Capitolo nono:

A PRESTO…

Per quanto detestassi i ristoranti di ramen, quella sera, mentre scendeva piano il crepuscolo silenzioso e coloratissimo dell’estate, non mi importava. Perché c’era lui con me.

Lui che stringeva la mia mano e si poteva camminare come amici anche senza esserlo.

Già… cosa eravamo noi?

La mia testa stravolta dalle parole che ci eravamo donati quel pomeriggio, non si era ancora fermata a domandarsi perché. Cosa facessi io a stringergli le dita, quel giorno.

Probabilmente me lo domandai allora. E ad un passo dalla porta d’ingresso, mi sfilai da quel contatto impuro, illogico.

Non disse nulla.

Ken si limitò a spingere la maniglia: entrò davanti a me, nascondendomi, credo.

"Wakashimazu!"

"Ken"

"Ehi! Allora sei venuto! –una voce distante, non nota, si inserì vivace e prepotente tra le esclamazioni di Taro e Kojiro- Questi due mi avevano detto che non era sicuro! –breve pausa- Carino il tuo occhio nero… proprio a tono con quello di Hiyuga…".

Nessuno disse nulla. Sono certa che tutti noi sapessimo qualcosa di quei segni, ricordo di un litigio doloroso, sui visi di Ken e Kojiro. Eppure nessuno disse una sola parola e, forse fortunatamente, il discorso morì sul nascere.

"Ciao", Ken disse solo questo.

Spuntai alle sue spalle. E tuttora non ho molte parole per descrivere l’espressione di Kojiro nel vedermi. Forse anch’io ero imbarazzata o ferita o malinconica, ma lui… non era solo quello che mi trasmise il suo sguardo. Stupore. Uno stupore rabbioso nel trovarmi accanto a Ken.

Non sono così stupida. Credo. Capivo l’insofferenza che dovevo dargli con quel mio arrivo inaspettato. Ma non ero stata abbastanza forte da rifiutare.

"Taka! Che bello… pensavo avessi le prove", mi disse Taro, dilatando la mia percezione su Kojiro, alleggerendola.

"In effetti le avevo", risposi.

Rise il mio amico, di quella risata bella e luminosa, vitale, che tanto amavo.

"Ah! Dunque… lui è…"

"Wakabayashi… -lo interruppi- hai in mente di dire questa frase ogni volta che lo incontro?"

"Tu sei quella per cui ho dovuto sfrecciare a Tokyo perché partivi?"

"Sembra…", dissi a Wakabayashi.

Niente da fare, non mi dava nessun tipo di emozione, né di sentimento, nulla, quel ragazzo.

Mi accorsi della ragazza seduta accanto a lui: splendido simbolo vivente di quanto un uomo può desiderare.

"Eh, eh… -sorrise Wakabayashi soddisfatto- Wakashimazu, Ailin… lei è Hanna… purtroppo non parla una parola di giapponese…"

"Nice to meet you", più o meno la sola cosa che sapevo dire in inglese e quella ragazza meravigliosamente perfetta si limitò a sorridermi.

"Sì, anch’io", si unì Ken, in perfetto e strettissimo giapponese, come volesse dire che se Wakabayashi teneva a renderla partecipe di quella sera avrebbe dovuto fare l’interprete, altrimenti… problemi suoi. Sì. Dentro di me lo vidi dire esattamente queste parole.

Ma forse potevo sentirle solamente io.

"Dai, sedetevi!", ci invitò Taro ed io, stupida, mi costrinsi a separarmi dalla vicinanza con Ken, trovandomi accanto Taro e, dall’altro lato, proprio Wakabayashi.

Ken si sedette di fronte a me. Così che non potevo evitarne lo sguardo, né fingerne l’assenza.

"Genzo ci stava raccontando della Germania", ci spiegò Taro.

"Ah… interessante", commentò Ken, insofferente, chiaramente incurante e disinteressato.

Kojiro non aveva detto ancora nemmeno una parola. Da quando si era accorto di me, naturalmente.

Faceva proprio solamente male.

Cercai una sigaretta. E mi resi conto che il mio bel pacchetto di Pall Mall stava spiaccicato in palestra… diciamo che Shibuya, quella bestia del mio coatch, mi aveva civilmente espresso il suo disappunto per quel vizio.

Va bene. Niente sigaretta. Vidi il pacchetto curioso, esotico se il suono stesso di questa parola non mi facesse ridere, appoggiato accanto al braccio di Wakabayashi.

"Posso?", chiesi.

