ALBA - Rare sono le testimonianze
del Duecento pittorico in Piemonte: lo strappo della “Crocifissione” dal
muro troppo umido, all’interno della cella campanaria del Sant’Andrea di
Savigliano, ha riportato alla luce, per caso, una tenera “Madonna con Bambino
tra angeli”, in puro stile gotico francese.
Sul rosso vivo della tenda di fondo,
che spicca come in un campo la macchia dei papaveri, le esili figure esprimono
con prontezza il loro dolce sentimento.
Accanto è stata scoperta,
sulla parete laterale sinistra, una scena di grande seduzione, da datarsi
alla fine del Duecento, quando la città era ancora sotto la dominazione
angioina: il Vescovo Nicola di Mira salva di notte, furtivo, col dono di
tre monete le tre fanciulle addormentate, destinate, a causa della loro
povertà, a finire prostituite.
Sebbene il soggetto sia religioso,
vi ricompare il motivo profano del nudo femminile con un insistito compiacimento
dello sguardo indiscreto, attratto dalla movenze nel sonno delle tre giovani
donne, tra candide lenzuola e cuscini coloristicamente variati, sotto un’accesa
coperta.
Lo stesso artista ha lasciato nell’antico
Palazzo del Comune di Savigliano l’immagine dei due “adulteri” giustiziati:
si tratta di “pittura infamante”, una pratica sociale allora abbastanza
diffusa per perpetuare il disonore di singoli individui e di ceti politici
dissidenti. Viceversa, la grande “Crocifissione” staccata appartiene alla
corrente lombarda, attiva in terra di Piemonte sulla metà del Trecento,
dopo la peste nera.
Contro il cielo scuro si distende
il corpo robusto, ma luminoso del Cristo passo, tra il dolore trattenuto
dei due dolenti , con gli angeli che raccolgono il prezioso sangue in coppe
tornite.
La campagna di recupero che attende,
invece, allo scoprimento della globalità degli affreschi nel San
Domenico d’Alba, dietro al Duomo, a cura della Famija Albeisa, presieduta
da Giovanni Bressano, data la vastità della chiesa, dovrà
avvalersi di tempi lunghi.
Sono per ora di nuovo fruibili ad
una lettura critica, come sopravvivenze di rilievo, tre episodi delle “Storie
di sant’Antonio abate”, di cultura lombarda, appena oltre la metà
del Trecento, all’interno della cappella absidale di sinistra, già
impreziosita in precedenza da una decorazione ad affresco tardo duecentesca
a forme geometriche e a girali vegetali.
La rappresentazione contempla: le
tentazioni del monaco Antonio tra uno svolazzare di diavoli come neri pipistrelli;
il pane spezzato con l’eremita Paolo nel deserto; e la morte sul monte,
vicino al fiume, del Santo.
Siamo di fronte ad un antecedente
del racconto più espressionistico ed erotico di Jaquerio a Ranverso.
In quanto fonte letteraria principale,
durante il Medioevo, venne utilizzata per la conoscenza del monachesimo
orientale delle origini la “Vita di Antonio”, scritta nel quarto secolo
da sant’Anasta-sio, poco dopo la morte del grande anacoreta: aperta alle
varianti, naturalmente, nella trasposizione figurativa, dovute alla particolare
sensibilità degli interpreti.
E’ così evidente che la parola
scritta, in questo caso un testo agiografico, nel suo calarsi in immagine,
secondo una linearità di tipo narrativo, costruiva un più
percorribile “ponte” comunicativo coi fedeli. Già sant’Agostino
aveva avanzato la metafora della parete decorata come “codex publicus”
che tutti possono vedere.
Dopo, ad Alba, s’aprirà la
stagione di Barnaba da Modena, con l’invio da Genova di un esemplare su
tavola a fondo oro lavorato della “Madonna allattante il Figlio”, nel 1377,
per il coro notturno della chiesa di S. Francesco, ora in S. Giovanni.
aldo moretto