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  1. Il ritorno a Firenze, il primo procedimento giudiziario e il "Saggiatore" (1610-1623)

 

Le ragioni che spinsero Galileo a lasciare Padova furono molteplici, tra queste influì sicuramente la possibilità di dedicarsi all’attività di ricerca e di sperimentazione con maggiore costanza: "desiderando infinitamente più il tempo libero che l’oro" (Lettera a Vincenzio Vespucci, febbraio 1609 in op.cit., p. 84; cfr. Lettera a Belisario Vinta, 7 maggio 1610, ivi, p. 84). Ponendosi sotto un "principe assoluto" lo scienziato avrebbe guadagnato quel tanto aspirato "ozio" che lo liberava dalla necessità tenere regolarmente delle lezioni all’Università e di tenerne in privato per aumentare le entrate. Galileo chiederà inoltre al Granduca, oltre all’esonero dalle lezioni, l’aggiunta del titolo di filosofo di corte a quello di matematico "professando io di avere studiato più anni in filosofia, che mesi in matematica pura" (Lettera a B. Vinta cit., p. 88), ricordo che "filosofo" qui sta per indagatore della costituzione del mondo.

Cosimo II da parte sua facendo rientrare Galileo aveva la possibilità di onorarsi dei servizi dello scienziato ormai più famoso, insieme a Keplero, d’Europa. Nella citata lettera a Belisario Vinta Galileo offriva ad esempio al suo signore "magna longeque admirabilia", cioè "secreti particolari" utili (soprattutto in campo militare) o "curiosi" (questi ultimi nel ‘600 facevano molta presa sui sovrani i quali erano disposti a sborsare fior di denaro per averli, basti richiamare l’interesse di Cosimo II per le calamite particolarmente potenti). Galileo annunciava inoltre che stava lavorando a tre opere: De sistemate seu constitutione universi (il futuro Dialogo?), De motu locali e "delle meccaniche" (ivi, p.87; cfr. Lettera a Keplero, 19 agosto 1610, ivi , p. 93), che avrebbe dedicato al suo sovrano. Nella Ducale di nomina del 10 luglio 1610 Cosimo II concedeva puntualmente a Galileo quanto richiesto.

Il distacco da Padova non fu facile, in diciotto anni egli aveva servito con onestà intellettuale ammirevole la Repubblica di Venezia e si era legato di amicizia profonda a molte persone, si pensi tra tutti a Paolo Sarpi (cfr. Lettera a Paolo Sarpi, 12 febbraio 1611, ivi, p. 109-113) o a Francesco Sagredo che in una famosa lettera datata 13 agosto 1613 si doleva della scelta di Galileo di lasciare la città in cui la libertà era "unica al mondo" per la corte di Firenze che sicuramente non poteva offrirgli la medesima libertà e autonomia ("La libertà e la monarchia di sé dove potrà trovarla come in Venezia?" - ivi, p. 99). La "profezia" di Sagredo era ancora più drammaticamente realistica: mettersi nelle mani di un Principe, sia pure virtuoso, significava esporsi agli attacchi di persone "cattive" e "invidiose" che avrebbero potuto nuocergli.

Le settimane che vanno dalla pubblicazione del Sidereus Nuncius al ritorno, in settembre, a Firenze, vedono lo scienziato impegnato in polemiche contro alcuni suoi detrattori, "filosofi in libris" che antepongono allo studio della natura il confronto tra testi. Ad essi Galileo oppone un solo decisivo argomento: l’incontrovertibilità di ciò che attesta l’esperienza. La costruzione di cannocchiali via via più potenti gli avevano permesso di migliorare le osservazioni dei fenomeni astronomici da lui studiati e di effettuare altre scoperte, tra queste la più importante fu sicuramente quella delle lunazioni di Venere che rappresentava "un gagliardo argomento per la constitutione Pythagorea e Copernicana" (Lettera a Giuliano de’ Medici, 11 dicembre 1610, ivi, p. 105). Nella lettera appena citata a Giuliano de’ Medici, ambasciatore fiorentino alla corte imperiale e tramite di Galileo con Keplero, Galileo annunciava la sua importante scoperta con una scrittura cifrata: Haec immatura a me iam frusta leguntur o y"; l’anagramma veniva sciolto dallo stesso scienziato in una nuova del 1 gennaio 1612: "Cynthiae figuras aemulatur mater amorum", e cioè "Venere imita le figure della luna". Questa nuova prova analogica della validità del sistema copernicano si aggiungeva a quelle già scoperte:

"Venere necessariamente si volge intorno al sole, come anche Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta dai Pitagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in Mercurio" (ivi, p. 109)

