La Storia di Massimo: Capitoli 56 – 60

 

 

 

Capitolo 56 -- L'assedio, seconda parte

Massimo si accovacciò, il mantello di lana aperto sul terreno intorno a lui, e affondò le dita della mano destra nell'umida terra fredda. I suoi soldati attendevano pazientemente e osservavano, riconoscendo il curioso rituale che segnalava che tutto era pronto e che la battaglia stava per incominciare. Egli sfregò la terra tra i palmi con aria pensierosa, mentre Ercole gli stava seduto vicino, fremente d'eccitazione. Si portò le mani al naso e annusò, chiudendo gli occhi per un momento, quasi stesse odorando un gradevole profumo. Quindi si alzò e strofinò sulle brache le mani infangate, senza curarsi dello sporco che ora incrostava la ricca stoffa color vino. Il suo attendente lo aiutò a montare su Argento ed egli per un momento sedette immobile, valutando le centurie di uomini che si erano raccolti nei pressi e alla base della collina, in una folla casuale invece che negli usuali ranghi serrati.

- Procederemo con cautela, - disse Massimo ai suoi ufficiali. - Seguite i miei ordini alla lettera. - Gli ufficiali annuirono in assenso. Massimo quindi alzò la voce, così che tutti gli uomini potessero udirlo, ed essa fu trasmessa con cristallina chiarezza dall'aria glaciale. - Forza e onore! - fu tutto ciò che egli disse, ma ciò disse tutto agli uomini che ascoltavano. Massimo era consapevole che anche altre centinaia, forse migliaia, di uomini avevano udito le sue parole dai loro nascondigli protetti in cima alle mura della fortezza. Anche se non avessero capito il significato delle parole, avrebbero riconosciuto l'intento dal loro tono.

Mentre gli uomini raggiungevano i loro posti, Massimo guardò ancora una volta la fortezza. Era chiaro che fosse stata costruita in fretta ed essa era oggetto di scherno tra gli ingegneri e gli artigiani romani, ma forte come il bue cui la sua goffa forma irregolare assomigliava. Torreggiava da un'altezza di quasi quindici metri e racchiudeva un'area grande abbastanza da ospitare un piccolo villaggio. La sola entrata visibile era una bassa porta di legno spesso, quasi nascosta tra i cespugli e pesantemente sbarrata dall'interno. La struttura era abilmente camuffata da alberi incassati tra massi enormi che abbracciavano i margini esterni delle sue mura.

Come la loro controparte romana, i barbari avevano lavorato instancabilmente per tenere inzuppati d'acqua gli alberi, finché Massimo aveva dato ordine di chiudere con una diga il ruscello che scorreva sotto le mura della fortezza, pur sapendo che essi avevano altre fonti d'acqua, ora. Il tempo era peggiorato, con un costante nevischio che cadeva durante le grigie ore diurne, e che si trasformava in neve acquosa di notte. L'esercito romano si era lasciato sfuggire l'occasione di attaccare sotto i luminosi cieli azzurri di mezz'autunno.

Massimo non aveva mai condotto un assedio in precedenza, ed era un'esperienza del tutto diversa dal condurre file di uomini contro il nemico in aperta battaglia. Era chiamata strategia alternativa ed egli non aveva premura di prendere decisioni affrettate di cui più tardi avrebbe potuto pentirsi. Nonostante il freddo e la pioggia, i suoi uomini erano ben nutriti e vestiti di abiti caldi e potevano sostenere con facilità una battaglia metodica e attentamente orchestrata, malgrado il loro entusiasmo per i progressi fatti. Potevano volerci letteralmente delle settimane.

Il modo più facile di concludere l'assedio sarebbe stato la resa dei barbari, ma Massimo conosceva abbastanza il suo nemico da dubitare che ciò sarebbe accaduto. Tuttavia, avrebbe dato loro la possibilità di porvi fine senza troppo spargimento di sangue, prima di fare qualunque altra cosa. Parlò a Quinto pacatamente: - Al mio comando, lanceremo dalle baliste due, quattro e sei.

- Stiamo per snidarli col fuoco? - chiese Quinto. - Tre baliste arrecheranno ben pochi danni. Se lanciassimo del fuoco da tutte le baliste contemporaneamente, avremmo migliori possibilità.

- No, - replicò Massimo. - Non stiamo per snidarli col fuoco. Stiamo per ascoltare.

Non riuscendo a capire ciò che egli volesse dire, Quinto esitò, ripetendo l'ordine finché un'occhiata di Massimo lo spinse a farlo eseguire. In pochi istanti, furono caricati i proiettili incendiari nelle baliste prescelte, le quali erano state trascinate appena al di là della portata delle scadenti frecce nemiche, e gli uomini rimasero in attesa dell'ordine di lanciare. Massimo annuì ed un arciere scagliò una freccia fiammeggiante sopra le teste degli uomini sottostanti. Immediatamente le grandi macchine da guerra lanciarono i loro carichi ardenti sulle sommità delle mura della fortezza, dove essi scomparvero dietro i massi di pietra. Poco dopo si udirono urla e grida provenienti dall'interno, mentre gli occupanti si affrettavano a gettare acqua sulle fiamme.

- E' come temevo, - disse Massimo, continuando ad ascoltare il rumore che si alzava sopra le mura. - Ci sono donne là dentro, e probabilmente anche bambini.

- Hanno scelto loro di esserci, - disse Quinto.

- Ne dubito, - rispose il generale con aria severa.

- Massimo, stai facendo esattamente quello che loro vogliono tu faccia. Se quelle donne sono là contro la loro volontà, eviteranno accuratamente di farsi colpire. Stai facendo proprio il loro gioco.

- Non hai alcuna coscienza, Quinto? - La voce di Massimo era tesa per l'ira repressa. - Vorresti essere responsabile delle morti di donne e bambini bruciati vivi?

- Succede, in guerra.

- Non in una guerra sotto il mio comando, no.

- Portando avanti questa faccenda rischiamo noi di perdere più uomini. - Anche Quinto era arrabbiato.

- I nostri uomini sono ben protetti. La sola cosa che rischiamo di perdere è la nostra umanità. - D'un tratto Massimo sorrise e ammorbidì il suo tono. - Amico mio, mi conosci abbastanza bene da sapere che non cambierò idea sulla questione. - Rise sommessamente. - Dopo tutto, abbiamo qualcosa di meglio da fare nel frattempo?

Quinto ignorò il tentativo di Massimo di stemperare il loro dissenso. - E se questa fosse una tattica per tenerci occupati per mesi, così che altre tribù possano attaccare in altri punti lungo il fiume?

- Ci sono altre legioni accampate lungo tutto il fiume e tu lo sai. Possono controllare le situazioni che si presentano e se non possono mi manderanno a chiamare. E noi siamo ben protetti da attacchi a sorpresa, grazie alla legione sistemata tutta intorno a noi. Non c'è alcuna fretta.

- Ma…

- Quinto, questa è la mia ultima parola sull'argomento.

Il legato riportò la sua attenzione sulla fortezza e sui pennacchi di fumo che si levavano dall'interno, ondeggiando. La rigidità del suo corpo la diceva lunga sulla sua infelicità riguardo alla decisione di Massimo. Egli non era capace di cogliere l'ironia del fatto d'insistere su un attacco affrettato, dopo che lui stesso aveva aspettato settimane nell'indecisione, quando le legioni erano al suo comando. Capiva una cosa, però. Non si riusciva a far recedere il generale da una linea d'azione, se era convinto di aver ragione.

Un movimento improvviso vicino alla base dello spesso muro attirò l'attenzione di alcuni soldati che stavano armando le baliste ed essi urlarono al loro generale, indicando dove volevano che egli guardasse.

- Che cos'è? - chiese Quinto.

- Non lo so. Sembra… - Massimo sollevò la mano per ripararsi gli occhi, malgrado in cielo non vi fosse sole. - Sembra… una persona. Una donna. E porta qualcosa. E' un bambino, Quinto. Sta cercando di scappare nei boschi. - I due uomini si fissarono. - Come ha fatto ad uscire? - Massimo si chiese ad alta voce. - Dì agli uomini di non lanciare. Lasciamola fuggire.

Da lontano la donna sembrava una massa marrone di capelli e vestiti, che si faceva strada a forza, annerita dal fumo e sporca di fango. Il bambino che stringeva al seno era piccolo, doveva avere al massimo un anno. Ella si gettò un'occhiata alle spalle, chiaramente impaurita, e Massimo subito comprese il perché. La donna era inseguita da un barbaro che stava vicino al muro, ma che riuscì a raggiungerla e ad afferrarla per una caviglia, facendola cadere a terra con un grido. Quando egli cominciò a trascinarla indietro, Massimo diede un brusco ordine al suo arciere migliore appostato non lontano da lì. - Colpiscilo, - fu tutto ciò che disse.

L'arciere sollevò la sua arma e liberò la lunga freccia. Poco dopo il barbaro giaceva sul terreno, ferito mortalmente. Un'acclamazione si alzò dai soldati romani e la donna s'inerpicò per i boschi con il suo bimbo.

