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I Santi Protettori della Parrocchia

Nelle memorie antiche da cui prende rilievo la figura dei santi tutelari di Palena, non è facile sceverare l'elemento storico da quello che può essere stato il naturale apporto dell'immaginazione popolare del corso e attraverso le oscure vicende dei secoli.

A domandarci di essi, per averne una compiuta e sufficiente conoscenza, non sopravvivono, in sostanza, che scarse notizie che si può ritenere abbiano un fondamento di vero: non sono che scorci di storia rivestiti più o meno di ciò che la pietà e l'ammirazione dei fedeli aggiungono d'ordinario nelle biografie dei santi sottratte così spesso al vaglio della critica storica.

Possiamo tuttavia contentarci anche di questi elementi, ove di questi non abbia a dubitarsi, se si rifletta che é già molto che il certo non sia andato perduto anch'esso nella notte dei tempi cui sale l'origine dei santi che qui ricordiamo.

Sant'Antonino

E anzitutto ci viene innanzi il titolare della Chiesa, il martire Sant'Antonino.

Gli antichi storici da cui sono tratte le poche e mal sicure notizie di lui lo fanno nativo di Francia e di origine regale,

riportando i natali all'epoca romana delle persecuzioni contro cristiani; non però tutti d'accordo circa il tempo preciso, opinando alcuni ch'egli fosse nato sotto l'impero di Antonino Pio, altri con maggiore probabilità sotto Diocleziano, tra la fine del terzo secolo i primi anni del quarto, i tempi più duri e cruciali per i cristiani.

Un biografo moderno è tratto anzi a pensare, da nuove ricerche, che il santo sarebbe nato non in Francia ma in Siria e cioè in Apamea di Siria.

Comunque sia, il certo é che egli, pur nato da genitori pagani, attratto poi alla verità da studi compiuti e da buone influenze subite, sentì vivo il bisogno di convertirsi alla nuova religione, quella di Cristo, di cui, come attestano specialmente i bollandisti, fu strenuo e invitto assertore nelle sue peregrinazioni attraverso le contrade di Italia e di Francia, che si ritiene siano state da lui percorse in quell'epoca tremenda.

La sua vita intensamente operosa fatta di infaticato zelo nella diffusione del Vangelo e della morale cristiana, non poteva naturalmente sfuggire alla caccia spietata che si dava ai cristiani.

Nella vigorosa bellezza della sua anima ardente, accresciuta dal fulgido decoro dell'ordine del diaconato, di cui era insignito, soggiacque intrepido alla mano omicida del carnefice, e nella luce purissima di quel suo mattino di gloria ebbe a sfolgorare sul capo, librato lo sguardo nel rapimento dell'estasi, l'aureola del beato.

Così atteggiata è passata nei secoli la sua luminosa figura come poteva ammirarsi un magnifico dipinto che si osservava in Palena, sulla parete di sfondo dell'altare maggiore del tempio caduto.

Le reliquie di questo impavido campione della fede riposano in Francia, in un'importante abbazia a lui dedicata, nel villaggio che nel IX secolo fu chiamato CASTRUM APPAMIAE, oggi Pamiers.

Vuole la tradizione che il santo peregrinando nelle terre d'Abruzzo, avesse visitato anche Palena centro importante di Peligni a ricordo del quale passaggio chiamasi ancora "SPORTO DI SANT'ANTONINO" un'entrata d'arco costruita in pietra in vicinanza della Chiesa su cui in tempi posteriori fu innalzata la torre dell'orologio tuttora esistente (demolita poco dopo ... N.d.R.)

La festa che Palena celebra in onore del beato, eletto titolare della parrocchia al tempo, come si crede, degli Angioini, e venerato anche in altri paesi e chiese, come a Torre dei Passeri, cade il 2 settembre, che si vuole sia la data del suo martirio.

San Falco e San Nicolò.

Circondati da una venerazione più grande, vanta Palena, come i suoi maggiori protettori San Falco e San Nicolò da

Forca Palena; il primo particolarmente, perché più legato al cuore del popolo per annosità di culto, più sentito a causa degli straordinari poteri miracolosi del santo la cui fama diffusa fin da tempi lontani in tutto Abruzzo ha richiamato sempre in paese folle devote di Pellegrini.

Nato verso la metà del X secolo dall'antica e nobile famiglia Poerio, nella lontana Calabria, e precisamente nella città di Taverna, antico e nobile castello, molto popolato (così scrive il canonico Cesare Falcocchio in un modesto compendio biografico) fu egli estratto per tempo per un istintivo amore alla solitudine, alla vita dell'eremo che lo mosse ad abbandonare il mondo e a ritirarsi fra i monaci basiliani, nella celebre Abbazia di Pesica, non lungi da Cosenza, i cui pii uomini ebbero fama di virtù e di santità in tutta la regione calabrese.

