Friedrich NIETZSCHE
da Cioffi.., Corso di filosofia.., cit., p. 137 sgg,


3 - Le grandi parole-chiave della filosofia nietzscheana

Se in Umano troppo umano la filosofia nietzscheana esprime ancora solo una scettica liberazione dalle illusioni, in Aurora e più ancora nella Gaia scienza essa si trasforma in una nuova e più lieta annunciazione.
La figura dello spirito libero si allontana da quella del freddo e spietato critico e trasmuta sempre più nel tipo d'uomo che rischia e fa esperimenti con la vita, che inventa con coraggio la propria condotta, che gioca con l'incertezza.
Con Aurora e con Gaia scienza - gli scritti del "vomere" - è così seminato il terreno su cui germoglieranno, di lì a poco, i pensieri fondamentali della filosofia di Nietzsche: la morte di Dio, il superuomo, l'eterno ritorno dell'uguale, la volontà di potenza.

LA MORTE DI DIO

Nell'aforisma 125 della Gaia scienza l'"uomo folle" annuncia per la prima volta la morte di Dio. "Dove se ne è andato Dio? - gridò - ve lo voglio dire Siamo stati noi a ucciderlo. li...] Dio è morto!".
Ecco dunque la verità tremenda che apre una nuova via alla filosofia nietzscheana.
Che cosa significa tuttavia che Dio è morto? E che senso ha annunciare agli uomini la sua morte?
Il motivo della morte di Dio non ha, per Nietzsche, alcun significato psicologico: non significa dunque che gli uomini non credono più in Dio; né rappresenta una tesi metafisica circa la non esistenza di Dio. Esso ha piuttosto il valore di una constatazione: non c'è più alcun Dio che ci può salvare: oltre gli uomini sta solo il nulla. Alla lettera, si tratta dunque dell'annuncio di un evento, ancorché terribile. di Cui occorre prendere atto. Perché tuttavia Dio muore? Dio muore perché il mondo moderno è investito da una crisi mortale, che ha sprofondato l'umanità nell'angoscia dell'assurdo.
Proclamando la morte di Dio, Nietzsche intende dunque riassumere in una formula radicale l'irruzione del nichilismo nel mondo moderno, ossia il fatto che l'insieme degli ideali e dei valori su cui, grazie al cristianesimo, la civiltà europea ha costruito per secoli la propria regola di comportamento tradisce ora il nulla che ne era il fondamento nascosto. Agli occhi di un'umanità che non crede più ai suoi fini e ai suoi valori, così come essi si sono storicamente affermati nell'occidente cristiano, anche il Valore supremo si svalorizza: "Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna".
La morte di Dio è dunque il segno della tragicità del tempo. Con essa la Terra si snatura e l'umanità, orfana, priva del fondamento, corre verso la sua decadenza, Se Dio è morto non ha più senso parlare di morale, di bene e di male, di giusto e di ingiusto. Non ha più senso domandarsi dove l'uomo stia andando e da dove sia venuto. "Non è il nostro un eterno precipitare? - si chiede l'uomo folle - Non stiamo forse vagando attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto?" (Vedi La "morte di Dio" e il "superuomo" da Così parlò Zarathustra) (Vedi anche F. Guccini: "Dio è morto")

Il nichilismo, la perdita di senso e la necessità di una nuova era
La categoria chiave dì questa "nuova scena" della filosofia nietzscheana è quella di nichilismo, categoria cui Nietzsche dedicherà di qui in avanti un grande sforzo di analisi (vedi nichilismo ). In prima istanza il termine nichilismo svolge una funzione diagnostica: esso serve a Nietzsche per designare la condizione pessimistica e passiva di un'umanità per la quale nulla ha più senso. Nell'epoca della crisi dei valori, l'uomo riconosce l'insensatezza del mondo e sviluppa un sentimento di perdita e di dolore, di risentimento e di odio nei confronti della vita. Attraverso questa nozione, Nietzsche matura dunque una nuova posizione che è ontologica e storica al contempo: nel corso della civilizzazione umana la metafisica e la mo-rale hanno via via perduto la loro necessità vitale: dunque l'essere stesso si avvicina al nulla. Se questa è la vita - si chiede tuttavia Nietzsche - quale compito rimane ancora all'uomo, quale senso è concesso al suo abitare la Terra? Nella Gaia scienza, vi si fa solo un cenno: "Non dobbiamo noi stessi di-ventare dèi. per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un'azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto siano mai state tutte le storie fino a oggi". E il primo accenno a un nichilismo "attivo", di cui tuttavia può essere protagonista solo un uomo superiore, il quale non si accontenta più di assistere alla rovina degli antichi ideali, ma se ne fa personalmente il promotore, preparando così, in modo distruttivo, l'avvento di una nuova umanità, lo schiudersi di una nuova storia. Si esaurisce, con questo motivo, la "fase illuminista" della ricerca nietzscheana. Il terreno è seminato per la filosofia di Zarathustra.