- Come ha fatto ad uscire? - si chiese di nuovo Massimo. - Quinto, voglio parlare con il nostro ingegnere capo, Giovino. Trovamelo. - Massimo smontò, volendo camminare un po' per eliminare la rigidità delle ginocchia. Incrociò le mani dietro la schiena e s'incamminò sulla cresta della collina, lontano dal gruppo dei suoi consiglieri, riflettendo.

- Mi cercavi, generale?

Massimo si girò di scatto, distolto con un sussulto dalle sue riflessioni. - Sì, Giovino. Hai visto ciò che è appena accaduto.

- Sì, generale.

- Come ha fatto ad uscire, quella donna? Credevo che l'unica uscita fosse quella porta di legno.

- Certamente non v'è altra uscita visibile, signore, ma farò controllare ancora dai miei uomini. Il problema è che se ci avviciniamo troppo, i barbari ci tirano addosso. - Giovino era un uomo di circa quarant'anni, basso e dalla corporatura squadrata di un lottatore, ma era un ingegnere altamente specializzato proveniente da Roma. Stanco di costruire edifici pubblici, si era fatto attrarre dall'ingegneria associata alle operazioni militari e aveva avuto successo grazie a decisioni e improvvisazioni rapide che facevano parte di lavori di quel tipo. - Ci potrebbe essere una specie d'apertura sotto un muro, nascosta dai cespugli. A giudicare dalle condizioni di quella donna, potrebbe essere strisciata fuori da sotto le rocce.

- E' possibile che quelle mura massicce non abbiano fondamenta? Che le rocce siano semplicemente posate sul terreno?

- Potrebbe essere. Di sicuro sono state erette in tempi relativamente brevi, perciò è possibile.

- Allora dovrebbe essere possibile abbatterle.

- Dipende da quanto sono spesse le mura e non possiamo dirlo, a meno di vedere la fortezza dall'alto. E' probabile che abbiano scavato dei fossati, riempiendoli di rocce, lasciando aperture che hanno camuffato, e quella donna può essere uscita da una di esse.

- Dobbiamo saperlo, Giovino, affinché io abbia un'idea chiara delle nostre possibili opzioni. Vedi cosa riesci a scoprire, ma non rischiare vite invano.

- Sissignore. Subito. - L'ingegnere cominciò a girarsi, poi si bloccò. - Per inciso, generale, è bello riaverti qui, signore.

- Grazie, Giovino.

- Forse non dovrei dirlo, ma spero proprio che non te ne vada più. Il comando sembra… indebolirsi… quando tu non ci sei.

- Capisco, Giovino. - Massimo sorrise all'ingegnere e i due uomini si strinsero la mano, prima che Giovino partisse per la sua missione di ricognizione e Massimo ritornasse al suo cavallo e alla sua posizione vantaggiosa sulla cresta della collina. Vide che i fuochi erano di nuovo spenti e che tutto taceva dentro la fortezza.

Quinto interloquì.
- Devo dire agli uomini di ricaricare le baliste?

- No. No… abbiamo causato abbastanza danni all'interno e non rischieremo ulteriormente di uccidere le donne e i bambini rimasti.

- Che cosa facciamo, allora?

Massimo sorrise a Quinto.
- Ce ne andremo, per questa notte, e io mi metterò a pensare. Comunque sta diventando buio, e fa più freddo. Gli uomini meritano di cenare. - Massimo tirò le redini e Argento rispose, facendo schioccare la coda e procedendo con vivacità, intuendo che stava per tornare all'accampamento, per mangiare e farsi strigliare.

 

Cicero aiutò Massimo a togliersi la corazza e il generale  si strofinò gli occhi stancamente. Quando li riaprì, il suo servitore gli porse una coppa di caldo vino speziato ed un pacchetto.

- Una lettera dall'Ispania, signore. Il corriere ha detto che gli si doveva pagare un extra se te l'avesse recapitata entro due settimane. Deve essere urgente.

Le mani di Massimo cominciarono a tremare ed egli si voltò verso la lanterna tremolante, slegando la funicella che fissava la pergamena. Urgente? Marco. Era accaduto qualcosa a Marco? L'involto cadde ai suoi piedi ed egli in fretta diede una scorsa alle parole scritte dalla mano di sua moglie. All'improvviso gettò indietro la testa, gli occhi chiusi, le mani che tenevano la lettera stretta al petto.

Cicero allungò la mano, insicuro sul da farsi. - Signore? - chiese incerto.

- Paga a quell'uomo il doppio di ciò che gli è stato promesso, Cicero. No… il triplo. - Massimo scoppiò in una gran risata che cancellò la fatica dal suo viso. - Sarò di nuovo padre, Cicero. Mia moglie aspetta un bambino.

 

Capitolo 57 -- Preparativi

Massimo si rese conto di stare canticchiando solo quando Quinto lo guardò con aria sconcertata.

- Va tutto bene, Massimo?

- Tutto bene, Quinto, - replicò lui, toccando per un attimo con la mano il punto della corazza che copriva la lettera premuta contro il suo cuore. - Finalmente ha finito di piovere e potrebbe perfino spuntare il sole. - Massimo socchiuse gli occhi verso il cielo. - Il che potrebbe scaldare un po' le cose, non credi?

- Suppongo di sì. - Quinto continuava a fissarlo, ma Massimo si limitò a sorridere lievemente e tenne per sé il suo segreto e gli occhi attentamente sul campo al di sotto.

Ogni soldato romano stava deliberatamente evitando di guardare in direzione di una solida quercia a ovest della fortezza, che presto avrebbe sorretto un giovane agile che ne avrebbe scalato i rami spiegati, per esaminare lo spessore delle mura, i fabbricati all'interno... ed i suoi abitanti. Ad un segnale del generale il giovane avrebbe iniziato la salita, nell'esatto momento in cui le baliste e gli onagri avrebbero cominciato a bombardare le mura di pietra con proiettili pesanti, sperando di scuotere la struttura e distrarre i barbari dal notare il giovane in alto tra i rami spogli della quercia. L'incarico era quasi un divertimento per gli uomini... un tiro al bersaglio, in realtà... con pochissime probabilità che qualche soldato potesse rimanere ferito. Le baliste erano al di là del tiro delle frecce nemiche e gli uomini che armavano gli onagri si riparavano sotto robusti ripari di legno. Sarebbero stati vulnerabili solo per i pochi momenti che avrebbero impiegato a caricare e lanciare. Centinaia d'arcieri erano pronti a colpire i barbari che avessero commesso l'errore fatale di mostrarsi al di sopra del muro della fortezza.

Quando tutto fu pronto Massimo annuì una volta ed il capo arciere lasciò partire una freccia che diede inizio ad una furia di attività al di sotto. Poco dopo, alti fragori riempirono l'aria di frastuoni mentre la roccia si scontrava con la roccia, scuotendo il terreno all'impatto. Volarono frecce in tutte le direzioni, più per sfoggio di potere che per intento di uccidere. Il bombardamento durò fino a che il giovane soldato fu di nuovo a terra, correndo al sicuro dietro le baliste. Massimo annuì di nuovo e le armi si quietarono in poco tempo, le spalle dei soldati che le equipaggiavano sollevate dallo sforzo di issare carichi e carichi di roccia pesante.

L'improvvisa immobilità era impressionante. Nulla si muoveva, all'infuori di frammenti di pietra grigia spazzata via dalle armi romane e che ora si sbriciolava, scivolando lungo il fianco delle mura butterate, per atterrare in cima alla pila di macerie alla loro base. Qualunque corridoio avesse potuto trovarsi là, ora era completamente sigillato... almeno su quel lato della fortezza. Quando la polvere si posò, Massimo socchiuse gli occhi per esaminare le mura, aspettando il rapporto da parte dell'ingegnere. Le mura avevano sofferto notevoli danni, a dire il vero, ma dietro la roccia mutilata c'era altra roccia e la struttura sembrava solida come non mai. Non aveva bisogno che l'ingegnere gli dicesse che questo tentativo d'approccio non stava funzionando. Esaminò i soldati sul campo sotto di lui. Alcuni avevano riportato ferite, ma nessuno era rimasto ucciso. Forse una dozzina di barbari era morta, i loro corpi schiantati quasi sepolti sotto cumuli di roccia frantumata.

- Gli uomini dovrebbero riposare mentre io mi consulto con Giovino, - disse Massimo a Quinto.

- Quale sarà la nostra prossima mossa? - chiese il legato.

- Dipende da quello che ha visto la vedetta, - disse Massimo, facendo girare Scarto per mettersi di fronte all'ingegnere che si affrettava nella sua direzione.

- Ebbene? - chiese Massimo.

- Signore, le mura sono spesse almeno tre metri tutt'intorno ed essi hanno all'interno pile di rocce pronte a rinforzare dove necessario. Le abitazioni sono quasi tutte bruciate perché avevano tetti di legno, ma i muri sono ancora in piedi e le stanno ricoprendo con pelli.

- Quanti uomini vi sono all'interno?

- Il luogo ne è pieno. Per i nostri soldati non è stato facile giudicare, ma la fortezza è estremamente ben fornita di uomini.

- Bambini?

- Sì, signore. Tantissimi, di tutte le età.

- Quali sono le loro scorte?