Ma i tempi torbidi e soprattutto il pericolo che si affacciava dalla Sicilia dominata dai saraceni già pronti ad invadere, come fecero, la Calabria e la Puglia, solo più tardi liberate da Niceforo Foca, indussero Falco e altri a lasciare quella loro terra di origine e a trasmigrare in Abruzzo dove la solitaria montagna, che si offriva loro alle contemplazione dello spirito e a i fecondi sviluppi dell'umano in divino, fu il loro rifugio ideale e il loro asilo di pace.

Scelse il nostro santo la sua dimora nelle vicinanze di Palena e precisamente sull'erta salita odorata di timi del rupestre colle di Coccia dove la sua anima romita visse nella preghiera e nella visione costante delle altezze cui solo può giungere su le orme di Dio, la potenza vegliante dell'anacorata, al quale è dato più ancora che in altre forme di vita religiosa, di scoprire della silenziosa esplorazione del divino tesori di una bellezza e di una originalità che il mondo non conosce e né suppone.

San Falco dové sentire questa divina poesia, che neppure le povere metriche del mondo sono capaci di raccogliere e di condensare nel verso, ed è appena una pallida immagine quella in cui riassume le sue impressioni, nell'ammirazione del santo, il poeta Paolo Parzanese nell’inno vergato dalla sua penna in onore di Lui, pur assai bello per facilità della vena poetica e per il facile accostamento all'anima del popolo delle cui sensazioni il Parzanese è così genuino interprete.

Fu l'eremo, dunque, in cui santo poté sentire nel suo animo anelo l'infinita ricchezza della vita di Dio; fu questa che creò in Lui impulsi anche di opere, ispirate al senso più vivo della carità cristiana, che lo mosse da quell’erto colle a portarsi spesso in mezzo alle popolazioni delle ville vicine per rialzarne lo spirito dalle infestazioni diaboliche, da cui, secondo la leggenda, erano esse travagliate ed oppresse, e per rincuorare i deboli e gli afflitti; ma più grande ebbe a sentire questo beneficio la vicina Palena il cui popolo, nella visita che il santo eremita vi faceva quasi settimanalmente, era così ansioso di ascoltare gli oracoli della sua voce e di ricambiare la carità con la carità.

Si legge nella piccola biografia citata che alla sua comparsa in paese gli si facevano l'incontro per le strade i fanciulli, gridando giulivi a coro: ECCO IL PADRE SANTO, ECCO IL PADRE FALCO"

Fu un tredici gennaio (non si conosce con precisione l'anno ma si dà per certo che fu verso la metà del XI secolo) che l'uomo di Dio piegava umile il capo nella sua solitaria grandezza di asceta, alla chiamata che dall'alto, nella purissima luce di quel mattino d'inverno, batté silenziosa e dolce alla porta della sua anima, che fu pronta a spiccare il volo dall'immacolato candore da quella sua vetta terrena alla sognata vetta dell'eterno.

Quella morte fu avvolta di mistero e di poesia.

Così leggiamo: "... moltissima neve era caduta, quando si sentì suonare la piccola campanella dell'eremo dove viveva ritirato l'uomo di Dio. A tale novità accorsero da Palena molti arditi giovani per sovvenire a qualche presupposta indigenza di lui, e lo trovarono esanime, steso su una tavola con due candele accese, una a capo e l'altra ai piedi, mentre angeliche melodie festeggiavano il di lui trapasso beato".

Sono passati nove secoli da quella morte. Palena ha l'onore di conservare le insigne reliquie del Santo, che traslate nel 1383 dalla villa di sant'Egidio, ove il di lui corpo aveva avuto onorata sepolture in vicinanza dell'eremo, sono gelosamente custodite, sacre alla venerazione del popolo e meta frequente di pellegrini da paesi vicini e lontani.

Accanto a San Falco rifulge di non minore splendore la figura di San Niccolò da Forca Palena che tocca in modo particolarmente vivo il cuore dei palenesi, ai quali egli appartiene come santo concittadino.

Nacque Niccolò nel 1349 in Forca, un antico e vicino castello che la storia annovera tra le ville contermini che andarono distrutte a causa di rivolgimenti e di turbolenze faziose che funestarono l'Italia e particolarmente l’Abruzzo per la lotta, volta alla conquista del regno di Napoli da cui la Abruzzo dipendeva, fra Angioini e Aragonesi, il cui Re Ferdinando, che aveva provocato un vero disgusto per le sua crudeltà, ebbe contro una congiura di baroni che si schierarono, per averne aiuto, dalla parte di Giovanni d'Angio, sotto le cui insegne, come si apprende dalla storia e dalle cronache d'Abruzzo, va ricordato particolarmente il famoso duca Giovanni Caldora possessore di Palena.

Per tale lotta molto ebbero soffrire, per effetto soprattutto di scorrerie e di saccheggi dovuti a compagnie di ventura, le terre d'Abruzzo, tra cui il castello di Forca ed altri castelli o ville, i cui abitanti trovarono rifugio nella vicina Palena.

