava che la voce mi si fosse rotta dal male, dalla paura, mi importava solo che lui fosse lì, con la sua mano intatta, placida e calda.

Solo allora mi accorsi del suo viso: se io gli avevo portato solo quella goccia di sangue come segno del pugno subito, lui mi stava permettendo di vedere la sua tempia pulsante, sfatta e livida.

Guardai il mio palmo: era intoccato, senza graffi, senza segni terribili. Solo allora lo appoggiai su di lui, proprio dove sembrava avere sentito il dolore fisico dei colpi.

"Che cosa hai fatto?"

"Se ce ne andiamo di qui te lo racconto", disse appoggiando la sua mano sopra la mia e poi facendola sparire, come quel giorno sul treno, al caldo, in un luogo gentile che era casa… anche se non lo desideravo.

"Ma vieni via così?", mi chiese guardandomi.

Per la prima volta nel modo più normale possibile, nel modo in cui qualunque uomo guarda una donna, mi guardava incerto nei calzoni cortissimi che usavo per allenarmi, le scarpe alte del ring.

"Ti dispiace?"

"No. Direi che non mi interessa per niente".

Forse mi andava bene proprio per questo suo modo di fare, di parlare, fingendo che non gli importasse di nulla. Soprattutto di me.

Mi bastava davvero solo che lui fosse presente? Non credo. E infatti non avevo nulla da dire. Solo gli camminavo vicina, un passo dietro di lui, muta.

Osservavo i suoi capelli muoversi e colorarsi del caldo del sole e pensavo che in fondo anche io stavo semplicemente ondeggiando, lasciandomi trasportare dagli eventi, da lui. Tanto avevo così poco tempo da trascorrere ancora a Tokyo. Almeno per quel mese tremendo che era sempre stato per me giugno…

 

Sentivo fortissima, dietro di me, la sua distanza. A un solo passo da me eppure così lontana… non potevo vederla, avrei dovuto voltarmi e insieme di tutte le cose che avrei voluto dire, sapere, chiedere, non avevo più in mente nulla.

"Dove vuoi andare?"

"In un posto calmo", le risposi.

"Andiamo al parco qui dietro".

Va bene. Il parco mi piaceva.

Mi piaceva poterla avere finalmente di fronte nel verde vitale delle foglie, dell’erba. Potevo guardarla, ora, le sue gambe stropicciate, nude, belle. La sua pelle che non conoscevo eppure sembrava chiamarmi, chiamare i miei desideri.

Assurdo, totalmente assurdo, ma io giuro che non mi interessava il suo corpo, non abbastanza, non in quel momento. Allora io volevo parlare con lei. E cercavo disperatamente un modo per abbattere le sue difese tremende verso il mondo, che mi impedivano di capirla, di stringerla.

Ripensavo al soffio leggero che era stata la sua mano secca sulla mia pelle. Avrei voluto provarlo, sentirlo di nuovo, con tutto me stesso.

Cercavo un modo per cancellare il liquido amaro che ci teneva distanti e lei mi precedette, insegnandomi che non esistono sempre tempi, luoghi o occasioni. Che a volte esiste solo il cuore.

"Sono felice di vederti… come mi hai trovata?", parlava piano, ma quella fatica che le avevo visto nello sguardo a Hokkaido non c’era più. O forse era solo una mia illusione.

"Kojiro", dissi, temendo come un idiota di farle male o infastidirla.

"Ti ha raccontato?"

"Qualcosa…"

"Te lo avevo detto"

"Che cosa?"

"Quel giorno… sul treno… ti avevo detto che quando Kojiro avesse detto la verità la nostra amicizia sarebbe finita…".

E anche quella tra lui e me. Ma questo lo pensai solamente.

"Lo vuoi davvero?", le chiesi per non domandare di come si erano conosciuti.

Mi aveva mentito, su quello. Fin dall’inizio. Mi aveva detto di averlo conosciuto quando Misaki giocava nel Meiwa… puttanate. Solo puttanate.

