LA HAINE
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COPERTINA CD: Goodenough GOODENOUGH
s/t
Autoproduzione - 2002



Ad ascoltare questo cd di meno di 30 minuti proprio risulta difficile immaginare che dietro alla sigla Goodenough ci sia Sacha Moccheggiani, uno dei componenti dei Maraiah, punk-rock band incontrata qualche tempo fa su questo sito.
Anche se, a ben vedere, l'ecletticità che qua e là traspariva nel lavoro dei Maraiah, è proprio l'elemento fondamentale di Goodenough. Attenzione però: l'ecletticità in sé, non certo la formula complessiva, perché i due lavori, per coordinate musicali, sono distanti anni luce.
Goodenough in superficie appare, infatti, come un figlio del lo-fi americano: raccolta di canzoni autoprodotte e casalinghe, all'interno della quale, però, le coordinate solite e comuni a questo genere di musica siano state completamente mischiate, stravolte e contaminate con idee di pop d'avanguardia e con qualche ragionamento da musica colta (ombre di free-jazz, fantasmi dodecafonici o "semplice" operazione chirurgica sulla musica da cameretta?).
Questa definizione non vi sembra pienamente comprensibile? Confusi? Beh, allora ho centrato il bersaglio in pieno, perché tali sono esattamente le sensazioni che l'ascolto di questo cd potrebbero trasmettere a molti.
Per cercare di focalizzare il quadro potremmo prendere uno dei brani a caso: ad esempio, "They quit this sinking ship" comincia con batteria e chitarrina elettrica, sulle quali, nel giro di qualche secondo, cominciano a sommarsi rumori elettronici e non, qualche nota sparsa di piano e clarinetto, la voce sommessa. Ma arrivati neppure a metà il brano si fa tutto spezzettature ritmiche, inserti di vocoder, gorgie strumentali, caos da cameretta ben orchestrato.
La struttura dei brani, in questo senso, è comune alla maggior parte degli episodi: ovvero, i primi secondi annunciano un brano degli Yuppie Flu, o dei primi Sebadoh, ma poi ogni possibile attesa viene volutamente smentita, tutto cambia, i suoni più disparati si sovrappongono, vengono dissezionati, sbattuti senza clamore gli uni contro gli altri, i ritmi di volta in volta ignorati o beffati.
E' come se qualcuno avesse chiuso Mark Linkous in uno stanzino con una chitarra acustica, un pc e le pagine di un manuale di musica contemporanea come carta da parati.
Anche se là dove sembra trasparire maggiormente una vena compositiva canonica (come in "Being Conscious" o nella conclusiva "Who is afraid of Guy Debord?", il cui titolo la dice lunga sul contenuto di questo cd) quasi si rimane con l'amaro in bocca per l'occasione persa (ma è giusto una questione di gusti), non si può che riconoscere per lo meno il coraggio e la voglia di sperimentare di un prodotto che pensa in grande ad una materia di base che solitamente viene considerata piccola, con risultati che - seguendo un tormentone da recensore provetto - si potrebbe definire post-tutto, o, più sagacemente, forse solo post-lo-fi.
Richiedere costanza ed unità compositiva ad un lavoro simile sarebbe impossibile se non addirittura contraddittorio, ed anche se un senso di involuzione, di note ripiegatesi su sé stesse, è dietro l'angolo, il risultato andrebbe premiato almeno con un ascolto, se non con l'attenzione che tali contenuti richiederebbero propriamente.


21/09/02, Marco


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