Gli insegnamenti dello Zarathustra
Annunciata dagli ultimi aforismi della Gaia Scienza, la filosofia di Così parlo Zarathustra comincia là dove si era conclusa la filosofia del mattino.
Con quest'opera il pensiero di Nietzsche trova il suo compimento, giunge al suo "grande meriggio".
Con essa il filosofo di Ròcken trova il linguaggio per i propri pensieri più radicali e percorre senza esitazioni il grande mutamento della sua vita.
I tre insegnamenti fondamentali che Zarathustra intende dona-re agli uomini, la dottrina del superuomo, quella dell'eterno ritorno dell'uguale, la volontà di potenza non giungono tuttavia inaspettati.
Non si tratta di un'eruzione improvvisa. Nello Zaruthustra prorompe con violenza ciò che scorreva già come una corrente sotterranea in Aurora e in Gaia scienza: se lo spirito libero era l'uomo della vita libera e coraggiosa, del rischio e dell'esperimento, il superuomo, l'uomo dell'eterno ritorno e della volontà di potenza, è la realizzazione estrema dello spirito libero.

Analizziamo i tre motivi fondamentali dello Zarathustra.


IL SUPERUOMO

Alla folla raccolta sulla piazza del mercato Zarathustra dice: "Io vi insegno il superuomo. L'uomo è qualcosa che deve essere superato. (...) Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete retrocedere alla bestia piuttosto che superare l'uomo?". E aggiunge: "L'uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo" (vedi TESTI, Unità 14 - testo 3').
Il superuomo nietzscheano, dunque, sta al di là dell'uomo del presente, come quest'ultimo sta attualmente al di là della scimmia. L'uomo superiore è la tappa successiva che l'umanità deve compiere dopo essersi lasciata alle spalle la condizione animale.
Queste formule "evoluzionistiche" hanno fatto lungamente discutere. Esse hanno dato luogo, soprattutto nei primi decenni del nostro secolo, a interpretazioni fuorvianti che hanno trasformato il superuomo in una sorta di supereroe darwinianamente privilegiato, secondo una lettura quantomeno semplicistica.
Questa lettura, storicamente avviata dalla sorella di Nietzsche, Elisabeth, e poi ripresa dal nazismo, interessato a fare del filosofo tedesco un anticipatore della dottrina del primato della razza ariana, è oggi abbandonata.
Si fraintenderebbe dunque il significato che in Nietzsche assume l'idea di superuomo se la si prendesse come il cardine di una concezione scientifico-naturalistica di tipo lamarckiano o darwiniano.
Allo scopo di fugare errate interpretazioni, viziate da precomprensioni di origine ideologica, lo studioso italiano Gianni Vattimo ha utilmente proposto di tradurre il temine tedesco Ubermensch (in cui il prefisso avverbiale ùber significa sia "sopra" sia "oltre") con "oltreuomo", neologismo che consente di marcare con nettezza la differenza tra il tipo di umanità nuova vagheggiata da Nietzsche e una concezione della medesima come puro e semplice soggetto di potenza e di forza.(vedi La "morte di Dio" e il "superuomo" da Così parlò Zarathustra)