Ritornato a Firenze Galileo, ormai libero come ho già richiamato da impegni di docenza sia pubblica che privata, si concentrò inizialmente su due problemi: il galleggiamento e le macchie solari. Nel 1612 scrisse il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono dedicato al Granduca Cosimo II difendendo, contro Aristotele, la posizione di Archimede. L’anno successivo pubblicò tre lettere in un volume dal titolo Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari e loro accidenti in risposta ad uno scritto del gesuita tedesco Cristoforo Scheiner. Galileo accusava padre Scheiner, o per meglio dire Apelle, lo pseudonimo sotto il quale si era celato, di avergli sottratto la scoperta delle macchie solari, in realtà lo studioso tedesco era arrivato alla scoperta autonomamente. Fatto sta che la polemica si trascinò per molti anni, tra l’altro Scheiner diventerà il maggiore esperto di astronomia solare e nel 1630 pubblicò la sua opera fondamentale Rosa Ursina. Le tesi di Galileo sulle macchie solari erano per altro più prossime alla verità scientifica in quanto le riteneva costituite di materia fluida (come delle "nugole") e situate sulla superficie del sole, esse inoltre dimostravano il moto del sole attorno al proprio asse (si veda, tra tutte, la Lettera a Maffeo Barberini, 2 giugno 1612, ivi, p. 134-136). Scheiner al contrario riteneva inizialmente, ben presto difatti si ricrederà, le macchie solari degli astri in rotazione attorno al sole, tale ipotesi permetteva di salvaguardare l’assunto tradizionale della incorruttibilità dei cieli.

Nel periodo 1611-1615 l’attività scientifica di Galileo fu comunque modesta, altri interesse, di carattere socio-culturale, lo attraevano. Lo scienziato toscano infatti si adoperò per diffondere il copernicanesimo e per far sviluppare lo spirito scientifico moderno. Questo "ambizioso programma" (la definizione è di Eugenio Garin e alla sua monografia su Galileo rimando per un approfondimento sulla questione: E.Garin, Galileo Galilei, Einaudi, Torino, 1984, XI ed., p. 71-93) fu portato avanti da Galileo in alcune lettere ad amici [Lettera a Benedetto Castelli (21 dicembre 1613), Lettere a Monsignor Pietro Dini (16 febbraio e 23 marzo 1615), Lettera a Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana (1615)]: si trattava di mettere d’accordo la Chiesa e il copernicanesimo. Galileo, come già Giordano Bruno, considerava il sistema eliocentrico non come una semplice ipotesi matematica (questa posizione detta convenzionalistica trovò un certo seguito tra gli uomini di Chiesa e ad essa si richiamava lo stesso Card. Bellarmino che aveva avuto un ruolo importante nel processo a Giordano Bruno e lo avrà anche nel primo procedimento contro Galileo) ma come una verità fisica. L’accordo richiamato si rendeva necessario considerata l’enorme influenza esercitata dalla Chiesa in campo culturale, il suo apparato organizzativo avrebbe rappresentato un potentissimo veicolo di diffusione delle idee copernicane e della nuova scienza.

L’argomentazione sviluppata da Galileo nel tentativo di sciogliere il problema del rapporto fede-scienza poggiava su aspetti metodologici e terminologici, in particolare sulla natura del linguaggio. La verità è una ma i linguaggi per esprimerla sono due, i testi sacri contraddicono la scienza perché in essi è adottato il linguaggio ordinario. In sostanza l’autore sacro, poiché il suo interesse è di carattere teologico-morale, per non distogliere l’uditorio composto da persone semplici asseconda la loro mentalità riguardo ad eventuali considerazioni su aspetti scientifici, è il caso del noto episodio biblico di Giosuè che ordinò al sole di fermarsi, se in tal caso avesse dato priorità alla verità scientifica ordinando alla terra di fermarsi il lettore comune ne sarebbe stato sicuramente sconvolto laddove l’esperienza sensibile gli attesta l’immobilità della terra. E’ un problema dunque di ambiti e di priorità: la Bibbia è un testo teologico, lo studio della natura poggia su basi scientifiche.