"Cosa intendi?"

"Vuoi davvero perderlo?".

Abbassò lo sguardo, giocando con i fili d’erba tra quelle sue dita fragili… ma lo erano davvero?

"Non vorrei mai doverlo perdere… no. Mai. Ma cosa devo fare? Io non so rapportarmi con i sentimenti… lo sai…".

Disse quel "lo sai" in un modo così semplice, pulito che il mio cuore sciocco di uomo cresciuto male si addolcì. Perché la avevo sentita ammettere che qualcosa, in fondo, ci legava, parole esili su un treno, forse, forse solo parole, ma un bene immenso. Perché veniva da lei.

"Il tempo… mette a posto molte cose… o almeno così dicono…", guardavo lontano parlando, non mi accorsi che stava cercando le mie dita.

"Non è bene… ma sto in pace… -mi guardava sperando che capissi, ma dovette arrendersi a spiegarmi- parlando con te, intendo… mi viene di dire quello che penso, che sento…"

"E perché non è bene?"

"Tu vuoi davvero parlare con una bastarda? Una bastarda che…", si interruppe.

Che? Ti prego… va avanti…

"Probabilmente sai anche questo…"

"Cosa?", avevo così paura della risposta che non sentii nemmeno me stesso fare la domanda.

"Che sono qui a parlarti perché il tuo amico mi ha impedito di… beh, mi ha fatto rimanere viva… a suon di ceffoni, ma non importa…".

 

Dio, quanto male!

Quanto male!

La mia testa sapeva che Kojiro aveva certo raccontato la mia storia a Wakashimazu, eppure… per me era un dolore profondo raccontarlo… perché tutt’ora io… io…

"Mi faccio schifo, Wakashimazu…"

"Ken…", mi interruppe solo in quell’occasione, per invitarmi in sussurro a chiamarlo per nome.

"Va bene… mi faccio schifo, Ken…".

Può improvvisamente riversarsi in noi un immenso mare di parole, emozioni, tutte insieme? Annebbiano la testa e sciolgono le parole.

Io, da quel giorno, sono certa di sì.

Quanto non avevo mai avuto voglia, né forza di dire, sembrava voler esplodere ora. Davanti a Ken. Perché?

Scelsi di non rispondere, di sentire solo il sapore dolce e amaro del raccontarsi. Almeno un po’.

Lui mi guardava in silenzio, stava ascoltando… stava ascoltando me!

"Io amo la vita… con una violenza da far male, qualche volta… eppure… eppure da quel davanzale mi sarei lasciata scivolare… lo so. Lo avrei fatto… anche con questo attaccamento alla luce, all’esistenza… proprio per questo amore, per la consapevolezza che nonostante questo io mi sarei lasciata cadere… io mi faccio schifo…".

Presi fiato. Non era facile per me raccontare. E di quel giorno, dall’alto di un palazzo, io tutt’ora cerco di dimenticarmi ogni minuto. Ogni respiro.

Portai la mia mano, insieme a quella di lui, sul mio ventre, la appoggiai lì.

"Se non avessi incontrato Kojiro proprio quel giorno… ora non potrei sentire la tua pelle…".

Non mi importava poi molto di quello che lui poteva capire delle mie parole. Pensasse ad un sentimento, ad una necessità, ad un inspiegabile legame di empatia… pensasse ciò che voleva.

Io non parlavo molto, ma se lo facevo… beh… io cercavo di raccontare un’emozione. A modo mio.

Mi sorrise.

 

Avevo ascoltato tutto e non pensiate fossi rimasto in silenzio per rispetto o per incapacità… non mi importava nulla di queste fottute sovrastrutture che mi avrebbero fatto dire solo un dispiacere che non c’era.

Non c’era dispiacere mentre la ascoltavo. Solo dolore. E gioia.

