LUDWIG WITTGENSTEIN
da Cioffi.., Corso di filosofia.., cit., p.759 sgg.

PREMESSA

Il tema fondamentale del Tractatus è la connessione fra linguaggio e realtà. Wittgenstein si propone di definire le "condizioni di sensatezza" del linguaggio, in modo da determinare in via definitiva ciò che intorno al mondo legittimamente si può dire e ciò che, al contrario, non si può dire. Scopo dell'opera è quello di "tracciare al pensiero un limite", nella convinzione - come l'autore si esprime nella Prefazione - "che tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere". In guesta prospettiva, la filosofia assume la funzione di critica del linguaggio, ossia di chiarificazione circa le regole, i limiti e le proibizioni che determinano la correttezza del pensare e del dire in generale.
Molti interpreti hanno opportunamente sottolineato la presenza, nel piano dell'opera, di una prospettiva di tipo kantiano. A differenza della Critica della ragion pura, tuttavia, l'opera di Wittgenstein prescinde dal problema di come il mondo giunga a essere raffigurato dal pensiero e dal linguaggio che ne è l'espressione. Non troviamo dunque, nel Tractatus, né un'organica teoria della conoscenza né uno specifico interesse epistemologico.

IL TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS
Il Tractatus si presenta apparentemente come un "sistema chiuso", avaro di citazioni e di riferimenti espliciti, libero da radici culturali. Come tale sembra presentarlo l'autore stesso: "M'è indifferente - scrive Wittgenstein - se già altri, prima di me, abbia pensato ciò che io ho pensato". Poche opere, al contrario, sono, al pari del Tractatus, il risultato di un osmosi così intensa di diverse ed eterogenee tradizioni teoriche e culturali. L'ambito entro il quale si muovono gli argomenti dell'opera è innanzitutto quello dei problemi sollevati dal logicismo di Frege e di Russell, cui Wittgenstein stesso fa, eccezionalmente, un esplicito riferimento nella prefazione. Di Frege Wittgenstein assume la terminologia logica (senso-significato, funzione-argomento) e condivide il rigetto delle interpretazioni empiristiche e psicologistiche della matematica e della logica imperanti ancora nella seconda metà dell'Ottocento. Da Russell apprende l'esigenza di una rigorosa delimitazione della logica, volta a impedire che il suo linguaggio cada in paradossi. Ancora da Russell e da Moore - con il quale entra in contatto nel 1911, a Cambridge - Wittgenstein assume la rottura con l'idealismo, che aveva esercitato un'ampia egemonia sulla filosofia inglese degli ultimi decenni del XIX secolo.
Attraverso queste influenze, la riflessione del filosofo austriaco si collega con il dibattito sulla natura della logica e sui fondamenti della matematica, a cui egli si accosta tuttavia attraverso una specifica attenzione agli schemi linguistici impiegati in campo logico.

La formazione non ortodossa di Wittgenstein
Wittgenstein non ha una formazione filosofica vera e propria, né legge in modo sistematico i classici della disciplina, come dimostra la stessa lingua del Tractatus, che è costruita in parte sul linguaggio naturale, in parte su quello della logica matematica, e solo in misura assai, minima sul dizionario più strettamente filosofico.
Pur esprimendo ammirazione e interesse per le esperienze filosofiche della tradizione - legge Platone e Schopenhauer; confessa invece serie difficoltà di comprensione nei confronti di Spinoza, Hume e Kant - egli riceve impressioni più profonde da autori al margine tra filosofia, poesia e religione come sant'Agostino, Kierkegaard, Tolstoj, Otto Weininger.
La sua formazione è piuttosto tecnico-scientifica, influenzata dalle teorie fisico-matematiche di Heinrich Hertz e Ludwig Boltzmann, e si nutre, prima della guerra mondiale, delle suggestioni musicali e artistiche che gli proven-gono dagli ambienti intellettuali dell'Austria tardo-asburgica. Decisive sono, da questo punto di vista, le influenze che il filosofo subisce negli anni della sua formazione giovanile, prima ancora di entrare in contatto - con gli ambienti anglosassoni - da parte del "modernismo" viennese di inizio secolo, espresso da uomini come Freud, Schònberg, Kokoschka. Largamente influenzata da elementi kantiani, la cultura viennese di questi anni pone al centro della propria attività il tema della critica del linguaggio: per un intellettuale austriaco fin de siècle, consapevole della crisi della cultura mitteleuropea, è obbligatorio affrontare il problema dei limiti dei linguaggi espressivi e dei mezzi di comunicazione, nella poesia come nella pittura, nella scienza come nella musica.
Il debito di Wittgenstein nei confronti della "Grande Vienna" ha segnatamente due origini: la battaglia contro la corruzione estetica e morale condotta dal critico letterario e giornalista Karl Kraus; la lotta contro l'arte ridotta a puro orpello ornamentale, portata avanti dall'architetto Adolf Loos. Allorché entra in contatto con Frege e Russell, Wittgenstein vede nella logica lo strumento per una più adeguata riflessione filosofica su questi temi e per la costruzione di una teoria rigorosa del linguaggio.