- Sembra che ci sia un deposito di cereali, una certa quantità dei quali è stata danneggiata dal fuoco, ma hanno anche polli, capre, pecore e buoi. Nessun dubbio che i buoi li abbiano aiutati a costruire il luogo, ma possono mangiarli se ne avessero la necessità.

- Armi?

- Ovunque.

Massimo fece cenno di aver capito poi sospirò e fissò la fitta foresta dove le basi delle tre torri d'assalto poggiavano nascoste. Parlò a Giovino e Quinto contemporaneamente.
- Tiratele fuori e cominciate a costruirle. Dovremo andare sopra le mura. Perderanno molti uomini... ma pure noi. Non c'è altro modo. - Massimo guardò di nuovo Giovino e disse: - Ringrazia il giovane che è salito su quell'albero. E' stato molto coraggioso e ha fatto un buon lavoro. Come si chiama?

- Giovino, signore, - disse l'ingegnere, raggiante.

- Tuo figlio? - chiese Massimo, incredulo che il giovane alto potesse essere carne di quest'uomo tarchiato.

- Invero lo è, signore.

- Devi esserne molto orgoglioso.

- Non c'è niente di più bello che avere al fianco il proprio figlio nell'esercito romano, signore. Forse avrai quel piacere un giorno. I bambini crescono molto in fretta, sai.

Aveva detto quelle parole con l'intenzione di allietare Massimo, ma ebbero esattamente l'effetto opposto. Marco? Marco in questo luogo ad affrontare la morte proveniente da frecce barbariche? Il cuore gli si strinse in petto ed egli trasse un profondo respiro per scacciare lo sconforto dell'improvviso oscuro turbamento. Lanciò un'occhiata al cielo che si schiariva e sussurrò:
- Se gli dei lo vorranno, che Marco non conosca mai la guerra.

- Come hai detto? - chiese Quinto mentre Giovino se n'andava per organizzare la costruzione delle torri d'assalto.

Massimo fissò attentamente il suo vecchio amico per un momento.
- Tu non hai una famiglia, Quinto.

- Sai che non ce l'ho. - Quinto si era fatto cauto, all'improvviso concentrarsi dell'attenzione su di lui.

- Dopo che questo assedio sarà finito dovresti prendere in considerazione l'idea di prenderti del tempo per te stesso. Torna a Roma. Trova una giovane donna del tuo ceto...

- La mia vita è l'esercito, - lo interruppe Quinto.

- Lo so, ed è così anche per me. Ma una famiglia è importante. Non farai il soldato per sempre, Quinto, e un uomo ha bisogno di più nella vita che solo la guerra... e la compagnia costante di altri uomini. - Massimo sorrise.

- Anch'io ho delle ambizioni, Massimo, e penso che il posto di un generale sia con il suo esercito. - Quinto si fece audace. - Non dovrebbe correre dalla sua famiglia ogni momento...

- Quinto, non dire altro. - La voce di Massimo era tesa dall'improvvisa collera.

Il legato sospirò con aria frustrata.
- Massimo, hai mai preso in considerazione l'idea di portarli qui?

- No, - fu la brusca risposta.

- Perché no? Gli altri uomini hanno le loro famiglie qui. Li potresti vedere per tutto il tempo.

Massimo fissò il panorama desolato intorno a lui.
- Avvizzirebbero e morirebbero, qui, dopo il sole e il calore d'Ispania. Qui non c'è altro che sporcizia e malanni. - Egli guardò il suo legato. - Sai, Marco è troppo piccolo per capire quello che faccio. - Dopo un attimo un sorriso gli ammorbidì i lineamenti. - Siamo andati ad una fiera quando ero in Ispania e io sono stato quasi assediato dalle persone con cui ero cresciuto che mi riconoscevano come il generale Massimo, ma Marco era solo preoccupato di non perdersi uno spettacolo di burattini. Non voglio che sia soggetto a questa vita, non ancora. E' fin troppo giovane per preoccuparsi che suo padre possa restare ucciso in guerra o della propria sicurezza, o di quella di sua madre.

- La maggior parte delle gente nel mondo vive in questo modo.

Massimo osservava i suoi uomini che ripulivano il terreno dai ceppi preparandosi a trascinare le torri d'assalto allo scoperto. Il suono delle asce che incontravano il legno echeggiava dalla foresta mentre i soldati cominciavano ad abbattere le centinaia d'alberi che sarebbero stati necessari per la loro costruzione.
- Lo so, - egli replicò. - Ma io posso proteggere i miei figli dalla morte e distruzione... e lo farò.

Anche Quinto osservava gli uomini che dissodavano il terreno dai ceppi, poi una lenta comprensione si fece strada sul suo viso.
- Figli?

Massimo fece un gran sorriso e non riuscì a trattenere l'orgoglio nella sua voce.
- Sì. A tarda primavera avrò un altro figlio.

- Be', congratulazioni, amico mio, - disse Quinto porgendogli la mano tesa.

Massimo la strinse con calore.
- Grazie, Quinto. E intendevo dire quel che ho detto sul fatto che anche tu hai bisogno di un po' di tempo per te stesso. Devi solo chiederlo, e l'avrai.

Quinto annuì e rivolse di nuovo la sua attenzione ai soldati. Non sarebbe mai potuto tornare dalla sua famiglia come semplice legato. Non era abbastanza. Sarebbe dovuto diventare generale, prima di poter mostrare di nuovo la sua faccia a Roma. Massimo non capiva che cosa volesse dire essere il figlio di un alto patrizio romano. Il successo e il ceto erano tutto, e qualunque altra cosa, perfino una famiglia per se stessi, era di gran lunga seconda ad essi.

- Anche noi possiamo tornare all'accampamento e lasciare gli uomini al loro lavoro, - disse Massimo. - Ci vorranno settimane prima che quelle torri siano pronte. Per il momento possiamo lasciare la questione nelle capaci mani dei nostri centurioni.

 

Quella sera Massimo scrisse un'altra lunga lettera a sua moglie dicendole quanto gli mancavano e avvertendola di stare attenta a non affaticarsi troppo. Aveva già scritto a Tito chiedendogli di assumere altri servitori così che Olivia non dovesse muovere un dito e potesse dedicare tutto il suo tempo a Marco e al nascituro. Massimo le disse che desiderava ardentemente una bambina, ma la rassicurò che un altro maschio lo avrebbe reso l'uomo più orgoglioso dell'impero. Le raccontò in termini vaghi dell'assalto alla fortezza, ammonendola di non passare l'informazione ad alcuno, incluso Tito.

Le lettere di lei a lui erano lunghe e ricche di pettegolezzi e dettagli sulla fattoria ed i suoi abitanti... umani e no. Ma quel che Massimo tesaurizzava di più erano gli schizzi che lei faceva del loro figlio. Sua moglie, con vero talento, catturava alla perfezione le espressioni del bambino e la sua personalità e Massimo si rese conto che in quei pochi mesi era già considerevolmente cresciuto.

Massimo si stirò, sfregandosi dagli occhi il fumo della lucerna ad olio. Ercole giaceva ai suoi piedi, la grande testa che riposava sulla punta del piede di Massimo. Massimo si chinò e strofinò le orecchie del cane provocando un enorme sbadiglio come risposta. Le serate come quella erano così lunghe e buie, ed egli odiava l'inattività. Gli uomini nell'accampamento avrebbero giocato a dadi, adesso, o ad altri giochi, e si sarebbero seduti conversando sugli eventi del giorno. Sembrava passato solo poco tempo da quando era stato uno di loro e trascorreva le serate con Dario. Dario... non pensava al suo amico e mentore da secoli, ma sapeva che Dario poteva vedere qualunque cosa lui facesse e sperava che il centurione fosse orgoglioso di lui.

Molto meno chiari nella sua mente erano i ricordi di suo padre. Massimo posò la penna e gentilmente diede un colpetto ad Ercole per allontanarlo dal suo piede, prima di andare verso una lamina di metallo lucidissimo posto sopra un forziere di legno riccamente ornato. Fissò il suo stesso vago riflesso e vide un uomo dai sorprendenti occhi blu e dai folti capelli neri... entrambi tratti ereditati da suo padre. Ma non ricordava che suo padre avesse avuto un'aria così stanca e pallida come quella del viso riflesso nello specchio. Nei mesi trascorsi dal suo ritorno dall'Ispania, la sua pelle aveva perduto il colorito vivo e sano e attorno ai suoi occhi erano tornate rughe di preoccupazione. I lineamenti attraenti della sua gioventù erano stati sostituiti da una forza di carattere che era attraente in un modo completamente diverso. Si toccò le sottili rughe sulla fronte, poi ai lati della bocca, sentendo la barba corta, lì. Il suo viso, insolitamente, era ancora senza cicatrici, se confrontato con quello degli altri soldati della sua età, ma non era certamente dovuto al fatto che lui stesse ai margini delle battaglie. Drizzò la testa e continuò a cercare segni di suo padre, ma ne poté vedere pochi. Suo padre era stato un uomo molto più semplice, preoccupato solo del benessere della sua famiglia, non di quello di un impero. Sarebbe stato orgoglioso di suo figlio?, si chiese d'un tratto, e s'inginocchiò, per fare qualcosa che non faceva da anni... chiedere la benedizione di suo padre e domandare che vegliasse sulla sua famiglia mentre lui stesso non poteva farlo.