Le critiche al cristianesimo e all'idealismo
Il passaggio dall'uomo al superuomo non è dunque da intendere come un'evoluzione in cui dall'homo sapiens si sviluppa una nuova razza di individui superiori.
Ciò trova una conferma nelle obiezioni assai aspre che Nietzsche muove in moltissimi frammenti all'evoluzionismo del suo tempo, inficiato, a suo parere, da una concezione del progresso ingenua e fideistica.
Innanzitutto, obietta Nietzsche, sono spesso i deboli, più che i forti, a prevalere nella lotta per la vita; inoltre il lamarckismo esagera l'influenza dell'ambiente nel-la selezione delle specie.
A queste obiezioni Nietzsche unisce la considerazione che, nella società umana, non si è affatto costituita una élite stabile, che costituisca un progresso rispetto alla massa: anzi l'umanità oggi sembra aver subito un processo di regressione, se la si confronta con gli uomini del rinascimento o con gli antichi greci.
Responsabile di questa ingiustificata fede nel progresso non e tuttavia solo la scienza, ma anche il cristianesimo, con la sua nefasta concezione di provvidenza, e l'idealismo, specie quello hegeliano, la cui idolatria della storia porta erroneamente a concepire la storia stessa come lo sviluppo vittorioso dei valori moralmente migliori, come la realizzazione razionale del bene e del giusto. Nietzsche constata, al contrario, che ciò che è forte e nobile deve spesso farsi largo e aprirsi un passaggio forzoso nelle maglie della storia. Pur preoccupato di trovare nel passato i precursori individuali o collettivi del superuomo (il popolo greco, l'aristocrazia antico-indiana, lo stesso Napoleone) Nietzsche non intende dunque mai il superuomo come il risultato di una presunta "logica immanente" alla storia.

Dioniso contro il crocifisso
Chi è dunque il superuomo?
Nello Zarathustra e nelle opere successive, la fi-gura del superuomo oscilla tra quella della "bella individualità" di origine umanistica (gli spiriti forti e liberi) e quella dell'avventuriero, che è spinto da un impulso più distruttivo che costruttivo.
Il superuomo dei discorsi di Zarathustra è spesso figura "luminosa": è l'uomo che "dona la virtù", che redime, che vive il meriggio come l'ora della felicità e della compiutezza del mondo. Egli è l' "eroe affermatore" per eccellenza: c'è in lui una disposizione dionisiaca verso la vita che lo pone al centro del mondo animato da un "fatalismo" gioioso e fiducioso; disposizione che è tuttavia temperata da una sorta di pessimismo coraggioso che lo mette in grado di assumere su di sé il peso delle contraddizioni della vita e di non chiudere gli occhi anche di fronte alle verità più orribili.
Il superuomo è tuttavia anche colui che pecca di hyhris, che ha la tracotanza, l'indifferenza di chi è al di là del bene e del male. È l'uomo insieme del grande amore e del grande disprezzo, spirito creatore, uomo della "grande decisione" che salverà l'umanità dal nichilismo.
Del barbaro conserva il vigore e l'intensità degli istinti, che integra tuttavia in un ordine superiore risultato dell'educazione greca alla libertà.
Il superuomo, dunque, è senza morale, in quanto "precristiano": contrapposto al crocifisso (simbolo per Nietzsche di sconfitta e di rassegnazione) sta per Nietzsche an-cora "Dioniso" che rappresenta, come già nella Nascita della tragedia, l'energia tumultuosa che tutto tramuta in affermazione. Nietzsche sa che il superuomo verrà tacciato di immoralismo; non dubita che "i buoni e i giusti chiamerebbero diavolo il superuomo". Questi virtuosi sono tuttavia incapaci di capire, egli commenta, come all'uomo superiore possano essere concesse la malvagità e l'azione terribile se esse servono a fare del deserto della vita una contrada ubertosa e fertile.

Il superuomo come figura mitica
Da queste caratterizzazioni (che abbiamo qui trascelto all'interno delle nu-merose note che Nietzsche dedica al tema non solo nello Zarathustra ma an-che nelle opere successive e nei Frammenti postumi) il superuomo risulta es-senzialmente disegnato come una figura mitica, protagonista letterario di un archetipo del pensiero "per tutti e per nessuno" - come recita il sottotitolo dello Zarathustra - che Nietzsche stesso esita a identificare in questo e quel personaggio del passato o del presente e che ha più il tratto dell'individuo cosmico-storico della prosa romantica che i caratteri individuati dell'uomo concretamente possibile.