IL MONDO E IL LINGUAGGIO

Il contenuto del Tractatus è organizzato intorno alle sette proposizioni fondamentali di cui l'opera si compone. Esse sono:
1. IL MONDO è TUTTO
2. CIÒ CHE ACCADE, IL FATTO, è IL SUSSISTERE DI STATI DI COSE.
3. L'IMMAGINE LOGICA DEI FATTI è IL PENSIERO.
4. IL PENSIERO è LA PROPOSIZIONE MUNITA DI SENSO.
5. LA PROPOSIZIONE È UNA FUNZIONE DI VERITÀ DELLE PROPOSIZIONI ELEMENTARI.
6. LA FORMA GENERALE DELLA FUNZIONE DI VERITÀ è.. [v. p.762]
7. SU CIÒ, DI CUI NON SI PUÒ PARLARE, SI DEVE TACERE.
L'opera è priva di partizioni interne. La materia può essere tuttavia divisa, con qualche approssimazione, in tre sezioni fondamentali:
1) una prima sezione di argomento ontologico¸ che comprende le osservazioni relative alle proposizioni 1 e 2 (vedi TESTI, Unità 28 - testo 1);
2) una seconda sezione, la più ampia, di argomento logico (proposizioni 3-6), 1n cui l'autore fa corrispondere alla concezione della realtà una teoria del lin-guaggio, articolata in una teoria dell'immagine e in una teoria della proposi-zione (vedi TESTI, Unità 28 - testi 2 e 3);
una conclusione di argomento filosofico, e specificamente etico - come suggerisce Wittgenstein stesso - che va all'incirca dalla proposizione 6.4 fi-no alla proposizione finale (vedi TESTI, Unità 28 - testo 4).
Tra le numerose chiavi di lettura possibili, la più semplice è quella che percorre lo scheletro dell'opera lungo il filo delle sette proposizioni principali. Occorre tuttavia tenere presente che la trattazione ontologica con cui l'opera si apre fu probabilmente scritta dopo la parte di argomento più strettamente logico. Mentre l'ordine dell'esposizione va dunque dall'indagine ontologica a quella logica, l'ordine genetico della ricerca wittgensteiniana prende avvio dalle problematiche logico-linguistiche e giunge solo in un secondo tempo al-le loro implicazioni ontologiche.

Il linguaggio come raffigurazione dei fatti del mondo
Poiché il mondo e la vita mostrano o nascondono il loro senso essenzialmen-te nel linguaggio, per comprendere il mondo, per scoprirne la "logica", è in primo luogo necessario comprendere il senso del linguaggio. li punto d'avvio dell'indagine wittgensteiniana è così quello per cui le proposizioni del linguaggio sono raffigurazioni dei fatti del mondo. Che il mondo sia è, per Witt-genstein, una condizione primitiva, che il linguaggio ha come presupposto e la cui esperienza è, per noi, immediata. Che cosa intende, tuttavia, l'autore del Tractatus con il termine "mondo"? Innanzitutto, il mondo è tutto ciò che accade, ossia è la totalità dei fatti (Tatsachen). Un fatto può constare di altri fatti, può cioè essere un fatto complesso. Un "fatto atomico", cioè un fatto che non consta di altri fatti, è chiamato da Wittgenstein uno stato di cose (Sachverhalt). A sua volta, uno stato di cose si presenta come una combinazione di oggetti (Gegenstdnden), di cose (Dingen), termini con i quali il filosofo austriaco designa le realtà più semplici e non ulteriormente scomponibili che costituiscono i fatti. Nello stato di cose gli oggetti ineriscono l'un l'altro "come le maglie di una catena". Il modo in cui sono connessi è la struttura dello stato di cose.