 

Capitolo 58 - L'assalto

A metà dicembre le torri d'assalto erano quasi completate. Una era cresciuta alla vertiginosa altezza di più di ventitré metri, dal momento che i mastri concentravano i loro sforzi nello spingerla verso il cielo, per bilanciare la determinazione dei barbari di ricostruire ancora più alte le mura settentrionali della loro fortezza. Era una corsa che sarebbe sembrata quasi comica se non fosse stato che la vittoria avrebbe dato un vantaggio spaventoso, quando la guerra fosse ripresa. Frustrato dal ritardo, Massimo ordinò ai soldati di spazzare via con le baliste le parti più nuove e molto meno stabili del muro di pietra, ed essi lo fecero senza sforzo, mandando le rocce a fracassarsi nella fortezza e stritolando chiunque fosse abbastanza stolto da trovarsi nei paraggi.

Faceva molto freddo, adesso, e la neve ammantava il terreno. I soldati pestavano i piedi e battevano le mani per far circolare il sangue, e si andavano a rannicchiare attorno ai fuochi all'aperto quando veniva dato loro il cambio dalle loro postazioni. Massimo faceva fare rotazioni brevi e aumentava le razioni a tutti gli uomini, per tenere alti le loro forze, il vigore e lo spirito.

Ogni giorno egli sedeva sulla collina in groppa ad uno dei suoi stalloni, fino a sentire l'intorpidimento insinuarsi nelle punte dei piedi e delle mani. Il suo respiro gelava attorno alla bocca, orlando la barba nera di bianca brina, facendogli meritare qualche benevolo soprannome. Spesso indossava l'elmo, per mantenere calda la testa, e anche le pellicce. Se lui ed i suoi uomini erano intirizziti, non riusciva a immaginare come doveva essere per le persone intrappolate all'interno della fortezza, ma specialmente per i più giovani.

Quando la costruzione fu pronta per il giorno dopo, e la luna fu piena e luminosa, Massimo arrancò nella neve fino al suo posto in cima alla collina, solo per ascoltare. Tutto era silenzioso, eccetto che per l'ululare del vento freddo attorno alle travi di legno delle torri che si stagliavano come grandi mostri al chiaro di luna. I soldati che le proteggevano dagli intenti dei barbari di bruciarle lo salutarono ed egli restituì il saluto, poi ascoltò in attesa. Presto lo udì... il suono familiare di bambini che piangevano nella notte per la fame o il freddo, o di paura. Sapeva che anche i soldati potevano sentire le urla e sperò che esse avrebbero fatto venire loro in mente i loro stessi figli, come a lui, e ricordato che la loro lotta era con i padri, non con i bambini.

Massimo si diresse di nuovo verso l'accampamento, i passi che facevano scricchiolare la neve mentre tornava indietro, la sua lunga ombra blu che si muoveva a scatti di fronte a lui, e la luce della luna che brillava sui pochi sporadici fiocchi che stavano cadendo. Si fermò, il mantello ondeggiante, e fissò le migliaia di stelle sopra di lui. La notte glaciale era tanto terrificante quanto bella, con il potere di uccidere chiunque rimanesse troppo a lungo senza riparo. Ma il terrore suscitato dalla natura non era nulla, paragonato al terrore che l'indomani l'uomo avrebbe scatenato contro l'uomo, e contro tutto ciò che si fosse trovato nei dintorni.

 

 

Quando il sole del mattino raggiunse la sommità delle colline in lontananza, tinteggiando il bianco panorama di rosa e oro, i soldati erano ai loro posti, scudi e spade in mano. Qualunque barbaro avesse osato dare un'occhiata furtiva da sopra il muro, avrebbe tremato di paura alla vista di ciò che si era materializzato quella mattina. L'enorme torre principale era pronta per essere spostata al suo posto da squadre di cavalli pesantemente corazzati che raspavano con impazienza nella neve. Una volta a posto, un ponte mobile avrebbe permesso ai soldati armati di attraversare il muro della fortezza, difeso dai soldati sulla torre protetti da spessi scudi di legno, i quali facevano cerchio sulla sommità a terrazza della struttura. Recintata su tre lati, essa possedeva scale e rampe che avrebbero permesso ai soldati di risalire velocemente la torre per seguire i loro fratelli sopra il muro. Dietro la torre stava un distaccamento di uomini armati pronti a fare l'impetuosa arrampicata. Centinaia di soldati erano anche pronti a correre attraverso il lungo capannone coperto che arrivava fino alla base delle mura, dove avrebbero scagliato frecce sui barbari che avessero tentato di uccidere i romani discesi dalla torre. Dietro tutto ciò stavano le potenti baliste, preparate a scagliare proiettili nella fortezza, e di fronte alle baliste c'erano enormi balestre capaci di lanciare lunghi giavellotti in rapida successione con eccezionale precisione.

Nelle vicinanze c'erano altre due torri che potevano essere approntate in pochi giorni, se necessario, e centinaia di altri uomini pronti a unirsi alla battaglia ad un ordine del loro generale.

Massimo sedeva a cavalcioni di Scarto alla base della collina, proprio di fronte alle baliste, con un trombettiere al fianco pronto a trasmettere i suoi ordini ai centurioni che erano con i loro uomini. Desiderava con tutto se stesso trovarsi anche lui sulla sommità di quella torre ed essere il primo ad attraversare il ponte mobile, ma sarebbe stata una follia, e lui lo sapeva. Aveva bisogno di stare ad una certa distanza, per avere una veduta generale dell'intera battaglia, così da poter prendere decisioni rapide sulle strategie di combattimento.

Lo stendardo dell'aquila dorata di Roma schioccò dietro Massimo nel vento freddo, ispirando forza e determinazione nei soldati. Diversamente ci sarebbe stato un silenzio inquietante, perché tutti gli uomini, romani e germanici, aspettavano il segnale del trombettiere. Massimo esaminò la scena e decise che tutto era pronto. Annuì al trombettiere e poche brevi note perforarono l'aria glaciale. Lentamente, l'enorme torre cominciò a muoversi con rumore sordo attraverso il terreno nevoso, su massicce ruote di legno, gli uomini armati che marciavano proprio dietro di essa. Massimo si sentiva stranamente rilassato, ora che la battaglia stava per cominciare. Era l'attesa, che lui, e tutti soldati, odiavano.

Le grandi ruote di legno gemevano e i cavalli si tendevano nello sforzo, mentre il massiccio marchingegno si spostava lentamente verso il suo traguardo. Frecce piovvero sui cavalli e sugli uomini che li guidavano, ma rimbalzarono innocuamente sulle corazze di metallo spesso. Gli arcieri romani risposero con maggiore efficacia e i barbari morti caddero dal muro all'indietro, fuori vista.

Quando la torre infine raggiunse la posizione, più note trasmisero l'ordine di abbassare il ponte mobile, il che fu fatto con un fragore assordante. Senza esitazione, centinaia di romani armati di scudi e spade si rovesciarono di corsa fuori della torre, con urla di battaglia laceranti. I soldati sul terreno risalirono rapidamente le rampe e le scale, pronti a seguirli sopra le mura. Il suono familiare del ferro che colpiva il ferro riempì l'aria, mentre i barbari freneticamente difendevano la fortezza dagli invasori. Le frecce lasciarono il loro marchio con mortale precisione, affondando negli scudi e trafiggendo corpi. Grida angosciate s'interrompevano bruscamente al suolo, mentre uomini di entrambe le parti cadevano dal muro e precipitavano sulle rocce sottostanti, trovandovi la morte. Teste decapitate rotolavano e rimbalzavano giù per le mura di roccia lasciando strisce di sangue mentre cadaveri senza testa cadevano di lato.

Massimo sapeva che il prezzo sarebbe stato alto per entrambe le parti ed era determinato a finire la battaglia il più presto possibile. Emanò un altro ordine e la tromba suonò di nuovo. Questa volta le poderose baliste scatenarono la loro furia, lanciando enormi proiettili contro la fortezza in un flusso costante e implacabile. Massimo avvistò due drappelli di barbari che si allontanavano in fretta sul lato posteriore del muro, e diede un ordine secco. Poco dopo i giavellotti li passarono da parte a parte e sangue, carne e ossa spruzzarono coloro che si trovavano nella fortezza sottostante.

Alla fine, il flusso regolare di romani che correvano attraverso il ponte incontrò sempre minor resistenza finché non trovarono alcuna opposizione. Gli uomini sulla torre gettarono in alto le loro armi e gridarono in segno di vittoria.
- Ordina loro di stare in guardia, - urlò Massimo al suo trombettiere e le note trasmisero l'ordine agli uomini confusi sulla torre. Tuttavia, essi sapevano che era meglio non dubitare del loro generale, e tennero pronte le armi malgrado quella sembrasse una lampante vittoria. Massimo non poteva vedere quello che loro vedevano, ragionarono. Non poteva vedere i cadaveri ammassati a tre e quattro alla volta uno sull'altro e l'assenza di movimento dentro la fortezza.

Quinto arrivò di corsa al galoppo.
- Che succede, Massimo? Gli uomini sulle mura sono indice di vittoria.

- E' troppo presto. Non posso credere che una battaglia per difendere una fortezza possa finire così presto.