Tra gli emigrati forcesi vi fu Niccolò e la sua famiglia, ma se ne ignora il casato, che le cronache non riportano. Uno degli antichi biografi il padre Biagio Gasparoni scrive che Niccolò, disposto fin dei primi anni per indole e per educazione alla pietà, volle eleggersi uno stato che meglio a lui si confacesse, sicché ordinatosi sacerdote e quindi eletto ad aiutare il Parroco alla cura delle anime, mostrò come egli altamente intendesse un tale ministero, a cui si era preparato con studi fruttuosi e con devote pratiche.

Da queste parole, sebbene così sobrie, e da quello che scrivono altri autori come il Pucci, il Fontana, il vescovo Corsignani di Sulmona, il De Matteis ed altri, balza vivo il ritratto dell'uomo, ossia di questo austero servo di Dio che più tardi, ossia dopo aver trascorso un ventennio in Palena, in modesta dimora di cui la tradizione popolare indica ancora il sito, sentendosi egli spinto da più forti disposizioni dello spirito, dispogliati gli abiti clericali e indossato un sacco da penitente, diede un addio ai suoi e fu meta del suo animo anelo la città eterna in cui ascendeva al trono pontificio il sulmonese Innocenzo VII.

Roma, dove giungeva quando qui, ascrittosi all'ordine dei Gerolomini e fattosi propagatore della congregazione del beato Pietro da Pisa, si adoperò a tradurre in atto il suo grande amore ai silenzi dell'eremo, per cui ebbe a fondare sulla via gianicolense il celebre monastero di Sant’Onofrio, che fu asilo di pace e meta di uomini illustri come il grande cantore della Gerusalemme liberato, l'infelice Torquato Tasso, che da quel luogo eminente come scriveva al suo amico Costantini, volle cominciare, al termine dei suoi giorni travagliati, la sua conversazione in cielo.

Per opera del santo forcese sorsero importanti cenobi anche altrove, e sono ricordati particolarmente come centri del suo infaticato ardore, dopo Roma, le grandi città di Pisa, Firenze e Napoli.

La sua giornata operosa sulla terra era ormai conclusa. Onusto di fatiche e ricco di meriti, col volto fatto magro nelle lunghe veglie dello spirito e gli occhi chiusi, tutta la sua figura ricoperta della tunica e del rigido mantello a piegoni, le mani incrociate e il capo chiuso nel cappuccio, il beato ci dà veramente l'impressione - a vederne così scolpita l'effige che si osserva sulla bella pietra tombale quattrocentesca posta all'ingresso del Santuario di Sant'Onofrio - ci dà l'impressione come di chi passi da questa vita nella placida quiete del sonno.

Fu il suo dolce trapasso, e così parve atteggiato, quando nei silenzi dell'eremo, l'ombra molle della morte avvolse la sua età centenaria.

Unanime fu la voce che ne proclamava la santità, le cui testimonianze sempre più fulgide nel corso del tempo, ebbero il pieno riconoscimento della Chiesa che sotto il pontificato di Clemente XIV nel 1771 lo innalzava agli onori degli altari.

La memoria del grande eremita è decorata anche da quanto scrive di Lui l'autorevole storico Fabio Biondo, nell'opera insigne "L'ITALIA ILLUSTRATA".

Bella, infine, è l'epigrafe che fu scolpita sulla lapide commemorativa

DIVO NICOLAO B. M. MCCCCXLIX

HOC TUMULO AETERNUM, PATER O NICOLAE, QUIESCIS:

URBS QUEM ROMA TENET, GENUERE PALENAE

L'epigrafe, che si distende in altri versi, racchiude in sintesi il religioso e profondo rimpianto destato dalla morte del

grande Forcese, che l’unanime venerazione chiama divino fin da quei giorni lontani.

Palena si sente orgogliosa ed è lieta di rinnovare a Lui, come agli altri suoi gloriosi patroni, e con più particolare solennità,

dovuta alla rinascita del tempio parrocchiale, il culto ereditato dalla fede dei padri, alla quale si onora di aggiungere una nuova testimonianza col nuovo simulacro del Santo concittadino, che palenesi residenti in Roma, interpreti di un desiderio comune, offrono alla loro nativa parrocchia.

Noi li ringraziamo.

Con la nuova statua, modellata su antica effige, avremo tutti l'impressione che il beato Niccolò, come se ancora di rivivesse torni finalmente, sia pure consumata la sua vita nell'eremo, a rivedere i suoi monti nativi in mezzo al popolo che fu suo e dove spese la sua giovinezza in ardore di apostolato e di opere.

Don Giuseppe Napoleone (Arciprete di Palena)

Siamo infinitamente grati ai bravi concittadini residenti in Roma che sotto la presidenza della nostra diletta signora Amalia Pugliese, hanno offerto una nuova statua del beato Niccolò ed al reverendo Don Ermenelgildo Scarci, parroco della Chiesa di San Marco in Roma, di averci fatto recuperare il quadro di San Falco.

 

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