Il mondo come aggregato di fatti, ossia di stati di cose
Gli oggetti sono la sostanza del mondo; essi hanno i caratteri della perma-nenza, della fissità e dell'immutabilità. Il cambiamento, infatti, non è altro che un'alterazione nelle configurazioni degli oggetti, ossia negli stati di cose. Gli oggetti, al contrario, restano, per così dire, sempre quello che sono, poiché la sostanza è "ciò che sussiste indipendentemente da ciò che accade"; e ciò che accade è il fatto. Secondo Wittgenstein, tuttavia, non è mai possibile considerare il singolo oggetto se non nella relazione che esso intrattiene con gli altri oggetti. se non cioè in quanto concorre a determinare uno stato di cose. Come non possiamo mai concepire oggetti spaziali fuori dello spazio, oppure oggetti temporali fuori del tempo, così non possiamo concepire alcun oggetto fuori della possibilità del suo nesso con altri.
Per esempio, per raffigurare un ambiente, una stanza, non basta nominare gli oggetti in esso presenti, ma occorre anche mostrarne la reciproca disposizione; allo stesso modo, per raffigurare il mondo non è sufficiente indicare le cose che esistono, ma è necessario mostrare i fatti, ossia i modi con cui le cose sono connesse l'una all'altra.

L'ontologia di Wittgenstein
Come ha osservato Max Black, uno dei più accurati commentatori del Tractatus, la principale innovazione dell'ontologia wittgensteiniana nei confronti delle metafisiche tradizionali sta, in questo modo, nel considerare il mondo alla stregua di un aggregato di fatti, non di cose.
Cerchiamo ora di dare, con qualche approssimazione, un'interpretazione concreta dell'ontologia del Tractatus, costruendo un modello sulla base del gioco degli scacchi. Immaginiamo che gli oggetti del mondo siano i pezzi degli scacchi e i quadrati della scacchiera. Gli stati di cose saranno le relazioni fra i pezzi e i quadrati. Che un certo pezzo occupi un certo quadrato sarà un fatto. IL mondo corrisponderà alla posizione dei pezzi in un dato momento; esso sarà la totalità dei fatti, non delle cose: non quindi i pezzi più la scacchiera, ma la posizione di quelli su questa. I pezzi sono oggetti semplici; tuttavia essi non possòno essere pensati separatamente dalle regole del gioco, ossia dall'insieme delle mosse possibili ammesse.

LA TEORIA DELL'IMMAGINE
Dopo aver esposto la sua concezione del mondo come totalità strutturata di fatti, Wittgenstein introduce la propria teoria raffigurativa del linguaggio (vedi TESTI, Unità 28 - testo 2). Il linguaggio viene inteso come un sistema raffigurativo complesso; esso "rappresenta" la realtà, nel senso che ne costituisce l'immagine speculare, ossia, più specificamente, ne rispecchia proprietà formali. Ancora una volta, che il linguaggio sia è, per Wittgenstein condizione primitiva: c'è il linguaggio perché è possibile stabilire isomorfismi, ossia identità strutturali fra "situazioni" diverse. Seguiamo l'argontazione del Tractatus. Dei fatti che compongono il mondo, noi ci formiamo innanzitutto delle immagini. Il rapporto di immagine è concepito da Wittgenstein come un particolare rapporto tra fatti: da un lato vi è il fatto raffigurante, dall'altro quello raffigurato. Il fatto raffigurante consta di oggetti (gli elementi dell'immagine) non meno del fatto che esso raffigura. Nell'immagine gli elementi stanno per gli oggetti. Tra fatto e immagine esiste pertanto un rapporto di corrispondenza (che chiameremo relazione raffigurativa per cui agli elementi dell'uno corrispondono gli elementi dell'altro. Nell'immagine, in particolare, trova rappresentazione il modo in cui gli oggeti sono connessi l'uno all'altro nel fatto raffigurato, ossia la sua struttura.