Sii cortese, gentile, accogliente, educata.

Input sconnessi di un’infanzia dolorosa.

"Prego", mi disse Wakabayashi appoggiandomi sul palmo il pacchetto.

Mi ritrassi d’istinto, lo giuro. Istintivamente rifiutai con tutta me stessa quel contatto e scivolai in fretta oltre, lontana.

"Non mordo!", rise del mio male.

Anche giusto. Essere così stupida, così incapace di controllarmi, poteva dare solo motivo di divertimento.

"Grazie", tagliai corto accendendo.

Sapore strano, di tabacco non conosciuto.

"Allora possiamo ordinare? Il ramen va bene per tutti?".

Wakabayashi tradusse per Hanna solo le frasi strettamente necessarie.

"Fanno il tempura?"

"Mm… non so… vado a chiedere…".

Adesso che Taro, gentile, ovvio, si era alzato, anche se erano solo pochi secondi, io ero schiacciata nel petto dalla mia incongruenza: cosa facevo lì? Un essere insignificante come Wakabayashi, la sua donna senza errori, impeccabile, Kojiro come privo di forza per parlare. E poi Ken. Ken mi diede il desiderio di non andarmene. Con una sola frase.

"Wakabayashi, senti, prima di tutto quello che chiaramente avrai da raccontarci… guarda che lei si chiama Ailing. Ing. Con la ‘g’… capito?"

"Ehi, ehi… scusa tanto. Non volevo certo offenderla… comunque poteva dirlo anche lei… certo… la ragazza sottomessa dà un sacco di noie in meno…".

Se avessi conosciuto più a fondo Ken, avrei capito davvero quanta fatica fece in quel momento a non dare un pugno a Wakabayashi. Comunque non lo colpì ed io ebbi solo una sensazione di leggero nervosismo per qualche secondo.

"Comunque non è la mia ragazza", gli disse.

"Beh… meno male, con tutto il rispetto, Ailing, ma Wakashimazu può avere qualcosa di meglio… non molto meglio, ma è già qualcosa…".

Fu un attimo. Non so perché, ma mi venne completamente automatico allungarmi veloce verso Ken, toccargli appena il braccio: non parlai, non ce ne fu bisogno. Bastarono i miei occhi tristi, che supplicavano rimanesse fermo. Niente violenza.

"Genzo, fanno il tempura… allora ordiniamo?".

Era tornato Taro. Così mi risparmiai di rimanere sola a dover giustificare il mio gesto.

"Volete ordinare?", ci domandò l’improbabile gestore, giovanissimo, forse ancor più di noi.

"Allora… -iniziò Taro- un tempura… o due? –Wakabayashi indicò uno con le dita- bene… un tempura e poi… allora tutti ramen?"

"Tu non vuoi il nabe yaki? Lo fate?", chiese Ken.

Nabe yaki… fu una sensazione molto bella, semplice, assolutamente elementare, ma bella. Avevo mangiato due volte soltanto con lui e avevo mangiato soba… come fosse naturale, per Ken avrei voluto mangiarla anche allora.

"Ma hai fame?", mi chiese ancora.

Scossi un po’ il capo: sì. Avevo fame. Non moltissima, ma quella fisiologica, la stessa che avevo percepito nell’autogrill… e alla stazione.

Come il mio corpo chiedesse di vivere con tutte le sue forze solo quando ero con lui. Decisamente una sensazione molto bella. Dolcemente calda.

"Nabe yaki va bene", dissi, ma stavo in realtà parlando solo con lui, solo per lui.

"Ok… allora quattro ramen, un tempura e un nabe yaki… grazie"

"Da bere?"

"Acqua?", ci chiese Taro, naturalmente disposto ad accudire, come fosse per caso, tutti noi.

Feci in fretta di sì con la testa, credo che avrei bevuto volentieri del the, caldo, dolce, ma acconsentii con il capo, troppo impegnata a sgretolare i pensieri che mi erano impazziti dentro.

Non riuscivo a sciogliere dalla memoria le parole aspre, acuminate di Wakabayashi… davvero un uomo come Ken avrebbe potuto avere qualsiasi donna desiderasse… perché perdeva tempo con me? Ma poi cos’ero davvero io per lui?

Forse mi aveva cercata per quella curiosità crudele alla scoperta dei caratteri umani, forse per noia, o per gioco. Ad ogni modo io ero troppo insignificante per lui.

