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«Questa notte ho fatto un sogno»

Questa notte ho fatto un sogno: in esso, tutte le mie paure più recondite sono bruscamente tornate a galla, emergendo prepotentemente dall’oceano della mia fantasia ed aggredendomi con ferocia.

Questa notte ho fatto un sogno: in esso, mi rivedo mentre percorro con poca convinzione le stradine buie e deserte del paesino in cui vivo da vent’anni a questa parte, fino ad arrivare – senza esserci per nulla attirato – alla piccola stazione che collega il mio paese con il centro abitato. A quest’ora sarà deserta anch’essa, mi dico senza un’apparente ragione: forse cercavo soltanto di tranquillizzarmi, di convincermi che non c’era nulla di cui aver paura. Ma il sogno è riuscito ad avere la meglio.

Sto diventando pazzo?

Sembra anche a me. Forse però lo sono già da un po’.

Ma non importa. Ciò che davvero conta è che stanotte ho fatto un sogno. E nel sogno sono giunto a destinazione: mi sono fermato di fronte all’ingresso della stazioncina e da quella posizione ho potuto leggere senza difficoltà il nome del mio paese marchiato sulla targhetta azzurra che segnalava la località cui la stazione faceva riferimento.
Ed ecco che riprendo a camminare; nel sogno sembra di essere immersi in una vasca piena d’acqua: vedi i tuoi movimenti, li avverti come tuoi, ma sai benissimo che non sono i tuoi movimenti naturali.

Camminando a passo lento (era proprio come se non dovessi perdermi il minimo particolare di quel luogo da cui sin da piccolo di quel luogo da cui sin da piccolo non ero mai stato attratto), giungo sul marciapiede del binario numero uno; un solo lampione non riesce ad illuminare tutta quanta la zona, ma la sua fioca luce bluastra è appena appena sufficiente acché riesca a vedere dove metto i piedi.

Tutt’a un tratto, qualcosa mi fa sobbalzare ed ha lo stesso effetto maligno di un pungo assestato in pieno stomaco. È una voce. Una voce maschile. Una voce maschile ma atona, priva di una qualsiasi flessione dialettale.

«Ehi, ragazzo», mi fa.

La voce di un robot.

Mi volto di scatto (sono le mie gambe a farlo, senza ascoltare le proteste del mio cervello) e, mentre il mio cuore rischiava letteralmente di esplodere, i miei occhi lo vedono: è seduto a terra a gambe conserte e mi sorride in modo genuino; è davvero felice, mi accorgo. Forse troppo. Proprio non riesco a spiegarmene il motivo.

Non può avere più di venticinque anni, mi comunica una voce all’interno della mia testa ed anche stavolta non ne vedo la ragione: dopotutto, quella era l’ultima cosa che avrei voluto sapere in quel momento.

A quel ragazzo (che qualche tempo prima sarebbe dovuto essere davvero un bel ragazzo, coi suoi capelli biondi e gli occhi verdi) sembrava che avessero staccato la spina: era spento, i suoi occhi morti e quel sorriso assolutamente illusorio.

Quel ragazzo era soltanto un involucro all’interno del quale gli organi stavano imputridendo.

E ancora non avevo visto il meglio.

«Vuoi provare?», mi chiede il ragazzo, o meglio, quello che qualche tempo prima doveva essere stato un ragazzo. Sembrava fosse morto e poi resuscitato come spesso accade in qualche b-movie da due soldi.
Ancora una volta, a prendere l’iniziativa era stato il mio corpo, senza ascoltare il cervello. «Che cosa?», gli domando accorgendomi troppo tardi di non averne la minima intenzione di scoprirlo.

Troppo tardi.

Il ragazzo raccoglie qualcosa da terra e a quella vista rimango di sasso.

È un serpente. Il ragazzo regge nella mano destra un serpente di media lunghezza. Poi, senza pensarci su due volte, se lo porta all’altezza della giuntura del braccio sinistro; quindi permette all’animale di addentargli il braccio ed un altro sorriso gli si allarga a macchia d’olio sulla faccia. Questa volta era stato un sorriso di sollievo, come se il ragazzo non aspettasse altro che il morso velenoso del serpente.

Risvegliandomi di soprassalto nel cuore della notte, consapevole di aver semplicemente fatto un sogno (orrendo, sì, ma pur sempre un sogno), avevo capito tutto.
Che cosa poteva mai stare a significare quel ragazzo che permetteva al serpente di addentargli un braccio liberando al suo interno veleno e, al contempo, regalando felicità al ragazzo stesso?

Ci ho pensato un po’ e sono giunto alla soluzione. Forse allora è proprio vero che i sogni sono le gabbie delle nostre coscienze, all’interno della quale non si può in nessun modo mentire a sé stessi. Ed è altrettanto probabile che stanotte io sia stato imprigionato in una di quelle gabbie.

Questa notte ho fatto un sogno: il più importante della mia vita. Forse è stato proprio il Signore Iddio a volere che quel ragazzo quasi cadavere (e che mi somigliava terribilmente, ora che ci penso) mi facesse visita questa notte.

Senza pormi altre domande e senza che nessun altro pensiero mi affolli la mente, mi reco alla mia scrivania.

Sorridendo, raccolgo le siringhe, il cucchiaino e la droga che avevo preparato con cura e getto tutto nella pattumiera.

C’è soltanto una certezza in tutta la confusione che alberga nella mia mente: questa notte ho fatto un sogno.

E vorrei continuare a farne ancora.

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