Il problema della sensatezza delle immagini
Possiamo chiamare struttura dell'immagine la connessione degli elementi dell'immagine in quanto quest'ultima raffigura la connessione degli oggetti di cui si compone il fatto. La verità o la falsità di un'immagine dipende dalla sua corrispondenza o non corrispondenza con lo stato di cose che essa rappresenta. Diremo che un'immagine è provvista di senso se può essere vera. Con senso dell'immagine intendiamo quindi ciò che essa rappresenta, indipendemente dal fatto se la rappresentazione sia fedele o meno. Un'immagine, pertanto, è sensata in quanto rappresenta una situazione possibile. Riprendiamo ora il modello scacchistico che avevamo costruito in precedenza. Esso pu6 servirci per esemplificare il rapporto fra mondo e immagini, nel senso del Tractatus. Analizziamo il seguente disegno, che raffigura parte di una scacchiera (v. p.764)
Si tratta di un'immagine che rappresenta un fatto, ossia una determinata posizione di pezzi su una scacchiera. I simboli dell'alfiere, della torre e delle caselle stanno per gli oggetti corrispondenti. Tra immagine e fatto vi è un rapporto di corrispondenza, vi è isomorfismo.

L'identità di forma tra immagine e mondo
L'interrogativo principale a cui la teoria wittgensteiniana dell'immagine si propone di dare una risposta è così formulabile: in che modo un'immagine è connessa con il mondo? Come possono i fatti renderla vera o falsa? L'esempio che chiarisce il modo con il quale Wittgenstein intende l'immagine e la natura della sua connessione con la realtà è quello del modello in scala di un incidente, stradale. Sul tavolo vengono disposti i modellini che stanno per le vetture coinvolte nell'incidente, i segnali stradali, i pedoni ecc.; vengono poi. riportati i rapporti e le distanze che ciascuno di essi aveva in realtà all'atto dell'incidente. Il come dell'incidente viene così raffigurato dalla disposizio-ne spaziale dei pezzi, cosicché iI senso del modello è proprio dinanzi ai nostri occhi: è nella raffigurazione che noi possiamo vedere ciò che è accaduto ef-fettivamente nella realtà. L'immagine viene considerata come un fatto, i cui elementi (i pezzi del modellino) sono uniti secondo una struttura ben determinata. L'immagine e il mondo risultano in questo modo connessi da un'identità di forma.

LA TEORIA DELLA PROPOSIZIONE
Consideriamo ora le proposizioni del nostro linguaggio. Esse sono un com-plesso di segni, formato secondo regole grammaticali e sintattiche ben determinate. Wittgenstein intende la proposizione come una specie particolare di immagine: essa è dunque, in generale, l'espressione simbolica di un fatto. Chiamiamo nomi gli elementi semplici della proposizione. Il nome pertanto è, nella proposiizione, il rappresentante dell'oggetto. Alla configurazione dei nomi (la struttura della proposizione) corrisponde la configurazione degli oggetti (la struttura del fatto), Il nome è un "segno primitivo", ossia il costituente ultimo della proposizione. Per Wittgenstein, esso denota o designa l'oggetto; la proposizione invece descrive il fatto. In che modo quindi la proposizione esibisce un fatto? Grazie a due caratteri:
1) il rapporto di denotazione fra nomi e oggetti rappresentati;
1) l'identità di struttura fra proposizione e fatto.