Guardavo come per caso Hanna, quella figura eterea, inafferrabile, assolutamente desiderabile e sentivo un gran male che si mescolava alla gioia pulita per quella cosa stupida del nabe yaki. Niente che potesse anche lontanamente accomunarmi a lei.

Quanto avrei voluto non pensarci e, soprattutto, non curarmene…

Immersa in questa inadeguatezza mi perdevo moltissimi pezzi dei discorsi degli altri. Ne percepivo frammenti, ma non avevo nulla da rispondere.

"Comunque sono contento di essere tornato qui… mi mancava"

"Quanto ti fermi?", chiese Taro e avrei potuto giurare che della risposta non gliene importava nulla.

"Un paio di settimane… poi Hanna riprende le lezioni e torniamo in Germania…".

"Riuscirai a tornare a Nankatsu?", chiese ancora Taro.

Kojiro continuava a rimanere terribilmente in silenzio e anche Ken sembrava non avere molto da dire. E la bellissima ragazza, nei suoi algidi colori del nord, non poteva che tacere senza preoccuparsi di manifestare con distacco la sua noia.

"Misaki, senti… -alla fine Ken sembrò avere qualcosa da dire- posso venire al tuo posto? Volevo provare il nabe yaki di Takako".

Mi venne da ridere osservando l’espressione stranamente smarrita di Taro che lasciava il suo posto ad un altro uomo che non era un amico. Perché davvero io non potevo sentire Ken come un amico.

Si sedette vicino, sorrisi un po’, senza che si notasse, forse sorrideva solo la mia anima. Ken inzuppò le bacchette nella mia scodella.

"Ma hai mangiato pochissimo! Devo ricordarti che…"

"No! No, no… sto bene anche se non mi dici che faccio impressione…", lo fermai tentando con tutte le mie forze di girarla in ironia.

Scostai lo sguardo cercando di non considerarlo lì, a un soffio da me, e incrociai gli occhi di Kojiro: mi guardava. Immobile mi fissava cercando di trasmettermi rabbia, cattiveria e invece mi arrivò solo il dolore.

Perché bisogna sempre scegliere?

Perché i miei sentimenti assurdi, confusi, mi facevano essere ora ad un passo da Kojiro, da lui che amavo tanto, e non potere, non riuscire a parlare?

Perché lo amavo, naturale, nel modo sbagliato.

"È buono", Ken mi scosse da quello sguardo.

"Eh?..", chiesi tornando a guardarlo.

"È buono", mi sorrideva inghiottendo dalla mia scodella, dalle mie bacchette.

Mi piaceva moltissimo quel ragazzo. Mentre mi sorrideva o mi prendeva in giro, mentre parlava o rimaneva in silenzio. Mi piaceva moltissimo e incrociare il suo sguardo che era un piccolo mare agitato e meraviglioso mi fermava un po’ il cuore, mi faceva fremere i nervi in un modo che credevo impossibile perché non dava dolore, né insofferenza, ma dava pace.

Ed io la pace non la avevo mai sentita.

"Lo vuoi finire?", gli chiesi.

"No. Voglio che lo finisca tu".

Va bene. Non glielo dissi, chiaro, ma la risposta fu la scodella pulita.

"Alla fine sei entrato nel Toho, Taro?", mi girai di scatto verso Wakabayashi che aveva fatto quella domanda infelice.

Ci fu un istante di assoluto silenzio. Taro fissava smarrito il tavolo, le bacchette ferme a mezz’aria.

Cosa aveva raccontato a Genzo? E cosa aveva spiegato a Kojiro? E Ken, che certo non poteva sapere, sarebbe rimasto in silenzio?

Risposi io.

"Gli ho così rotto le scatole che è entrato nel club della poli-sportiva".

Una gran cretinata, quella. Ma non mi venne molto di meglio.

"Già… e poi… -tentò di attaccarsi a quella bugia Taro- nel Toho chiedono molto impegno e… ora non ne ho il tempo…"

"Cioè giochi a calcio… per hobby?", si impuntò Wakabayashi.

"Beh… più o meno… cioè…"

"Vuoi?", gridò quasi, Kojiro, dovettero curarsi tutti di lui, anche se semplicemente offriva una sigaretta a me.

"Grazie", accettai, un po’ meno ferita: se anche lo aveva fatto per togliere Taro da quel discorso mestamente finto, in fondo mi aveva rivolto la parola.

Cambiare discorso venne poi semplice, ne fui tranquillizzata.

"Allora parti, Taka?", si affrettò a chiedermi Taro.

"Mm… dopodomani… così non potrò partecipare al torneo…"

"Come mai?"