Assurdo, lo so. Ma… io riuscivo a sentire il male che inghiottiva guardandosi allo specchio ogni giorno e mi sembrava di averlo addosso anch’io, non di sentirlo raccontare. Sentivo questo e insieme era gioia assoluta. Perché sentivo scivolare piano la sua paura verso di me. Perché stava parlando e perché… perché io avevo finalmente sentito, per la prima volta, il desiderio… anzi, il bisogno di raccontare anch’io… e di raccontare me stesso…

Non sapevo ancora bene cosa avrei detto, se avrei cercato di disegnare con le parole un sentimento, il sentimento che sentivo per lei inspiegabile e bellissimo, oppure una vita… già. Ma una vita non si può raccontare in poche frasi… tutto torna al suo posto nel tempo. Inutile forzare, pregare, sperare che si possa fare più in fretta…

Credo di averle sorriso per un tempo indefinito, scontrandomi con il suo viso gelido, immobile.

Continuai a farlo fino a che non vidi lo stesso sorriso malinconico che mi aveva regalato sul treno.

"Grazie", le dissi.

"Di che cosa?"

"Perché non mi prendi in giro… magari riprenderai a farlo, ma ora sei stata sincera… è così difficile?"

"No. Molto di più…"

"Perché?"

"Se mi faccio schifo… come posso sperare che tu non senta lo stesso per me?".

 

Io credevo alle mie parole. Per quanto stupide o pietistiche possano sembrare, erano vere. Io riuscivo a vivere perché nessuno sapeva la mia storia maledetta, la mia debolezza… se nessuno sapeva la verità, io rimanevo quella ragazza supponente, vitale che tutti vedevano. E mi scoprii a Ken, che era la sola persona a cui davvero mi importava andare bene…

"A me vai bene così".

Così come sono. Questo lo capii bene. Davvero mi aveva detto quelle parole? Davvero? Davvero gli andavo per quella che ero, bastarda matta che sembrava avere perso persino, seppure in un giorno passato, la gioia assoluta della vita?

Sarei potuta rimanere così, a cercare di capire, di rendere mia quella frase… imparare che non si ottiene amore, né nient’altro dalla falsità… ma forse lo avevo già capito. Non so. Perché non ne ebbi il tempo.

Continuavo a guardarlo, perché amavo il suo viso che era gentile e buono e sincero e poi perché volevo trasmettere quello che sentivo, indipendentemente da quello che era per lui quel momento, io volevo sentisse che sapevo anche amare.

Ma non sapevo che qualcuno glielo aveva già detto per me…

"Anche tu…".

Mi vai bene così. Forse avrei dovuto dirlo e non solo pensarlo, ma… uscì quella frase sincopata e pregai che capisse.

Aspettavo una risposta o una parola qualunque, non il silenzio…

Il silenzio. Che io non ho mai detestato, anzi amavo e amo quegli attimi senza parole in cui si possono sentire i suoni veri, i colori… in quel momento non potevo sopportarlo.

Per un istante odiai la mente che si era fatta vincere dal cuore e aveva permesso alle mie parole di raccontare: se il silenzio era la sola risposta possibile a quel misero frammento del mio passato, non avrei mai voluto parlare.

Sbagliavo. Ancora.

Ma non potevo capirlo e mi alzai per andarmene. Via, lontana da lui.

 

"Allora posso chiederti una cosa?", le dissi.

Si voltò a guardarmi. I suoi nervi sembrarono trovare pace al suono semplice delle mie parole.

Non tornò a sedersi accanto a me, non subito almeno. Ma tornò ad ascoltarmi, a dire con ogni parte di sé che voleva farlo.

"C… certo…".

Mi piaceva quella sue incertezza gentile, sussurrata, che qualche volta le bloccava le parole.

"Non aspettarti che io abbia qualcosa da dire…".

Vidi il male che potevo procurare con una semplice frase. D’accordo, non mi ero certo espresso nel modo migliore, quelle parole avrebbero potuto essere seguite, completate da un interminabile serie di "nel senso" e "cioè"… ma era venuta così. Ed era vera.

"Ho capito", mi rispose.