La "fedeltà alla terra"
Su un piano più strettamente filosofico, il superuomo si caratterizza per la sua "fedeltà alla terra" (vedi TESTI, Unità 14 - testo 3). Poiché Dio è morto, l'unica realtà è ora la vita terrena. Alla terra dunque la nuova umanità deve far ritorno ed esservi fedele, rifiutando l'estrema illusione in una speranza sovraterrena: non essendoci più Dio infatti non esiste più un "mondo dietro il mondo" in cui trovare consolazione al pensiero della morte. Consapevole della perdita dell'aldilà, il superuomo riconosce in questo aldilà solo l'utopica immagine riflessa della terra: e alla terra egli si volge con quel fervore e con quel senso di appartenenza che l'uomo riservava in precedenza al mondo divino. Il legame con la terra è dunque per l'uomo dell'età del nichilismo la grande occasione di guarigione; nella terra, la Grande Madre da cui ebbero origine tutte le cose, egli ritrova la sua natura più propria e originaria. Non dunque il superuomo, al posto di Dio, bensì la terra: dove per l'umanità imprigionata dalla sua alienazione stava Dio, ora sta la terra: "Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio - dice Zarathustra - peccare contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile". Siamo ora in grado di defi-nire meglio i tratti del superuomo nietzscheano: egli è innanzitutto uomo di questo mondo, che sa dire di sì alla vita, sapendo che non c'è nulla al di là di essa. Si rivela una volta di più il fondo dionisiaco, mai abbandonato, della filosofia nietzscheana: la grandezza del superuomo sta nel saper accettare la vita come "transizione e tramonto".


L' ETERNO RITORNO DELL'UGUALE

La concezione del superuomo trova nella dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale "il più abissale dei miei pensieri" il suo orizzonte definitivo di comprensione. Si tratta del concetto di maggiore difficoltà interpretativa dell'intero pensiero nietzscheano. Nietzsche stesso vi si accostò con timore ed eccitazione, tanto da dare all'esposizione della dottrina, qui più ancora che altrove, un carattere fortemente allusivo e allegorico, quasi iniziatico (vedi TESTI, Unità 14 - testo 5). La prima folgorante intuizione dell'eterno ritorno è del-l'agosto del 1881. Lo stesso Nietzsche lo racconta in un passo di Ecce homo:"Camminavo in quel giorno lungo il lago di Silvaplana (nella valle svizzera dell'Engadina) attraverso i boschi; presso una possente roccia che si levava in figura di piramide, vicino a Surlej, mi arrestai. Ed ecco giunse a me quel pensiero [...]. L'inverno seguente vivevo vicino a Genova, in quell'insenatura graziosa e quieta di Rapallo E...] la mattina andavo verso sud, salendo per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l'ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando fin dietro Portofino E...]. Su queste due strade mi venne incontro il tipo da Zarathustra; più esattamente mi assalì". Il primo testo in cui Nietzsche annuncia l'idea del ritorno è l'aforisma 341 della Gaia scienza. Solo tre anni dopo tuttavia, nel terzo libro dello Zarathustra, Nietzsche riesce a dare della dottrina un'esposizione compiuta.

La critica alla concezione lineare del tempo
Com'è tipico del filosofare nietzscheano, il concetto di eterno ritorno viene presentato come il risultato di un'intuizione improvvisa: il tempo non ha. fine; il divenire non ha scopo. Il corso del mondo non è retto da alcun piano provvidenziale teso a inaugurare il regno di Dio o della morale. Il tempo non procede in modo rettilineo, né verso un fine trascendente (come ha preteso la tradizione ebraico-cristiana), nè verso una finalità immanente (come ha creduto lo storicismo). L'uomo della cultura occidentale è dunque prigioniero di una errata concezione lineare del tempo secondo cui ogni cosa ha un inizio e una fine, un principio e uno scopo; e tutto tende a una meta, ossia a una stabilizzazione definitiva delle forze agenti nel mondo, rispetto alla quale i momenti del processo sono iscritti in una "grande logica" che li rende transitori e quindi irrilevanti. In questa visione, il passato ci condiziona in quanto irreversibile e il futuro si impone come un evento sempre incombente che ci im-pedisce di godere del presente. A questa concezione ebraico-cristiana - che intende il tempo scandito da istanti irripetibili: creazione, peccato, redenzione, fine dei tempi - Nietzsche oppone una concezione ciclica, ripresa dalla tradizione antica, presocratica e orientale, secondo la quale gli eventi sono destinati eternamente a ripetersi in un tempo circolare. Il mondo risulta dominato, in questa visione, dalla necessità della ripetizione: "tutte le cose eter-namente ritornano e noi con esse, e noi fummo già eterne volte e tutte le cose con noi". Ogni istante vissuto, ogni piacere e ogni dolore, sono già esistiti infinite volte e infinite volte, in eterno, esisteranno. Se tutto ritorna, ogni istante non è nè un passo in avanti, né uno indietro, in quanto non vi sono più direzioni prescritte: cade la possibilità di orientarsi nel tempo rispetto a scopi o principi assoluti; si svela così il fondamento ontologico fallace di ogni progetto etico, religioso o metafisico.