- I barbari per la maggior parte sono morti e quelli che non lo sono si sono arresi. - Quinto accennò ad una fila di barbari in ginocchio nella neve, le mani dietro le nuche.

- C'è qualcosa che non va, - insisté Massimo. - Non dobbiamo abbassare la guardia. Ordina alla fanteria di stare pronta. - Gli unici suoni erano i gemiti e i lamenti dei feriti. - Resta con la fanteria, - disse a Quinto, poi spronò Scarto, cavalcando deliberatamente entro la portata delle frecce nemiche provenienti dalla fortezza. Era un facile bersaglio e lo sapeva, ma la sua figura indifesa avrebbe di certo stimolato all'attacco qualunque barbaro rimasto. I soldati in cima alla torre puntarono le loro armi in tutte le direzioni, ansiosi di proteggere il loro generale da qualsiasi barbaro che potesse tentare di uccidere un eroe. Massimo cavalcò lentamente, occhi e orecchie in allerta a qualunque cambiamento della situazione. Notò alcuni uomini sulla cima del muro allentare le loro armi ed abbaiò l'ordine di mantenere la posizione.

Dopo alcuni minuti tutto rimaneva quieto e Massimo si chiese se forse non era lui oltremodo guardingo, dopotutto. Raggiunse la torre e salì i gradini a tre alla volta nonostante l'armatura pesante, gli stivali che risuonavano sul legno, e quando raggiunse la sommità aveva il fiato corto. Ancora una volta disse agli uomini di restare vigili. Vide Quinto a terra con la fanteria che manteneva la posizione come gli aveva ordinato.

Un centurione si avvicinò a Massimo mentre egli osservava la terribile distruzione dentro la fortezza. Cadaveri ammassati sopra cadaveri, germanici e romani in egual misura, e il sangue macchiava la neve di un rosso intenso.
- Sembra che ce l'abbiamo fatta, generale, - disse il centurione.

- Dov'è il resto di loro? - domandò Massimo.

- Il resto di chi, signore?

- Non possono essere tutti qua. Ci sono molti morti laggiù, ma non possono esserci tutti gli uomini. L'esploratore ci disse che il luogo era pieno di guerrieri. Dove sono?

Mentre il centurione si affannava alla ricerca di una risposta, Massimo percorse la lunghezza delle mura dall'angolo sud-occidentale, con il centurione e parecchi arcieri alle costole. Guardò ancora la fanteria armata a terra prima di rivolgere lo sguardo verso la foresta. Il sole era alto in cielo, adesso, e gettava sulla terra un'ombra blu profondo dove la luce non poteva penetrare i rami coperti di neve. Tutto era immobile, ma appena egli si voltò uno stormo d'uccelli prese il volo all'improvviso, emettendo rauche strida di malcontento. Massimo tornò a voltarsi, gli occhi che scrutavano gli alberi ancora una volta, proprio mentre una freccia scagliata dalle profondità della foresta sibilava oltre il suo orecchio destro e con un tonfo affondava nel petto dell'uomo dietro di lui. La foresta esplose in movimento mentre almeno un migliaio di barbari nascosti sotto pelli coperte di neve emergeva di corsa, brandendo archi, spade e lance.

Massimo gridò l'ordine di colpire e gli uomini sul muro fecero piovere frecce sui barbari, abbattendone molti ancor prima che fossero del tutto allo scoperto fuori delle ombre degli alberi, ma la maggior parte si dirigeva proprio verso la base della torre, urlando in segno di sfida.

Un Quinto sbigottito chiamò a raccolta la fanteria per una carica, ma non prima che centinaia di barbari determinati fossero riusciti a raggiungere la torre.
- Il ponte mobile! - gridò Massimo. - Incendiatelo! Non devono riprendere il controllo del forte!
Mentre gli uomini si affannavano ad obbedire, Massimo afferrò l'arco e la faretra di frecce di un soldato caduto. Senza quasi prendere la mira, lanciò freccia dopo freccia contro i barbari che stavano inerpicandosi sulla torre mentre altri prendevano le scale, e notò con soddisfazione che le sue frecce andavano a segno più spesso che no. Ma il ponte mobile non stava bruciando, dal momento che il legno nuovo usato per costruirlo era ancora umido e bagnato dalla neve.

- Uccideteli mentre lo stanno attraversando, - gridò, poi ruggì a Quinto, di sotto. - Non lasciare che prendano il controllo della torre! - I germanici erano preparati alla battaglia con la fanteria, ma il vero premio era la torre e il muro della fortezza... e il generale Massimo.

Dozzine di barbari ora si erano raccolti sulla sommità della torre preparandosi ad attaccare. Erano raggiunti da un flusso regolare di uomini rivestiti dalla testa ai piedi di pelli pesanti. Nessuna meraviglia che avessero resistito ad una notte sotto la neve, pensò Massimo. Le loro armi consistevano di archi e frecce, rozzi scudi e spade. Sebbene in schiacciante minoranza numerica, i romani sul muro erano molto meglio equipaggiati e addestrati.

Massimo chiamò a raccolta i suoi uomini sulla cima del muro.
- Limitatevi a tenerli là finché la battaglia a terra sia vinta. Per allora ci potrebbero essere altre centinaia di uomini dentro la torre e noi dobbiamo intrappolarli lì. Dobbiamo trattenerli finché la battaglia a terra sia vinta, così che possiamo attaccare dall'alto e dal basso. Avete capito? State dietro gli scudi. Non possiamo permetterci di perdere neanche un uomo. - I soldati annuirono e Massimo guardò al di sopra del fianco i cadaveri disseminati sul terreno intriso di sangue... molti più indossanti pellicce che corazze. - Non durerà molto, - predisse.

Ogniqualvolta un barbaro faceva una mossa per metter piede sul ponte mobile incontrava uno sbarramento di frecce.
- Non usatene più del necessario. Non possiamo rimanere senza, - ammonì Massimo, e indietreggiò mentre le frecce affondavano nel suo scudo.

Ancora una volta, del movimento attirò il suo sguardo, questa volta dall'interno della fortezza. Un barbaro mortalmente ferito tirò indietro un braccio tremulo e scoccò una freccia dritta su di lui. Massimo si girò di scatto e scagliò la sua, colpendo l'uomo con una freccia nella gola, ma il movimento di Massimo lo aveva lasciato senza difesa sul davanti e i barbari sulla cima della torre non credettero alla loro buona fortuna di trovare il comandante romano così vulnerabile. Lanciarono cinque frecce in rapida successione. Una rimbalzò sulla corazza di Massimo, due affondarono senza danno nel suo scudo, ma le altre due centrarono il bersaglio. Massimo precipitò all'indietro, dalle mura, nella fortezza, le frecce sporgenti dal corpo ed uno spruzzo di sangue che tracciava un arco dietro di lui, schizzando i soldati affranti che con orrore guardavano cadere il loro comandante.

 

Capitolo 59 - Dentro la fortezza

Massimo si sforzò di aprire gli occhi e i raggi che penetrarono le sue palpebre socchiuse furono la causa immediata del dolore che fece tremare il suo corpo e gli espulse il fiato dai polmoni.

Giacque immobile e respinse il panico che minacciava di sommergerlo. Quanto gravemente era ferito? C'erano ossa rotte? Le frecce lo avevano colpito a morte? Lentamente, valutò con attenzione le sue ferite, muovendo con delicatezza una parte del corpo per volta, gli occhi chiusi per concentrare la mente su quel compito. Il dolore sfrecciò attraverso la gamba sinistra. Era rotta o trafitta… o entrambe le cose? Similmente, il suo braccio destro. La schiena ed il collo facevano male e la testa doleva impietosamente, ma era quasi certo di avere solo delle ammaccature in quei posti.

Lentamente il suo cervello registrò rumori soffocati di battaglia, poi voci distanti che gridavano freneticamente:
- Generale! Generale? Generale, sei vivo?

Massimo gemette, ma sapeva che il suono non poteva raggiungere le orecchie degli uomini preoccupati sul muro in alto sopra di lui.

- Scendiamo a prenderti, generale!

Massimo strinse i denti e si sforzò di appoggiarsi sul gomito sinistro.
- No. - La sua voce non era che un gracidio. Trasse un profondo respiro e provò di nuovo. - No! - gridò, il dolore che gli si scagliava nella testa. - No! Restate al vostro posto. Difendete il muro.

- Ma…

- E' un ordine! Non lasciate che i barbari prendano il controllo del muro.

- Sissignore! - gridò il centurione, la preoccupazione impressa sul viso mentre si allontanava.

Il mento di Massimo ricadde contro il petto, gli occhi si chiusero come se cercassero di escludere la sofferenza. Quando alla fine si sforzò di aprirli vide la ragione della sua sopravvivenza. La sua caduta era stata attutita dai cadaveri… un mucchio di cadaveri di cinque o sei corpi ammassati. Cadaveri romani e cadaveri germanici. Cadaveri con facce urlanti congelate in maschere di morte. Massimo rabbrividì e si spostò sul fianco, gemendo mentre inavvertitamente faceva conficcare la freccia più in profondità nella gamba. Rotolò lontano dalla pila atterrando coi piedi nella neve prima che le gambe gli cedessero facendolo cadere in ginocchio. Rimase immobile, inspirando profondamente per ricacciare la nausea che aveva in gola ed il fuoco negli arti. Con lo sguardo annebbiato, controllò i dintorni. Il suo esercito aveva indubbiamente svolto un lavoro accurato. Carcasse di uomini e animali giacevano ovunque, la maggior parte orrendamente mutilate. Nulla si muoveva. L'uomo che aveva cercato di ucciderlo doveva essere l'ultimo rimasto vivo.