E rispose con quelle parole come se avesse usato il suo sorriso falso, rispose così perché quello le avevano insegnato.

"Ci sono cose troppo grandi per cui io non sono capace di trovare le parole…".

Ora aveva un senso quello che cercavo di dirle.

"Ho capito", ripeté tornando a sedersi accanto a me.

Potevo di nuovo sentire il freddo della sua pelle, un freddo incompatibile con l’energia, i desideri che sembravano impregnarla fino alle ossa. Socchiusi gli occhi un istante: in quel momento mi bastava solamente quello. Averla vicina, silenziosa, forse tranquilla se per lei è possibile usare questa parola, certo non insofferente.

Quel niente in cui ci trovavamo per me valeva tutto.

 

Lo guardavo pensare, o sentire, qualcosa che non riuscivo a capire: mi sembrava felice, in pace, per il nostro essere lì, insieme. E questo mi sembrava impossibile, privo di qualunque logica.

"Tu conosci Wakabayashi?".

Me lo chiese improvvisamente, rompendo il silenzio che ora non pesava più contro di me. Dovetti fermarmi un istante a pensare, cercare di ricondurre un nome ad un’immagine.

Wakabayashi… si poteva dire che lo conoscessi? Che conoscessi una persona di cui, istintivamente, per assoluta empatia, non mi importò mai nulla?

Non lo so. Ma non era quella la mia domanda.

Ken era stato con me fino ad allora, aveva ascoltato, sofferto, sorriso, parlato, ma solo, lo sentivo, attraverso di me. Come se non avesse motivo di dolore per se stesso, né di gioia, ma questo non ha importanza. E invece… invece nel farmi quella domanda i suoi occhi si erano in un tempo brevissimo accesi di rancore e spenti di sofferenza.

Perché?

Non lo chiesi semplicemente perché non era tempo di farlo.

E poi, ad ogni modo…

"Sì", dissi.

Ad ogni modo conoscevo Wakabayashi. O almeno lo avevo incontrato una volta.

"Lui è Genzo Wakabayashi… il portiere della Nankatsu"

"Piacere"

"Piacere".

Ecco quello era stato il mio conoscere Wakabayashi. All’aeroporto di Tokyo mentre Taro mi salutava. Partivo per un tempo indefinito e lui era corso per dirmi con il suo esserci che gli sarei mancata.

Per correre aveva dovuto sfruttare la patente di un altro: era ancora troppo giovane a quei tempi. Nato in un dicembre freddo, avrebbe dovuto aspettare ancora sei mesi prima di poter guidare.

"Allora… puoi venire con me stasera?".

Non aveva chiesto di andare "con loro", no. Con lui. Con lui…

"D’accordo… dove?", chiesi sorridendo come una stupida. Una bambina.

"A fare quelli che sono tanto amici".

Una frase divertente, all’apparenza, ironica. In realtà tanto dolorosa. Ma cercavamo di dare un senso a noi stessi al di là di tutto il nostro male e non potevamo trascinarci, ad ogni frase, nel buco incolmabile che era dentro di noi.

"Sembra un gioco un po’ noioso…", continuai a scherzare.

"Lo è…"

"Allora vengo… non vorrai annoiarti tutto da solo?"

"Già".

Si alzò e mi tese la mano, la afferrai stringendo con tutte le poche forze che sentivo di avere quando non ero sul ring. Mi sollevò senza fatica, alzandomi il braccio: lo tenne alto per qualche secondo. Mi guardava in viso con un’espressione indecifrabile, di contentezza infantile e dubbio, credo.

"Andiamo?", gli chiesi.

Senza sapere dove, né a che ora, né con chi. Beh… con chi potevo immaginarlo…

"Ok… così come hai conosciuto Wakabayashi me lo racconti mentre camminiamo".

Sì.

Sì. Decisamente lui mi andava bene così.

Un ringraziamento dovuto a Vasco Rossi… a cui in fondo lei andava bene così… qualunque cosa fosse.

 

Capitolo nono

Torna all’indice delle Fanfiction