"Di che cosa?"

"Quando?".

Tre domande, tre ragazzi diversi.

"Boxe" iniziai a rispondere a Wakabayashi.

"Tu boxi?!", esclamò quasi disprezzandomi.

Insomma, magari fu solo un’impressione, ma non usò un tono stupito, né curioso, parve proprio sprezzante.

"E allora?".

No. Non difendermi… non ne ho bisogno…

"Guarda che so badare a me stessa… –dissi piano a Ken- speravo lo avessi capito…"

"L’ho capito", scorciò lui.

"Allora? Come mai non puoi fare il torneo?", Taro ripeté la sua domanda.

"Beh… diciamo che Shibuya…"

"È il suo coatch… una specie di montagna umana", spiegò Taro a Wakabayashi.

"Insomma… -continuai- Shibuya ha deciso che devo allenarmi per accedere al torneo, siccome parto, la conclusione è ovvia"

"Quando inizia questo torneo?", mi chiese Ken.

"Il ventinove"

"Bene"

"Bene… che cosa?"

"Bene", ripeté, in quel suo modo per cui non ci sarebbero state spiegazioni, inutile chiederle.

"E invece dove vai esattamente?".

Kojiro si sforzava di tornare a parlarmi, a giocare con me come era sempre stato prima della sera precedente.

"Andiamo a Kyoto… cioè vicino a Kyoto… a Otsu"

"Quando torni?"

"Il giovedì dopo".

Mi snervava rispondere a quelle domande, non perché le sentissi vuote o di cortesia, semplicemente non avevo voglia di parlare. Lo so, è idiota, ma la mia testa continuava a pensare a quanta distanza ci fosse tra i capelli biondi, lucidi, gli occhi così chiari, quasi trasparenti, di Hanna e me, nei miei colori insignificanti, anonimi. E tutto a causa di Ken.

"Mm… -si stiracchiò Wakabayashi- che dite se andiamo a ballare dopo?"

"A ballare?", ripeté Taro.

"Ma sì, dai… almeno ci scarichiamo un po’", Kojiro lo disse così, generico, ma in realtà sapevo che sentiva di dover sfiancare i suoi nervi, solo i suoi.

"Va beh… per me va bene… dove vuoi andare?", gli chiese Taro.

"Beh… usciamo e intanto ci pensiamo"

"Ok. Aspettatemi fuori, vado a pagare", ci invitò Taro.

"Misaki, aspetta, vengo così metto la mia parte", disse Ken.

"No, no… -Taro scuoteva con convinzione la sua testa bruna- offro io. Vi ho chiesto io di venire…"

"Ed io non ero sicuro e poi ho portato Takako".

Mentre discutevano buffi di soldi e gentilezze, Kojiro passò alle spalle di Ken.

"Già la chiami per nome?".

Lo sentii perfettamente. Assolutamente scandite e tremende, le parole di Kojiro, mi attraversarono il cervello martellanti.

Uscii per prendere fiato, sperando di zittire un momento la testa: ormai i pensieri sulla distanza di Kojiro, così viva e opprimente, si mescolavano a quelli verso me stessa. ,me stessa in relazione a Ken.

Una girandola schizofrenica di inquietudine.

Ci radunammo qualche minuto in cerchio, appena fuori dal locale.

"Allora dove andiamo?", chiese Wakabayashi.

A me non importava. Lo ammetto: non avevo nessuna voglia di andare a ballare. Io detesto ballare. A pensarci bene, io detesto, e detestavo, moltissime cose.

"A me non importa dove andate… io a casa. Sono stanco".

No… non andare…

Lo pensai così, senza barriere, perché davvero, nonostante lì ci fosse Taro e anche Kojiro, io volevo rimanesse proprio Ken.

Vedi che davvero ti faccio schifo? Così schifo che non vedi l’ora di andartene…

Un pensiero ancora più assoluto, distruttivo, ma mi crollò davanti.

"Beh? –mi guardava interrogativo- Andiamo?".

Lo fissai assolutamente stupita.

"Sì".

Non mi importava, in quel momento, di cosa avrebbe potuto pensare Taro, né dire Wakabayashi e nemmeno, lo ammetto, anche se mi sento cattiva e egoista nel dirlo, neppure al dolore soffuso di Kojiro.

Camminavamo l’uno al fianco dell’altra, lentamente, o almeno così mi sembrava. Avrei voluto che lui cercasse la mia mano, di nuovo, con quel tocco che mi dava conforto e brividi, ma capivo la sua indifferenza: chi mai avrebbe avuto desiderio di un contatto con me?