Nel portare avanti il suo progetto Galileo fu confortato dall’accoglienza entusiastica avuta durante un viaggio a Roma nel 1611 fatto con lo scopo di "far toccare con mano ad ognuno tutte le novità delle mie osservazioni" di portata tale da rinnovare e trarre fuori dalle tenebre "la scienza dei moti celesti" (Lettera a Belisario Vinta, 15 gennaio 1611, ivi, p. 115) e, parallelamente "per serrare una volta la bocca ai maligni" (Lettera a Belisario Vinta, 19 marzo 1611, ivi, p. 117). E’ importante sottolineare che il viaggio e il soggiorno vennero appoggiati, per evidenti ragioni di prestigio, dal Granduca di Toscana il quale si fece carico di tutte le spese necessarie (cfr. ad es. la Lettera di Belisario Vinta a Galileo, 20 gennaio 1611, ivi, p. 116). Lo scienziato fu ricevuto dallo stesso pontefice Paolo V, il principe Federico Cesi lo iscrisse all’Accademia dei Lincei, da lui fondata nel 1603, i padri gesuiti accettarono la correttezza delle osservazioni astronomiche galileiane (cfr. ad es. la Lettera di Roberto Bellarmino ai Matematici del Collegio Romano, 19 aprile 1611, ivi, p. 119, la Lettera dei Matematici del Collegio Romano a Roberto Bellarmino, 24 aprile 1611, ivi, p. 119-120 e la Lettera a Filippo Salviati, 22 aprile 1611, ivi, p. 120-121). Galileo si convinse di aver ottenuto l’ "applauso universale di Roma" (Lettera a Virginio Orsini, 8 aprile 1611, ivi, p. 118) ben presto però gli eventi prenderanno tutt’altra piega, fatto è che all’interno della Chiesa non mancavano posizioni intransigenti che si manifesteranno nel procedimento giudiziario del 1616.

Già nel dicembre del 1611 Lodovico Cardi da Cigoli aveva messo in guardia lo scienziato poiché "una certa schiera di malotichi e invidiosi della virtù e dei meriti di V.S. si ragunano e fanno testa in caso lo Archivescovo, e come arrabbiati vanno cercando se vi possono apuntare in cosa alcuna sopra il moto della terra od altro, e che uno di quelli pregò un predicatore che lo dovesse dire in pergamo che V.S. dicesse cose stravaganti" (Lettera di Lodovico Cardi da Cigoli a Galileo, 16 dicembre 1611, ivi, p. 153). Le preoccupazioni di Cardi divennero realtà quando, il 1 novembre 1612, il frate domenicano Nicolò Lorini attaccò Galileo durante una predica nel convento di S.Matteo in Firenze, due anni dopo un altro frate domenicano, Tommaso Caccini, portò un secondo attacco nella chiesa di S.Maria Novella questa volta sulla base della citata lettera di Galileo a Benedetto Castelli.

Il 7 febbraio del 1615 Nicolò Lorini denunciava Galileo al Santo Uffizio che promosse subito un’indagine contro Galileo avente come oggetto la citata lettera, mentre Tommaso Caccini, in una deposizione spontanea del 20 marzo, riferiva ai cardinali del Santo Uffizio di tutta una serie di proposizioni in materia teologica ascoltate da galileiani che, se dimostrate vere, avrebbero portato ad accuse gravissime nei confronti dello scienziato (in realtà queste ultime saranno smentite nel corso del procedimento). Nel dicembre del 1615 Galileo si recò spontaneamente a Roma per chiarire l’infondatezza delle accuse mossigli e nel contempo per rintuzzare gli attacchi dei suoi nemici, questo nonostante le rassicurazioni di alcuni amici romani. Giovanni Ciampoli, ad esempio, pur richiamandolo ad una maggiore prudenza, gli scriverà che "questi torrenti rovinosi e muglianti che le sono stati figurati, non si sentono qua; e pure io pratico in qualche luogo, che ancora io, che non son sordo, ne avrei a sentir lo strepito" (28 febbraio 1615, ivi, p. 159). Piero Dini invece, riportando un discussione avuta con il Card. Bellarmino, lo rassicurerà che Copernico non sarebbe stato proibito, al massimo sarebbe stato corretto e, in un’altra lettera, gli riporterà le parole del Card. Barberini, futuro Urbano VIII, che lo esortava a "parlar cauto e come professore di matematica" (7 e 14 marzo 1615, ivi, p. 160-162) Era quest’ultimo il vero punto nodale della questione, il De Revolutionibus non era stato posto sotto accusa dalla Chiesa per ottant’anni poiché se ne ammetteva la possibilità di assumerne ipoteticamente le sue tesi, altra cosa era invece accoglierlo come una descrizione fisica dell’universo il che andava a contraddire quanto esposto nella S.S. Scritture.

Di ben altro tenore sarà invece la lettera che l’ambasciatore fiorentino Piero Guicciardini invierà a Curzio Picchena, Segretario del Granduca, l’indomani dell’arrivo a Roma di Galileo riferendo che "alcuni frati di San Domenico, che han gran parte nel Santo Offizio, e altri, gli hanno male animo addosso" (5 dicembre 1615, ivi, p. 168), va detto per inciso che l’ambasciatore continuerà per tutto il soggiorno di Galileo a mettere in guardia il Segretario granducale dalle possibili ricadute negative del caso Galileo sul principe che egli serviva.