Massimo incespicò e afferrò la freccia che sporgeva dalla sua gamba sinistra con entrambe le mani, piegando il legno finché non si spezzò a qualche centimetro dalla sua pelle. Strappò l'abito di un cadavere vicino e si legò strettamente la stoffa sopra la ferita nella gamba, per rallentare la copiosa perdita di sangue. Con una sola mano non riuscì a spezzare la freccia nel suo avambraccio e prese brevemente in considerazione l'idea di estrarla, ma sapeva che ciò avrebbe solo aggravato la ferita, così vi legò sopra una pezza con l'aiuto dei denti, lasciando che la freccia sporgesse dalla carne.

Massimo squadrò il massiccio muro di pietra, così spesso da smorzare quasi completamente i rumori della battaglia che infuriava al di là, creando all'interno della fortezza un silenzio che aveva quasi del soprannaturale. Un viso romano lo scrutò dall'alto del muro ed egli alzò la mano sinistra in risposta, rassicurando il soldato sul fatto che fosse davvero vivo.

- Generale, ti lanciamo giù una corda!

- No! Non possiamo privarci neanche di un sol uomo. Dovete sorvegliare il muro! I barbari non devono riprendere il controllo della fortezza! - Massimo riuscì a sorridere fiaccamente all'uomo lontano sopra la sua testa. - Inoltre, non potrei risalire in ogni caso. Scoprirò un'altra via.

L'uomo annuì in segno d'intesa e scomparve di nuovo.

Massimo cercò tra i corpi un'arma e trovò una spada romana coperta di sangue. Il familiare peso nella sua mano era confortante sebbene nulla sembrasse essere vivo all'interno della fortezza. Tuttavia il luogo era vasto, con molte costruzioni danneggiate dove il nemico poteva nascondersi.

Doveva andarsene da lì. Pensò alla donna con il bambino e zoppicò fino al muro orientale da dove ella era sortita, facendo scorrere la mano lungo la pietra mentre ispezionava la base. Inutile. La neve si era ammassata lungo il bordo del muro, occultando completamente qualunque passaggio verso l'esterno.

Rabbrividì, infreddolito malgrado il calore vischioso che si spandeva sulla gamba e sul braccio. Nuvole oscuravano il sole ed aveva cominciato a cadere la neve. Massimo zoppicò verso il limite settentrionale della fortezza, inciampando di tanto in tanto in qualche ostacolo nascosto. Circa mille barbari erano strisciati fuori da quel posto la notte prima, del tutto non individuati dalle guardie romane, perciò dovevano esserci parecchie aperture nel muro posteriore che si allungava verso la fitta foresta.

Massimo zoppicò dolorosamente avanti e indietro lungo l'intera lunghezza del muro, nella luce affievolita, ma non scoprì alcuna apertura visibile. Evidentemente i passaggi erano stati celati dagli uomini rimasti nella fortezza, che avevano probabilmente fatto rotolare pesanti massi nelle aperture. Sembrava che tutti quegli uomini fossero morti, ora, ma che cosa era accaduto alle donne e ai bambini? Dove si trovavano? Erano fuggiti?

Massimo lanciò un'occhiata indietro verso il muro meridionale e si raddrizzò bruscamente notando una sottile colonna di fumo che si alzava fuori della fortezza. Annusò e fiutò il fuoco. Che cosa stava bruciando? Era finita la battaglia? Guardò di nuovo la colonna di fumo, ma capì che quello che percepiva non era l'odore del terrificante fuoco della violenza e della distruzione, bensì del fuoco accogliente che dava calore e vita. Quell'aroma confortante, l'approssimarsi dell'oscurità, i denti che battevano e le membra pulsanti gli ricordarono che se non avesse trovato presto riparo, probabilmente non sarebbe sopravvissuto alla notte.

Seguì il suo fiuto giù per un sentiero bordato da entrambi i lati da costruzioni semi-distrutte finché raggiunse una piccola abitazione intatta, una delle poche rimaste tali nella fortezza. Zoppicò fino all'entrata e ascoltò, serrando i denti per fermarne il battere e stringendo la spada con dita intorpidite. Una luce gialla strisciò sotto la porta ed egli premette l'occhio su una crepa nel legno. Due donne stavano accovacciate attorno ad un fuoco. Una rimestava in una pentola di quello che dall'odore sembrava stufato. Massimo cambiò leggermente posizione. Alla destra della donna due bambini dormivano vicino al fuoco, avvolti insieme sotto delle pellicce. Erano le sole persone che rimanevano nella fortezza, e se così, perché erano ancora lì?

Massimo moriva dalla voglia di irrompere dalla porta e pregarle di dividere il loro cibo e fuoco, invece inciampò all'indietro nella neve profonda. Indossava una corazza romana, stringeva un'arma romana e perdeva sangue romano. Le avrebbe terrorizzate. La neve stava cadendo più rapida e fitta, ora, inumidendogli il collo scoperto e gocciolando all'interno della corazza, bagnando la tunica e la biancheria di lana. Stava congelando. Mise le mani a coppa e vi soffiò dentro, cercando di scaldarle. Doveva trovare un riparo per sé, ma aveva bisogno di restare vicino al rassicurante bagliore dorato e agli odori tranquillizzanti. L'abitazione a sinistra era buia e appariva solo leggermente danneggiata così egli incastrò la sua spada tra la porta e l'intelaiatura e lentamente la forzò ad aprirsi. Si raggelò quando i cardini di legno stridettero lamentosamente e lanciò una rapida occhiata all'altra abitazione. L'avevano udito? Massimo attese qualche minuto, poi spinse di nuovo la porta, aprendola quel tanto che bastava per sgusciare dentro. Era buio pesto all'interno e in tutto e per tutto ghiacciato come fuori. Non sarebbe mai sopravvissuto alla notte lì dentro.

Mentre usciva di nuovo, il suo sguardo fu attratto da una luminosità arancione sopra il muro meridionale della fortezza. Qualcosa di molto grande stava bruciando e poteva essere soltanto la torre. Mentre Massimo si sforzava di capire le implicazioni di questa nuova informazione, non notò la luce gialla sfiorargli le gambe né l'ombra strisciare sulla neve dietro di lui. Fu l'istinto, più di qualunque altra cosa, che lo fece girare appena prima che la pietra si abbattesse sul suo cranio, facendolo piombare nell'oscurità.

 

Mentre lentamente riprendeva conoscenza, in primo luogo divenne consapevole dell'agonia nella sua testa, poi del dolore familiare al braccio e alla coscia. Il suo cervello registrò il calore del corpo e i sussurri provenienti da breve distanza. Girò la testa e gemette miseramente mentre sollevava le palpebre. Quando i suoi occhi alla fine si misero a fuoco, egli si ritrovò a guardare dritto nello sguardo curioso di una bella bambina dagli occhi azzurri e dai capelli biondi. Una bimba. Aprì la bocca per parlare, ma riuscì solo a gemere ancora. La bambina con un movimento leggero si era tolta dalla sua vista e il suo dolce viso era stato sostituito da quello estremamente arrabbiato di uno molto più vecchio. La nonna? Il viso della megera era coperto da rughe profonde e i suoi capelli erano grigi e stopposi. La donna lo apostrofò in tono collerico con parole che non riuscì a capire. Mentre cercava di concentrarsi sulla faccia di lei, da dietro una mano gli serpeggiò sotto la testa, sollevandola, e una rozza ciotola gli fu spinta alle labbra. I suoi istinti di guerriero gli dissero di non fidarsi di nessuno ed egli testardamente rifiutò di aprire la bocca. La mano lasciò la sua testa ed essa ricadde a terra con un tonfo. Stavolta vide letteralmente le stelle e inghiottì l'aria per ricacciare indietro la nausea che ne derivò.

Una mano gli schiaffeggiò la guancia per ottenere la sua attenzione ed egli questa volta guardò una donna che doveva essere la madre della bambina. Non poteva avere più di diciotto anni, o giù di lì, con gli stessi capelli biondi e occhi azzurri. Ella sollevò la tazza alla propria bocca e inghiottì un sorso, poi la tenne in mano perché lui vedesse, inarcando le sopracciglia con aria interrogativa. Egli annuì e lei gli si mise di nuovo dietro per sorreggergli la testa mentre beveva. Questa volta, quando tolse la mano, la testa di lui ricadde su un cuscino fatto di pelliccia.

