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    Ryszard Kapuscinsky "La prima guerra del football" Edizione Feltrinelli
    Recensione di Gabriella Bona (gabri.bona@libero.it) 

    “Il nostro lavoro è come quello del fornaio: i panini sono buoni finché sono freschi, dopo due giorni sono secchi, dopo una settimana fanno la muffa e sono da buttare”. Nonostante l’opinione pessimista dell’autore, il corrispondente estero dell’agenzia di stampa polacca PAP Ryszard Kapuscinski, le note raccolte ne “La prima guerra del football”, scritte tra il 1960 e il 1976, non sono seccate, non sono ammuffite e non sono da buttare via. Anzi, rileggendo oggi avvenimenti successi decine di anni fa, riusciamo a ricostruire percorsi storici, a capire l’evoluzione di paesi lontani, difficili e in cui la guerra, le dittature, i disagi si sono susseguiti negli anni seguenti e non si sono ancora risolti. 
    Giornalista coraggioso, curioso, interessato a ciò che succede nel mondo, soprattutto nelle situazioni più difficili, disposto a rischiare il carcere e talvolta anche la vita per vedere da vicino ciò che succede sul fronte delle operazioni, Kapuscinski percorre Africa, America latina, Medio Oriente, raccontando le cose e le persone che incontra e prendendo appunti per libri che dovrà scrivere, prima o poi, in giorni più tranquilli. 
    1960: il Ghana indipendente e la figura di Kwame Nkrumah, “un uomo politico, un visionario, un tribuno, uno stregone”; 1961: Patrice Lumunba attraversa il Congo perché “negli altri paesi i leader hanno a disposizione la stampa, la radio, il cinema, la televisione, i loro quadri [ma in Africa] bisogna attraversare il paese” per conoscerlo e farsi conoscere; 1965: il Sudafrica, “il paese dell’apartheid, la dottrina che ha elevato a dignità di legge e principio di fede uno degli istinti più tenebrosi: l’odio razziale”; 1965: l’Algeria, “il paese più difficile da governare di tutta l’Africa”, nel periodo di Ahmed Ben Bella e di Boumedienne; 1966: la Nigeria e chief Awolowo; 1969: la guerra tra Honduras e Salvador, scoppiata subito dopo una partita per la qualificazione ai Campionati del mondo di calcio; 1972: la guerra tra arabi ed ebrei sul Monte Hermon; 1974; la guerra a Cipro, tra greci e turchi: sono alcune delle “guerre di poveri” – come sono definite nel sottotitolo – che l’autore narra nel libro. 
    Storie di povertà, di violenza, di colonialismo di lotte tra etnie – l’Africa: cinquanta stati e duemila tribù – di guerre per strappare un pezzo di terreno coltivabile allo stato confinante, di distruzione e di morte e di paesi ricchi che su queste guerre, queste divisioni, queste lotte, continuano a guadagnare e ad arricchirsi. 
    Ma il libro è soprattutto la storia degli incontri, con i personaggi che hanno avuto un ruolo importante nei loro paesi e con gli sconosciuti che ogni giorno lottano tra mille difficoltà e raccontano il loro paese attraverso la loro povera esperienza. È la storia di paesi giovani – “dal passato africano non emerge un solo nome che il mondo conosca, che l’Africa conosca” -, di nazioni che possono sperare di essere citate sui giornali dei paesi ricchi soltanto in caso di guerre o di cataclismi, di paesi che l’Ismaele del giornalismo polacco ha imparato ad amare e che noi impariamo a conoscere attraverso le pagine del libro. E come l’Ismaele di Melville, dopo essersi chiesto a che cosa porta tutto questo viaggiare intorno al mondo, attraverso innumerevoli pericoli, Kapuscinski continua a viaggiare. E a raccontare. 
      
    gabriella bona 

   
 
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