Il significato del nome e il senso della proposizione
Parleremo, a questo proposito, di significato del nome e di senso della proposizione. Il significato di un nome è ciò che quest'ultimo designa; il senso di una proposizione è il suo essere una rappresentazione possibile di uno stato di cose, ossia il suo poter essere vera o falsa.
Comprendere il senso di una proposizione vuoi dire cogliere la connessione logica dei segni che la compongono. Per cogliere il significato, invece, è necessario il rinvio al mondo reale, allo stato di cose raffigurato. Ne risulta che un nome ha una sola relazione con la realtà: se non designa qualcosa, non è un simbolo dotato di significato. Una proposizione invece ha una duplice relazione con la realtà: ossia, può mantenere un senso anche quando non è vera. Solo all'interno della connessione stabilita dalla proposizione, tuttavia, un nome ha significato. Infatti "è impossibile che le parole occorrano in due modi diversi: da sole e nella proposizione". Come un oggetto non può sussistere indipendentemetne dal suo occorrere in stati di cose, così il significato del nome dipende dalla sintassi della proposizione in cui si trova inserito. I nomi, in altre parole, svolgono la loro funzione referenziale solo entro un contesto.

La differenza tra significato di un nome e senso di una proposizione
Vediamo di spiegare più semplicemente questo punto tramite un esempio. Ciò che Wittgenstein afferma è che noi comprendiamo una proposizione senza sapere se essa è vera o falsa. Se io dico "Mio fratello ha i baffi" l'interlocutore mi capisce senza alcun bisogno di sapere se effettivamente mio fratello li ha o no. Ora, Frege aveva concepito le proposizioni come nomi. Tuttavia, noi sappiamo che un nome è compreso solo se si sa quale oggetto nella realtà gli corrisponde (infatti, per esempio, l'espressione "pxffy" non ha significato). Ma ciò che corrisponde nella realtà alle proposizioni è - come abbiamo visto sopra - il loro essere vere o false. Dunque, se le proposizioni fossero nomi, noi le comprenderemmo solo sapendo se sono vere o false. Invece - obietta Wittgenstein - noi comprendiamo una proposizione anche senza saperlo. Dobbiamo pertanto concludere che il significato di un nome (l'oggetto designato) è cosa diversa dal senso di una proposizione (il suo poter essere vera o falsa).

La corrispondenza tra piano linguistico e piano ontologico
Una proposizione complessa - per esempio "Se Emilio pensa allora mio fratello ha i baffi" - la si comprende se si comprendono le sue parti costitutive, che chiamiamo proposizioni elementari e che sono, rispettivamente, "Emilio pensa" e "Mio fratello ha i baffi". Una proposizione elementare è un sempli-ce flesso di nomi che raffigura un fatto elementare, ossia uno stato di cose... Essa è vera se sussiste lo stato di cose che raffigura, falsa nel caso contrario. A sua volta, perché una proposizione elementare venga compresa è necessa-rio che sia evidente il significato dei nomi che la compongono. Io capisco che cosa vuoi dire la proposizione "Perugia è una bella città", se il nome "Perugia" mi rimanda a un oggetto la cui sussistenza è garantita.
Come si può constatare, la teoria della proposizione ripete, in questo modo, il movimento analitico compiuto sul piano ontologico, fondato sulla scomposizione delle strutture complesse in unità semplici e indecomponibili. Agli oggetti corrispondono i nomi; agli stati di cose le proposizioni elementari; ai fatti le proposizioni complesse; al mondo il linguaggio. Tra il piano ontologico e quello linguistico risulta così una corrispondenza su1 piano formale, che possiamo rappresentare attraverso il seguente schema: (v. p.766)

Il problema dell'atomismo logico
Gli interpreti del hanno lungamente discusso sul rapporto che Wittgenstein stabilisce fra nomi e oggetti e in particolare sulla questione se possibile identificare una classe di enti concreti che soddisfi il requisito sostanziale imposto agli oggetti, quello della semplicità. Il testo del Tractatus, su questo punto particolarmente ambiguo, non indica alcun esempio di oggetto, né chiarisce se con questo termine ci si debba riferire alle cose empiriche oppure no. Per definire la teoria wittgensteiniana degli oggetti si è usata spesso l'espressione, introdotta da Russell, di "atomismo logico", con la quale il filosofo dei Principia designa la concezione per cui "è possibile, se non in pratica, in teoria, arrivare fino a degli elementi semplici ultimi, dai quali è costituito il mondo". Wittgenstein accoglie questa concezione, senza tuttavia usare direttamente l'espressione di Russell e senza prendere in considerazione i problemi di ordine epistemologico a essa connessi. Le motivazioni che spingono l'autore del Tractatus ad accettare la tesi atomistica si comprendo. -no tenendo presente la sua concezione del rapporto fra linguaggio e mondo.