- Grazie, - gracchiò lui, e la bimba ridacchiò. Massimo si sforzò di sorriderle, poi guardò oltre la piccola il bambino immobile sotto le pellicce, quasi nascosto dalle ruvide coperte marroni. Massimo non era sicuro di che sesso fosse, ma i riccioli arruffati più corti lo portarono a credere che il bambino fosse un maschio. Il piccolo si agitò, poi frignò, quindi cominciò a piangere. La madre si mosse in fretta per consolarlo, accarezzandogli i riccioli mentre gli mormorava parole gentili. Quando il pianto si quietò in un lamento, ella lo prese in braccio e lo tenne in grembo, cullandolo con dolcezza. Sistemò la coperta del bambino e Massimo ansimò quando le gambe del piccolo vennero scoperte per un momento. Una gamba non era altro che un moncherino, avvolto saldamente in cenci macchiati di sangue.

La donna anziana sfogò la sua collera su Massimo, sollevando le mani come per colpirlo. Le mani di lui scattarono in un istintivo movimento di difesa, ma non andarono lontano. Era stato così intontito e confuso da non rendersi conto, fino a quel momento, di essere legato. I suoi polsi erano legati insieme da strisce di stoffa e assicurati ad una corda stretta attorno alla vita. Cercò di muovere la gamba ferita e scoprì che anche le gambe erano legate insieme. Chiaramente non poteva andare da nessuna parte.

La giovane madre sussurrò poche aspre parole alla donna anziana e questa abbassò i pugni e si allontanò per sfogare la sua rabbia sul fuoco, piantandoci dentro un ciocco con ferocia.  Sapevano chi era, si chiese? Sapevano che era lui l'uomo responsabile della distruzione della loro casa e della morte dei loro uomini… e della terribile mutilazione al bambino? Egli non era vestito come un comune soldato, e loro dovevano saperlo. Perché non lo avevano ucciso quando ne avevano avuto l'occasione? Intendevano trattenerlo per chiedere un riscatto? Massimo sorrise scioccamente ai suoi pensieri assurdi. Quale beneficio avrebbero avuto dall'oro romano?

Il bambino. Era per lui che non erano fuggite con gli altri? Perché il piccino era ferito troppo gravemente per spostarlo? Le sue stesse ferite sembravano in qualche modo insignificanti adesso ed egli sollevò la testa con grande difficoltà abbassando lo sguardo sul proprio corpo. Non aveva più la freccia conficcata nel braccio e un odore, qualcosa di simile a resina di pino, aleggiò fino alle sue narici. Le sue ferite erano fasciate. La donna giovane disse alcune frasi come per rispondere allo sguardo indagatore di lui, ma egli si limitò a fissarla di rimando. Gli occhi di lei ruotarono all'insù e lei scosse leggermente la testa come per dire: - Uomo stupido, - prima di adagiare con dolcezza il bimbo addormentato su un materasso di pellicce e di coprirlo di nuovo. Disse qualche parola alla vecchia che la sostituì a fianco del bimbo, poi ella andò verso la pentola sul fuoco e scodellò un mestolo di stufato fumante in una ciotola. Lo stomaco di Massimo brontolò in risposta e lei sorrise lievemente.

Di nuovo gli sostenne la testa, poi gli imboccò col cucchiaio la carne fumante finché la ciotola fu vuota. Massimo era incerto su quale animale avesse fornito il pasto, ma il cibo era soddisfacente e saziante. La donna gli mise addosso delle pellicce poi procedette a ripulire, lavando le ciotole in acqua prodotta da neve sciolta. Ella sbadigliò mentre lavorava e Massimo la studiò da vicino cercando di immaginare come provvedesse al sostentamento della sua famiglia in tali terribili condizioni di vita. Suo marito giaceva forse morto nella neve fuori della fortezza? I suoi fratelli anche e forse anche suo padre?

- Grazie, - mormorò Massimo ed ella girò la testa per guardarlo. Non c'era odio nei suoi occhi, né paura… solo rassegnazione. Lui era un uomo che aveva bisogno d'aiuto e lei era una guaritrice. Sembrava tutto molto semplice.

 

Capitolo 60 - La galleria

- Generale Massimo! - chiamò una voce in lontananza.

- Generale? - Una voce diversa questa volta.

- Generale Massimo, dove sei?

- Generale!

Massimo si svegliò bruscamente e si sforzò di mettersi a sedere prima di aver ripreso completamente conoscenza. Mentre prendeva fiato per rispondere, una mano gli strinse in una morsa la bocca e il naso. Un'altra si unì ad essa ed egli lottò per respirare sotto la pressione. La soffocante stretta sul suo viso continuò finché le voci svanirono in lontananza fino a scomparire del tutto. Quando le mani bruscamente lo lasciarono, Massimo inghiottì l'aria nei polmoni brucianti e osservò la sua carceriera con rinnovato rispetto. Lo avrebbe di sicuro soffocato prima di lasciargli tradire la posizione dei suoi figli.

La donna bionda lo fissò nella debole luce del primo mattino che filtrava dalle crepe nella porta. Ora ella sapeva che lui non era un comune soldato romano. Le pattuglie di ricerca non venivano mandate a cercare i comuni soldati.
- Massimo, - disse.

Egli annuì.

- Generale, - disse.

Massimo esitò prima di annuire ancora. La donna sapeva che cosa significasse quella parola?

Ella lo studiò attentamente, consapevole della contraddizione tra abiti e ferite da guerriero di lui, e la tenerezza nei suoi occhi quando guardava i suoi figli. Tuttavia non fece alcuna mossa per slegarlo.

Massimo non riusciva a capire perché i suoi uomini non avessero sentito, come lui, l'odore del fuoco per cucinare, poi si rese lentamente conto che l'odore del fumo riempiva la piccola capanna e che esso veniva da fuori.

- Massimo Generale. - La donna teneva in mano la spada di lui e lo fissava dritto negli occhi. La minaccia era piuttosto chiara. Se egli avesse fatto una mossa sbagliata, lei lo avrebbe ucciso… e lui non aveva dubbi che l'avrebbe fatto senza alcuna esitazione.

Egli accennò di aver capito, poi sollevò le mani più in alto che poté ad indicare i polsi legati, con una domanda negli occhi. Dopo un attimo di riflessione ella si chinò in avanti e tagliò la corda che teneva assicurate le mani di lui al corpo, ma le lasciò legate insieme. Grato per quella piccola gentilezza, Massimo si sollevò a sedere e si strofinò gli occhi assonnati con le nocche. Tranne che per il tranquillo crepitio delle braci, la capanna era silenziosa. Massimo guardò i bambini addormentati e poi di nuovo la loro madre. Egli indicò se stesso, poi il maschietto. Gli occhi di lei si strinsero guardinghi così egli ripeté l'azione, questa volta indicando prima il bambino… poi alzò un dito. La donna annuì di colpo e fece segno di aver capito che egli aveva un figlio. Ella accennò a sua figlia e inarcò le sopracciglia. Massimo scosse la testa con aria di rimpianto e la donna sorrise di nuovo, l'essere genitori avendo creato un legame nelle loro vite altrimenti immensamente differenti.

Massimo indicò i suoi piedi, poi la porta, facendo capire che aveva la necessità di uscire. Ella gli puntò la spada di fronte agli occhi per ricordargli chi comandava ed egli annuì. Sebbene pienamente consapevole del pericolo, ella tagliò le corde che gli legavano le caviglie con la spada dalla lama affilata come quella di un rasoio, poi fece un passo indietro. Egli si mise in ginocchio con sforzo, trasalendo perché la gamba ferita si era irrigidita moltissimo durante la notte. Alla fine riuscì a mettere un piede sotto di sé e ad alzarsi, pensando che per quanto stesse soffrendo, era fortunato ad avere due gambe.

La donna si chinò per recuperare la stuoia di pelliccia marrone che lo aveva scaldato mentre dormiva e gliela drappeggiò sulle spalle. Egli si tirò la pelle vicina al collo, più grato per questa povera pelliccia che per le eleganti pelli di lupo argentato che sovente indossava. La giovane madre avvolse una pelliccia simile intorno al proprio esile corpo e dopo un'ultima occhiata ai figli addormentati, spinse la porta e fece cenno a Massimo di uscire prima di lei.

All'esterno l'aria era appesantita dal fumo. Esso aveva ammantato di grigia fuliggine ogni superficie e oscurato la luce del sole. Massimo fissò il muro meridionale e lo sbuffo di fumo che ancora si levava ondeggiando da laggiù. Tutto era tranquillo. Nessun suono di battaglia raggiunse il suo udito. Che cosa era successo? Perché il muro era deserto? Chi aveva il controllo del territorio fuori della fortezza? Quei soldati stavano davvero cercando il loro generale, o erano stati obbligati a cercarlo con delle frecce puntate alla schiena? Massimo doveva uscire dalla fortezza il più velocemente e silenziosamente possibile per scoprirlo.

Dopo aver trovato sollievo ai suoi bisogni, Massimo attirò l'attenzione della giovane donna che stava fissando il fumo con pensieri probabilmente simili ai suoi. Egli indicò se stesso, poi il muro settentrionale. Gli occhi di lei seguirono il suo dito, quindi tornarono a sostenere il suo sguardo.

Massimo diede voce ai propri pensieri sapendo fin troppo bene che lei non poteva capirlo.
- Devo uscire di qui e tornare al mio esercito. Non so che cos'è successo e devo scoprirlo.

Ella lo fissò.

Lui alzò le mani legate con aria frustrata.
- Prometto che manderò dei medici per curare tuo figlio, e manderò anche cibo e vestiti… e cavalli per portarti ovunque tu voglia andare. - Egli indicò a gesti la base del muro, poi se stesso. - Per favore, mostrami dove sono i passaggi.