I padri del Santo Uffizio avevano incaricato nel frattempo i teologi censori di revisionare il testo sulle macchie solari, essi emisero il 24 febbraio un giudizio di condanna di due proposizioni di cui non c’è traccia però, almeno nei termini riportati, nel testo galileiano, anzi, almeno in un punto ("omnino immobilis"), risultano in aperta contraddizione con esso:

"Prima: Sol est centrum mundi, et omnino immobilis motu locali.

Censura: Omnes dixerunt, dictam propositionem esse stultam et absurdam in philosophia, et formaliter haereticam, quatenus contradicit expresse sententiis Sacrae Scripturae in multis locis secundum proprietatem verborum et secundum expositionem et sensum Sanctorum Patrum et theologorum doctorum.

2.^: T erra non est centrum mundi nec immobilis, sed secundum se totam movetur, etiam motu diurno.

Censura: Omnes dixerunt, hanc propositionem recipere eandem censuram in philosophia; et spectando veritatem thelologicam, ad minus esse In Fide erroneam".

Il 5 marzo 1616 la Congregazione dell’Indice pubblicava un decreto che sospendeva "donec corrigatur" il De Revolutionibus, condannava alcuni scritti di autori copernicani, mentre non faceva alcun riferimento a Galileo e alle sue opere, probabilmente sulla vicenda pesò il fatto che lo scienziato fosse protetto dal Granduca di Toscana. Galileo fu convocato presso il Santo Uffizio per ordine dello stesso Pontefice e gli fu notificato da parte dello stesso Card. Bellarmino il contenuto del Decreto, il verbale dell’ammonizione sarà al centro del processo del 1632-33 ed è tuttora oggetto di discussione da parte degli studiosi (esso va nel contenuto oltre gli ordini del pontefice stesso e quanto alla forma è privo di qualsiasi firma). Intanto, il 26 maggio, Galileo si faceva rilasciare dal card. Bellarmino un attestato per ribattere a quanti stavano diffondendo voci che lo scienziato avesse addirittura abiurato le proprie posizioni.

In giugno Galileo, che fino all’ultimo si era convinto di aver saputo difendere la propria persona ma che certo era deluso dagli avvenimenti, fece ritorno a Firenze e si ritirò nella villa di Bellosguardo applicandosi quasi totalmente alle osservazioni astronomiche e in particolare ai periodi delle lunazioni di Giove. Lo scopo era, ancora una volta, ricavare dalla ricerca una utilità pratica, il calcolo della longitudine.

Sempre nel 1616 Galileo pubblicava il Discorso sul flusso e riflusso del mare contenente la sua teoria delle maree che per lui rappresentava la prova fisica fondamentale della validità del sistema copernicano. Tale prova costituirà l’impianto di fondo della IV giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi.

Nel 1619 si accese una polemica sulla natura delle comete che coinvolgere anche Galileo. Nel Discorso sulle comete tenuto all’Accademia Fiorentina il discepolo di Galileo Mario Guiducci attaccava la posizione dei gesuiti (vicina a quella di Tycho Bahe) espressa da padre Orazio Grassi nella sua Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII. Galileo, che di sicuro aveva quanto meno ispirato il discorso, riteneva, erroneamente, le comete fenomeni non reali, mentre Brahe le riteneva fenomeni celesti, la difficoltà di Galileo consisteva nell’accettare la traiettoria non circolare delle comete. Padre Grassi rispose direttamente, sotto falso nome, a Galileo nella Libra Astronomica ac Philosophica, nel 1622, lo scienziato, sollecitato dagli accademici lincei, replicò con Il Saggiatore cui il padre gesuita contrappose nel 1626 la Ratio ponderum librae et simbellae.

Il Saggiatore, nel quale con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra Astronomica e Filosofica di Lotario Sarsi Sigersano non ha il suo nucleo centrale nella teoria delle comete, questa è semmai il punto di partenza per sviluppare importanti temi di diversa natura.

Da un punto di vista filosofico l’opera, vero capolavoro della letteratura polemica in ambito scientifico, è importante per due motivi:

  1. la distinzione tra qualità sostanziali (oggettive) e qualità accidentali (soggettive) della materia;
  2. la concezione della natura come un libro scritto in caratteri matematici che prima ancora di alludere alla matematizzazione della fisica rappresenta una polemica nei riguardi del principio di autorità degli aristotelici.

Frattanto, in agosto, era salito al soglio pontificio il card. Maffeo Barberini (Urbano VIII) fatto questo che riaccenderà in Galileo, da tempo suo amico e corrispondente, la speranza che in tale "mirabil congiuntura" le cose potessero cambiare rispetto al 1616.

 

  1. - Il Dialogo, la condanna e gli ultimi anni

1. – Il periodo giovanile

2. – Il periodo padovano