La pienezza di vita nell'attimo
Vi è tuttavia il pericolo di interpretare l'eterno ritorno in un senso fatalistico: se ogni istante è destinato a ripetersi, se il tempo non è altro che il fatale ricorrere degli stessi eventi, dobbiamo allora concludere che nella vita nulla accade di nuovo, che la vita stessa, imprigionata nella circolarità del tempo, è inutile così come inutili e vani si rivelano gli atti di volontà degli uomini, che infine anche l'avvento del superuomo è un'illusione priva di senso? La r-sposta di Nietzsche è negativa. Non basta abbandonarsi alla ciclicità del tem-po per sottrarsi al nichilismo e all'angoscia.
L'amor fati nietzscheano non è l'accettazione rassegnata delle cose così come esse accadono. Al contrario, l'uomo superiore è proprio colui che volontariamente vuole per sé quella legge universale che gli altri enti (gli animali, le piante, gli stessi uomini inconsapevoli) si limitano a seguire ciecamente; così facendo egli trasforma il caso in una necessità consapevolmente assunta e voluta: "così io volli che fu, così io voglio che sia, così io vorrò che sia".
La dottrina nietzscheana dell'eterno ritorno mette capo, in questo modo, a una nuova concezione dell'agire umano. Nella visione lineare del tempo ogni istante acquista significato solo se legato agli altri, che lo precedono e lo seguono; il corso del tempo muove dunque verso un fine che trascende i singoli momenti di cui è costituito. Nella visione nietzscheana invece, ogni momento del tempo, e dunque ogni esistenza singola in ogni suo attimo di vita, possiede tutto intero il suo senso.
L'attimo presente può e merita perciò di essere vissuto per se stesso, come se fosse eterno. Quanto nella Nascita della tragedia era compreso sotto la categoria del primato della vita, ora viene espresso in modo più esaustivo sotto la categoria del primato dell'attimo: la vita vince ogni morte, poiché non muore in nessun morire, ma nel morire anzi eternamente torna a vivere; allo stesso modo l'unità dell'attimo riassume e comprende in sé la totalità del tempo, poiché in essa eternamente ritorna la totalità del divenire.

Il superuomo e il ritorno dell'uguale
Ecco dunque la prima massima nietzscheana: muovi sempre dall'attimo, dal presente vissuto pienamente, in quanto affidato né al destino, né alla casualità, ma alla decisione, al coraggio, alla volontà. Da cui la seconda massima: vivi questo attimo in modo tale che tu debba desiderare di riviverlo. E chiaro tuttavia che solo un uomo perfettamente felice potrebbe volere l'eterna ripetizione di ogni attimo della propria vita. Ed è altrettanto chiaro che solo in un mondo pensato nella cornice di una temporalità ciclica è possibile una tale piena felicità, giacché in una struttura del tempo rettilinea nessun istante vissuto può realmente avere in sé una pienezza di senso, in quanto tale istante ha senso, come abbiamo visto, solo in funzione degli altri istanti che lo precedono e lo seguono sulla linea del tempo. Non si tratta allora solo di essere capaci di costruire attimi di esistenza così intensi da meritare di essere voluti come eternamente ritornanti, ma anche del fatto che attimi di questo tipo sono possibili solo se l'uomo felice che ne è il protagonista, il superuomo, aderisce alla legge suprema dell'eterno ritorno. L'eterno ritorno può essere voluto solo dal superuomo; ma il superuomo può darsi solo in un mondo ordinato secondo l'eterno ritorno. Diventa in questo modo per la prima volta possibile l'avvento di una nuova e felice umanità, libera di dispiegare la propria creativa volontà di potenza sul mondo.(vedi L' "eterno ritorno dell'eguale" da Così parlò Zarathustra)