Ella si avvicinò alle sue mani e inserì la punta della spada sotto le corde, tagliandole con un unico rapido movimento. Poi girò la spada in senso inverso e la offrì a Massimo, dalla parte dell'elsa, sostenendo il suo sguardo. Egli annuì e accettò quel chiaro segno di fiducia.

Ella sospirò gravemente, poi gli fece cenno di seguirla. Attraverso cumuli di neve alta fino alle ginocchia lo condusse fino al muro settentrionale e si diresse senza esitazione verso una macchia vicino al muro occidentale. Lì si fermò, additò l'abbondante massa di neve fresca alta fino alla vita ammucchiata alla base, e indicò di scavare con le mani.

- Sì, capisco. Grazie.

Dopo un lungo sguardo ella si voltò per andarsene.

- Aspetta!

Ella si fermò e si girò, con una domanda negli occhi.

Massimo indicò se stesso.
- Massimo, - disse. Poi indicò lei e stese le mani con aria interrogativa.

- Helga, - disse lei, la voce dolce e musicale.

- Helga.

Ella annuì e di nuovo si voltò allontanandosi.

- Grazie, Helga.

Se ella udì le sue ultime parole, non ne diede segno e scomparve dietro una costruzione diroccata sulla via di ritorno dai suoi bambini.

Senza perdere altro tempo, Massimo strappò una tavola dalla porta di legno della stessa costruzione e cominciò a scavare con quella rozza pala, ignorando il fastidio al braccio e alla gamba. Lavorò con regolarità e cominciò a sudare sotto la corazza, ma le mani e i piedi vibravano per il freddo. Maledisse violentemente la Germania, maledisse la neve, maledisse la tavola che gli trafiggeva le mani di schegge, maledisse le rocce, sputando tutte le parolacce che conosceva… e come soldato ne conosceva parecchie.

Dopo alcune ore di scavare e imprecare, aveva sgombrato un'area lunga due metri e mezzo attorno ai piedi del muro. Gettando la tavola da parte si inginocchiò e si piegò per ispezionare il muro, facendo scorrere le mani sulla superficie. Appariva molto solido. Massimo si sedette sui talloni. Helga si era sbagliata… o lo aveva ingannato?

- Massimo.

Sorpreso, Massimo roteò su se stesso, afferrando la spada parzialmente sepolta sotto il banco di neve.

Helga sorrise e gli tese una ciotola di cibo fumante.

Egli la ignorò e implorò.
- Helga, dov'è l'apertura? - accennando al muro.

Ella indicò una roccia arrotondata alta fino al fianco di Massimo.

Massimo scosse la testa. - Non può essere. Quel masso è troppo…

Ella gli lanciò la sua occhiata da "Uomo stupido" e mormorò qualche parola mentre posava la ciotola sulla neve. Poi saltò giù dal cumulo atterrando al suo fianco e diede dei colpetti al masso prima di mostrare che Massimo doveva spingerlo. Sebbene molto scettico, egli poggiò la spalla sulla roccia e spinse il suo intero peso contro di esso, sforzandosi di trovare una presa coi piedi sul terreno gelato. Lo sentì smuoversi e cominciare a rotolare, poi con suo grande stupore cadere all'indietro. Era piatto, dall'altro lato… solo la metà di una roccia… e lasciava un'apertura larga a sufficienza perché un uomo vi strisciasse attraverso. Stupito, si accovacciò e guardò nella cavità, ma i raggi del sole non vi penetravano che per pochi metri. Non c'era alcuna luce diurna di benvenuto dall'altra parte e Massimo si rese conto che anche all'esterno del muro c'era la neve. Doveva scavare per uscire… ma stavolta avrebbe dovuto farlo stando disteso sulla pancia all'interno di una stretta galleria buia, circondato da tonnellate di roccia, e gli unici strumenti di scavo sarebbero stati la spada e le sue mani intorpidite.

Sedette sul terreno a fianco dell'apertura, la schiena contro il muro e la testa nelle mani. Aveva ancora frammenti di freccia rotta nel braccio e nella gamba, che pulsavano impietosamente, e i suoi piedi avevano perso ogni sensibilità. Una mano gentile gli toccò i capelli ed egli sollevò lo sguardo su Helga, lo scoraggiamento più totale impresso sul volto.
- Anche tu sei intrappolata qui, vero? - disse gentilmente. - Devi restare a causa della ferita di tuo figlio e ora non puoi più nemmeno uscire.

Massimo alzò gli occhi sul lato del muro che torreggiava sopra di lui. Lassù non c'era un passaggio che potesse vedere senza l'aiuto di qualcuno dalla sommità. Doveva passare sotto. Helga gli spinse in mano la scodella e disse una parola che probabilmente significava "mangia" prima di andarsene via in fretta.

Non appena egli ebbe finito di raschiare la carne dal fondo della ciotola, ella era di ritorno con un secchio di braci ardenti in una mano e un fascio di ramoscelli nell'altra. Li sistemò svelta ai piedi di Massimo e con perizia riuscì a trasformarli in un fuoco rosseggiante. Massimo allungò le gambe finché gli stivali quasi toccarono le fiamme poi piegò la vita e stese le braccia finché le dita pallide riuscirono a percepire il calore. Rimase fermo per un po', sentendosi alquanto insonnolito mentre il suo corpo si rilassava e scaldava.

Helga armeggiò con le sue pesanti gonne di lana e strappò lunghe strisce di pelle di pecora. Gli sollevò la mano destra con attenzione, memore della freccia ancora nel suo braccio, e vi avvolse attorno la pelle, con la lana nell'interno. Fece lo stesso con l'altra mano, poi gli tolse gli stivali e gli avvolse la pelle di pecora attorno ai piedi,  prima di aiutarlo a calzarli di nuovo.

Massimo annuì in segno di ringraziamento e sorrise.

Helga indicò in modo insistente la buia apertura nella pietra e Massimo rise.
- Che sorvegliante severa. - Ma il suo divertimento svanì in fretta pensando al compito che lo aspettava. Doveva gettare la neve dietro di sé mentre scavava e c'era il rischio effettivo di rimanere sepolto nell'oscura galleria con neve sia davanti che alle spalle. Rabbrividì. - Helga, - disse. - Tu dovrai tirare via la neve che getterò dietro di me. Capito? Devi estrarla dal passaggio e accumularla fuori.

Ella scosse la testa, perplessa.

- D’accordo, ti mostro io. - Massimo strisciò nel tunnel, trasalendo quando le pietre aguzze gli tagliarono le ginocchia. Non era che ad un terzo del percorso quando la luce scomparve completamente. La galleria era molto disuguale in larghezza e in altezza ed egli picchiò più di una volta la testa contro la dura roccia mentre seguiva tentoni il passaggio. A volte era obbligato a strisciare sulla pancia e si sforzava di reprimere il panico che minacciava di paralizzarlo. Si rese conto di aver raggiunto l'estremità solo quando il suo viso affondò nella neve bagnata. Sputacchiando, scivolò indietro di qualche metro e cercò di orientarsi. Brancolò alla ricerca della spada legata alla vita e la conficcò nella neve usando entrambe le mani. Non riusciva a capire quanta neve stesse realmente rimuovendo e si fermò solo quando la sentì accumulata attorno alle ginocchia. La pigiò dietro di sé poi la spinse con i piedi e cominciò a strisciare a ritroso, calciando la neve mentre si spostava. Quando vide un barlume di luce dietro di sé, chiamò Helga.

- Massimo? - La luce scomparve di nuovo mentre lei si accovacciava all'entrata della galleria.

La chiamò ancora una volta, poi calciò la neve più forte che poté, sperando che un po' di essa la raggiungesse. Udì che la raccoglieva e la fioca luce ritornò quando lei lasciò il tunnel. Egli spinse indietro il resto e lei ripeté l'operazione. Ella aveva capito, ma a quel ritmo potevano impiegare ore, persino giorni, secondo l'altezza della neve accumulatasi contro il muro esterno.

Massimo instradò la sua mente in modalità da battaglia, bloccando dolore e paura, e facendo appello a forza e resistenza. Strisciò, scavò, calciò, spinse, strisciò, scavò, calciò e spinse, non osando fermarsi per paura che il suo corpo non avrebbe potuto ricominciare. Ripeté l'azione ancora e ancora e ancora. Non aveva idea da quanto stesse lavorando. Potevano essere minuti, ore, giorni. La sua mente aveva perso la cognizione del tempo, in quell'angusta galleria buia come una tomba.

Ci vollero alcuni minuti prima che la sua mente registrasse che stava finalmente scavando all'aria aperta, e fu solo quando il gelido vento pulito gli sfiorò il viso accaldato che si rese conto che ce l'aveva fatta… oppure no? Dov'era la luce? Dov'era il sole? Gettando la spada da una parte scavò con le mani finché l'apertura fu abbastanza larga da passarci con il corpo. Si accasciò sul ventre nella neve, poi rotolò sulla schiena e fissò il cielo della notte stellata attraverso i rami spogli dei grandi alberi, lacrime di dolore e sollievo che gli velavano gli occhi.