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Dicembre 1993
Satira
Minimo 7 pag.5
La macchina del tempo
I preparativi sono ultimati, siamo ormai pronti. Dentro di noi si mischiano un gran numero di sensazioni: paura, cu­riosità, stupore, incredulità.
E' davvero possibile che questa mac­china ci consenta di spostarci nel tempo a nostro piacimento? L'unico modo di verificarlo è metterla alla prova. In tre, intrepidi, ci avventuriamo a bordo ma resta da definire un ultimo particolare, forse il più importante: La destinazione. Il futuro ci fa un po' paura e per questo decidiamo di rifugiarci nel passato. Dove andare ? Anzi, quando andare ?
Proviamo, così, a pensare a qualcuno che ci piacerebbe conoscere. Davanti a noi sta, aperto su un tavolo, l'ultimo numero di Minimo 7, con la pagina con le frasi celebri. "Ma quanto è grande questo e?" Ma si, Cauchy!!! Questo nome sempre così presente per noi studenti di ingegneria.
Gli altri sono d'accordo. Si parte, incro-ciando le dita e sperando che tutto vada bene. La destinazione è Torino, anno 1832. Cronache degne di credito ci confermano che lo troveremo li.
La macchina è avviata, noi vaniamo avvolti da un bagliore immenso, non riusciamo a tenere gli occhi aperti e ci troviamo di colpo su un marciapiede, per strada. Siamo storditi, fa freddo e molte sono le emozioni. Facciamo una grande difficoltà a riconoscerci in un ambiente tanto insolito. D'altra parte siamo stati riportati indietro nel tempo di più di centocinquant'anni. Dopo qualche mo­mento di comprensibile euforia, ci rial­ziamo e ammirando lo splendore della Torino sabauda ci mettiamo sulle tracce dell'uomo che cerchiamo, suscitando un certo scompiglio tra le gente che ci vede passare vestiti con abiti per quel tempo insoliti.
Raccogliendo qua e là informazioni, riusciamo infine a trovare il poeto cerca­to. Varchiamo quasi con ossequio il portone del grande palazzo in stile classico che si erge davanti a noi e saliamo una lunga scalinata, fatta di alti gradini, fino a raggiungere il secondo piano. Ci dirigiamo, poi, verso una delle due porte che si trovano sul pianerottolo cercando di trovare il coraggio di bus­sare. Finalmente uno di noi prende coraggio e da due colpi discreti sullo uscio.
Dopo qualche momento, che sembra lunqo un' eternità, la porta si apre e ci troviamo davanti un uomo di media sta­tura e di costituzione robusta che ci fissa con due occhi acuti ma colmi di stupore. Costui ci chiede chi siamo, cosa voglia­mo e l'unica risposta che riusciamo a dare è che siamo degli studenti inge­gneri che cercano Cauchy perché hanno appreso di alcune sue importanti scoper­te sul calcolo infinitesimale. Saputo ciò Cauchy si presenta a noi e, vinta la sua iniziale diffidenza, ci invita ad entrare. Ci viene da pensare che egli non abbia ricevuto molte visite ultimamente In proposito, vista la cordialità che qualche istante dopo ci dimostra, dicendoci che si sente molto lusingato perché nessu­no, ad eccezione di pochi ornici stretti
come un certo Lagrange e il conte di Laplace, mostra attenzione alcuna per i suoi lavori.
Cogliendo l'occasione, cerchiamo di essere noi a fargli delle domande per evitare di essere colti in evidente imbarazzo nell'impossibilità di spiegare chi slamo e da dove veniamo. Viene spontaneo chiedergli e quale sia stata la sua storia. (È difficile stare a fare domande a colui che oggi viene consi­derato uno dei più grandi matematici di sempre senza lasciar trasparire una certa emozione).
Cosi Cauchy comincia a parlarci di se, ci narra la sua storia. Dice di essere nato a Parigi nel 1789, in piena rivoluzione francese, e di essere scampato alla morte per miracolo. Dopo avere tra­scorso I primi quindici anni della sua vita sotto la tutela di zii materni, egli intra­prende studi di ingegneria (ma guarda un pò!) ma poi, dal 1813, decide di darsi anima e corpo alla matematica.
Costretto all'esilio dal mancato giura­mento di fedeltà a Luigi Filippo, dopo tanti luoghi visitati, si stabilisce a Torino dove può giovarsi dell'aiuto, soprattutto intellettuale, di una cerchia di amici. Vivo rimane comunque in lui il desiderio di fare ritorno nel suo paese. Consapevoli che questo suo desiderio si avvererà (Cauchy tornerà in Francia nel 1838), gli auguriamo di potorio fare. Egli prosegue, poi, dicendoci che in quel periodo e totalmente immerso nei suoi studi e sta cercando di portare a termine un'opera enciclopedica che riassuma le principali conoscenze matematiche possedute. E' nero di avere già scritto tredici volumi del suo lavoro ma allo stesso tempo è con­sapevole di essere ancora a metà. Il volume su cui sta attualmente lavoran­do concerne alcuni concetti di calcolo infinitesimale ripresi da riflessioni del grande Isacco Newton .
Ad un fratto lo vediamo accigliarsi e Cauchy si scusa dicendoci di essere molto preoccupato: il pensiero che la
sua vita trascorra inutilmente lo tormen­ta e ha paura di non riuscire a lasciare traccia di se. Ci confida che forte è la tentazione di non andare più avanti nella sua opera.
Ancora una volta, certi di ciò che diciamo, lo rassicuriamo anche se ciò ci appare paradossale, viste le nostre con­tinue lamentele con i docenti per l'ecces­siva presenza del suo nome sui testi di Analisi Matematica.
In quel momento qualcuno bussa alla porta e il nostro interlocutore si assenta per qualche tempo. Per la prima volta dal momento in cui siamo entrati riusciamo a distogliere lo sguardo dalla sua persona. Così ci guardiamo intorno. Su di un tavolo, sotto un paio di lenti consumate, scorgiamo dei fogli di carta con delle formule che ci sembrano familiari, simili a quelle lette sulle bian­che pagine dei nostri libri ma disordi­nate come quelle scritte da uno studente
in sede d'esame. Non d sentiamo di toccarle e volgiamo lo sguardo altrove. Mentre ricerchiamo in giro qualche oggetto che testimoni la presenza di una donna o di una qualunque altra creatura che possa di tanto in tanto distoglierlo dai suoi impegni a qualcuno viene il rimpianto che non sia stata ancora Inventata la televisione.
Nel momento in cui Cauchy ritorna comprendiamo che è giunta l'ora di andare via e ci congediamo in modo discreto, ringraziando per l'ospitalità offertaci. Uscendo dalla porta avvertia­mo uno sfrano odore d'oppio.
In un luogo precedentemente conve­nuto ritroviamo la macchina del tempo e come al risveglio da un sogno, in un batter d'occhio, ci ritroviamo a casa.
Resta però in noi il rammarico di non essere riusciti a fare qualcosa che potesse cambiare la storia, almeno in parte. Forse con un bel Monopoli,..
Francesco Catalano
Missione Bonta', di Giuseppe Accardo


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