Il modello logico-linguistico della realtà
Se i fatti fossero irriducibilmente complessi, se cioè non ci fossero degli oggetti ultimi - "sostanza" del mondo - in connessione diretta con i nomi che li rappresentano, nessuna proposizione direbbe qualcosa sul mondo (potrebbe cioè affermare qualcosa di sensato), in quanto il processo di scomposizione della complessità della proposizione non avrebbe mai fine. Solo se alcuni segni sono in connessione diretta con il mondo - come sono i nomi quando rappresentano gli oggetti - tutti gli altri segni possono stare a loro volta in connessione, sia pure indiretta, con il mondo. L'esistenza di oggetti e la loro semplicità sono dunque la condizione formale perché le proposizioni abbiano senso. In altre parole: se ci sono proposizioni dotate di senso, come ci sono, allora devono esserci oggetti semplici. Da quanto detto risulta chiaro che gli oggetti vengono postulati sul piano logico piuttosto che determinati sul piano empirico. La loro esistenza risulta, per così dire, "dedotta" a partire dalle proprietà logiche del linguaggio, in particolare dal fatto che ci sono proposizioni dotate di senso. L'ontologia delTractatus si presenta così come una sorta di proiezione dei caratteri che Wittgenstein rileva come propri del linguaggio.
Dallo studio delle forme del linguaggio egli giunge a un modello possibile secondo cui pensare la realtà.

IL DICIBILE E L'INEFFABILE
Quanto abbiamo detto fin qui ci ha portato al cuore del Tractatus. Indicando le condizioni logiche che consentono di costruire un linguaggio formalmente corretto, Wittgenstein traccia una netta linea di demarcazione tra ciò di cui si può parlare e ciò di cui, al contrario, si deve tacere; ovvero, tra il ristretto ambito (le scienze) di ciò che è esprimibile in modo chiaro ed esaustivo e la vastità di quanto invece (l'"ineffabile") si sottrae alla possibilità di un linguaggio rigoroso. Il linguaggio dotato di senso è espressione dei fatti e coincide con il linguaggio delle scienze naturali. Non fanno pane, viceversa, della scienza della natura tutti gli enunciati che non sono trascrivibili in proposizioni, ossia in espressioni linguistiche dotate di senso.

Le proposizioni della logica come "armatura del mondo"
Se le proposizioni della scienza sono contingenti (mostrano cioè di essere compatibili con certi fatti del mondo e non con altri), le proposizioni della logica al contrario hanno, per Wittgenstein, uno statuto puramente analitico: esse sono compatibili con tutti i fatti, ossia sono necessariamente vere (le "tautologie") o necessariamente false (le "contraddizioni"), senza bisogno di confronto con la realtà. Nelle tautologie e nelle contraddizioni viene esclusa a priori la possibilità, rispettivamente, della falsificazione e della verificazione: enunciati logici che si presentano sempre veri o sempre falsi non ammettono quella oscillazione tra il sì e il no che è tipica delle proposizioni in senso stretto. Le proposizioni della logica non descrivono dunque fatti, ma condizioni di possibilità dei fatti. Pur essendo funzioni di verità, esse non dicono nulla sul mondo (non raffigurano alcuna situazione possibile, non informano su particolari stati di cose), ma valgono per tutti i possibili stati di cose. Per questo le proposizioni logiche hanno una funzione speciale rispetto alle altre: mostrando le proprietà formali del linguaggio, esse rappresentano "l'armatura del mondo". Non hanno a che fare con un particolare mondo di oggetti, ma con le strutture del linguaggio. Di qui deriva il loro carattere di certezza ("in logica - scrive Wittgenstein - non possono mai esserci sorprese"), il che le rende tuttavia prive di qualsiasi valore conoscitivo.