"Ma volevi venire via, vero?".

Non era proprio una domanda, era qualcosa per trovare conferma definitiva ad un dubbio.

"Sì, sì…".

Volevo rimanere con te…

Ma questo naturalmente non lo dissi.

"Anch’io… non è stata proprio una bella serata…"

"Già…", mi limitai ad accondiscendere.

Continuavo a sentire la mia incongruenza al confronto con lui.

"Takako?..".

Lo guardai, continuando a camminare.

"Grazie… cioè… non so se devo ringraziarti, in realtà…"

"Che vuol dire?", cercavo di essere vitale, allegra. Non credo ci riuscissi molto bene…

"Che quel bastardo… Dio… scusami…", si inchiodò su quel "bastardo", talmente usuale che io non lo avrei colto, davvero.

"Ehi… -lo rassicurai- non preoccuparti, davvero…"

"Ma…"

"Te l’ho detto –lo interuppi- io sono la bastarda, ma questo è un dato di fatto… quando lo sai non fa poi così male".

Ero sincera. Sincera perché quello che faceva male non era certo essere una figlia bastarda. Non me ne importava nulla, in realtà. Io avevo avuto un padre e una madre, come tutti, non mi interessava sapere chi, come fossero i miei genitori.

"Dicevi?", continuai.

"Beh… -fortunatamente sentì la verità delle mie parole e proseguì- insomma… quel figlio di puttana poteva evitare di dire quella frase senza senso!"

"Senza senso?", chiesi incerta.

"Sì. Assolutamente senza senso"

"Ma dici perché ha pensato che… che stavamo insieme?

"Ma no! Per quella puttanata sul fatto che io posso avere ragazze molto… molto…"

"Molto meglio di me?", chiesi, la testa bassa, triste, ero profondamente triste.

"È una puttanata", disse lui.

"Non credi di poter avere qualunque ragazza desideri?"

"Non credo che ci siano ragazze migliori di te".

Fu una cascata di suoni quella che sentii attraversarmi come una scossa leggera le ossa. Si accorciò il fiato, batté il cuore un po’ più forte, un po’ più vivo. Perché Ken era vero, pulito nel dirmi quella frase: era quello che sentiva, lo capii, davvero non ebbi motivo di dubitare di quelle parole.

"Grazie… -dissi tenendo gli occhi sulla strada, bassi, per non dover incrociare i suoi per timore che mi vedesse scottare di imbarazzo- Ken?.. tu credi che… che io …", mi zittii.

"Che cosa?"

"Niente… dai, siamo arrivati. Io vado…", dissi sul bivio della metropolitana che ci avrebbe divisi.

"Non vorrai andare sola?".

Sentii le sue dita stringere questo mio polso apparentemente debole, precario: mi costrinse a guardarlo in faccia. Arrossii ancor più violentemente, pregando che non lo notasse o fingesse di non averlo fatto.

Ma dovevo capire che non avrebbe detto proprio nulla su quel rossore puerile e insieme incontrollabile. Esattamente come nel momento del nostro primo incontrarci, avrebbe finto di non vederlo.

"Io penso che tu sia molto bella".

Rimasi senza parole. Anche senza fiato, in realtà. E non avrebbe avuto valore nemmeno uno di quei grazie sussurrati che tanto spesso ci eravamo trovati a scambiarci quel giorno io e lui.

Senza parole. Non sempre c’è bisogno di suoni.

Io che volevo la mattina di quel giorno non avere mai occasione di rincontrare Ken, mi trovai a chiedere di non perderlo più la sera stessa.

Bastò un giorno soltanto. A volerlo accanto e non più lontano.

Mi sporsi impercettibilmente: un semplice, candido, forse stupido bacio mi fece conoscere il ruvido gentile della barba sulla sua guancia.

Spostai il mio corpo verso la mia stazione.

"A presto", disse bassissimo lasciandomi il polso.

Sorrise.

Sorrisi.

Già. A presto. Lo sperai con tutto il cuore mentre si chiudeva alle mie spalle la porta della metropolitana e trovavo il silenzio e la solitudine.

Entrai in casa, accarezzai con gli occhi i colori di Taro, i miei.

Sciolsi i miei capelli con un gesto solo e, svestita, mi fissai un istante allo specchio mentre stendevo il futon: sorrisi alla mia immagine.

Per la prima volta, dall’inizio dei miei ricordi io sorridevo a me stessa, senza odiarmi.

 

Capitolo decimo

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