LA VOLONTA' DI POTENZA

Viene così ora in primo piano la nozione di volontà di potenza, come tratto distintivo della nuova condizione di felicità del superuomo. Il termine, che appartiene soprattutto alla produzione posteriore allo Zarathustra, è stato a lungo interpretato sulla base dei significati più immediati di cui si fa portatore, ossia nella sua accezione di potere e quindi di dominio e di violenza sugli altri. Sarebbe errato misconoscere la presenza in Nietzsche di questi significati. Parimenti, attraverso questo concetto, Nietzsche intende designare anche quel dominio di sé che già nella "fase illuministica" aveva contrapposto alla violenza barbara, tipica dell'individuo volgare e mediocre. Nietzsche cita, a questo proposito, il brahmanesimo come essenza di un potere nobile fondato sulla padronanza della potenza. Volontà di potenza dunque non è la semplice volontà di dominio, pura affermazione sull'altro, né la giustificazione metafisica di un'ideologia di potenza. Come dirà Martin Heidegger, essa è la volontà che vuole se stessa. Di fronte al nulla dei valori, all'assurdità del mondo, alla realtà della sofferenza, essa è la volontà dell'individuo di affermarsi come volontà. La morte di Dio diventa la resurrezione dell'uomo responsabile e padrone del proprio destino, la cui volontà è ora libera di affermare se stessa. Soggetto di volontà di potenza, di conseguenza, è colui che ha la forza per affermare la propria prospettiva del mondo.

La spiritualizzazione della competizione
La radice del concetto è, ancora una volta, greca. Uno dei temi di cui esso si compone - tema già elaborato nel saggio giovanile del 1871 su L'agone omerico - è quello della "competizione" come principio di organizzazione della vita. Nietzsche contesta l'immagine sbiadita che la tradizione accademica ha dato dell'umanesimo greco. La sua vera natura non sta nell'ottimismo razionalistico di Socrate, né nella omologhia platonica, ossia nella ricerca della convergenza delle vedute tramite il ragionamento dialettico. La bella umanità greca, da tutti ammirata, è segnata per Nietzsche al contrario dal tratto della crudeltà, dal gusto per la distruzione, dalla gioia di vincere. La lezione dei greci è che non esiste vita senza un istinto alla potenza, istinto che l'uomo greco ha imparato a dominare e a rendere creativo. La competizione greca, di cui Omero ha fissato il modello ed Eraclito ha tessuto l'elogio, è la "spiritualizzazione" della lotta primitiva, che nella vita pubblica assume le forme delle gare sportive, dei concorsi di tragedie, dei certami oratori, delle dispute filosofiche.

Il rifiuto della visione pessimistica del mondo
Una delle determinazioni che più di altre aiuta a delimitare il concetto di volontà di potenza è quella che la intende come tendenza affermativa ed espansiva, come impulso continuo a "oltrepassare se stessi". Si tratta tuttavia di qualcosa di più di una semplice tendenza vitalistica; nè va peraltro confusa con il "voler-vivere" di ispirazione schopenhaueriana. Quest'ultimo, per Nietzsche, è una pseudo-volontà, un volere "sospeso nell'aria". Basata se un'interpretazione pessimistica del mondo, sintomo decadente di malattia dello spirito, la volontà di Schopenhauer ha rinnegato il principio del piacere e cancellato la propria capacità creativa, cercando illusoriamente la libertà dal dolore nell'ascesi. L'esempio più frequente cui Nietzsche ricorre per evo-care il protagonista della volontà di potenza è quello dell'artista creatore che costruisce e dà forma alla materia. Ritorna il tema giovanile della giustificazione estetica dell'esistenza: qual è l'arte sana, modello di volontà di potenza? Non certo l'arte come catarsi, che ha solo lo scopo di placare le passioni (come accade con la musica wagneriana), nè l'arte romantica che crea solo per scontentezza e si dissolve nel sentimentalismo esasperato, nello sfogo momentaneo; bensì, di nuovo, l'arte tragica, che esalta i valori di chi accetta di vivere nell'orizzonte dell'eterno ritorno.



Introduzione e Periodizzazione degli scritti
La concezione tragica del mondo
L' "illuminismo di Nietzsche"
La "morte di Dio" e il "superuomo" da Così parlò Zarathustra
L' "eterno ritorno dell'eguale" da Così parlò Zarathustra
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