La filosofia come chiarificazione del linguaggio
Individuando le condizioni di sensatezza del linguaggio, l'analisi logica esercita una proibizione nei confronti di tutti gli enunciati linguistici contenenti simboli che mancano di determinazione semantica. Risultano così privi di senso (ossia, né veri né falsi) le "pseudo-proposizioni" della metafisica, dell'etica, dell'estetica e in generale tutti gli asserti che non sono immagine di alcun fatto. Gran parte dei problemi tradizionali della filosofia si giustificano quindi solo sulla base di un cattivo uso del linguaggio. L'autentico compito della filosofia deve essere invece quello di smascherare l'insensatezza della metafisica, i cui enunciati, apparentemente corretti, non hanno in realtà alcuna funzione descrittiva. La filosofia non è né una scienza, né una dottrina produttiva di conoscenze. Non c'è un dominio di oggetti specifico della filosofia, né ci sono "verità filosofiche" nel senso in cui ci sono verità fisiche.
La filosofia non dà immagini della realtà, né è in grado di confermare o infirmare teorie scientifiche. Il suo campo è piuttosto il linguaggio: essa è per essenza un metodo, o meglio un'attività di chiarificazione logica del pensiero e del linguaggio. Come osserva Giovanni Piana, il compito della filosofia si situa, per Wittgenstein, "prima" della scienza, nel punto in cui i pensieri sono ancora "torbidi e indistinti"; e anche prima del linguaggio, se con questo termine si intende il linguaggio logicamente chiaro e distinto. La filosofia è, in ispecie, critica del linguaggio comune, in quanto tende a ricondurre quest'ultimo al linguaggio formale delle scienze sperimentali e di quelle esatte. Inscrivendosi in una tradizione illustre, che dalla maieutica socratica giunge al dubbio cartesiano e al metodo kantiano, il Tractatus circoscrive così la sua stessa funzione come insieme di "istruzioni" ai fini della costruzione di un linguaggio adeguato a parlare del mondo.

Il mondo è ineffabile
La conclusione dell'opera annuncia tuttavia un nuovo e più radicale problema. "Noi sentiamo - scrive Wittgenstein in uno degli ultimi aforismi del libro - che, persino nell'ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati." Leggiamo quanto scrive l'autore del Tractatus in una lettera del 1919, indirizzata all'editore von Ficker: "Il mio lavoro consiste di due parti: di quello che ho scritto, e inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante". E avverte: "Il senso del libro è un senso etico". Si annuncia così ciò che in un aforisma del Tractatus viene chiamato il Mistico (das Mystische).
Esso è l' "ineffabile", ossia ciò che trascende i limiti del pensiero e del linguaggio umani. Nessuna proposizione può esprimere il senso del mondo: che il mondo sia non è logicamente giustificabile. I "problemi vitali" a cui allude Wittgenstein sono innanzitutto i problemi morali, religiosi ed estetici, concernenti quelli che abitualmente sono chiamati i "valori". Tali problemi non solo non si fondano sulla conoscenza, ma non sono neppure formulabili, perché - come sappiamo - il linguaggio dotato di senso si riferisce solo a fatti, mentre i valori non sono fatti. Essi si collocano dunque all'esterno delle pos-sibilità del pensiero. Una volta chiariti definitivamene i problemi logici e scientifici, noi "sentiamo" - attraverso una sorta di "sentimento mistico" - che i nostri problemi vitali rimangono ancora non toccati e che essi appartengono al dominio dell'inesprimibile. Si comprende allora l'ultima proposizione fondamentale dell'opera: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere" (vedi TESTI, Unità 28 - testo 4). Lungi dall'essere un semplicistico invito ad attenersi alla realtà dei fatti, essa vale come un principio che rende l'uomo consapevole dei suoi limiti. Il dovere di tacere su ciò che trascende le possibilità della logica e del linguaggio non esclude e non nega ciò che si tace. Il silenzio dunque - secondo un motivo che viene forse a Wittgenstein dalla lettura di Schopenhauer e di Tolstoj - non significa che ciò su cui si tace noi esisteste, ma che si è inadatti a parlarne.
Dopo la pubblicazione del Tractatus, ritenendo di aver risolto nell'essenziale i problemi filosofici, ma anche di aver mostrato "quanto poco sia fatto dall'essere questi problemi risolti", Wittgenstein interrompe la sua attività di ricerca, dedicandosi all'insegnamento nelle scuole elementari.

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