Il vino nell'antica Roma

 

I Romani, nei loro rapporti di incontro e scontro politico, economico e culturale con gli Etruschi, appresero le tecniche vitivinicole fino dall'epoca dei primi re. Dopo la conquista del Lazio e la fine delle guerre puniche, la viticoltura si sviluppò al punto da indurre Catone il Censore (234 - 149 a.C.) a suggerire, nell'acquisto di un buon podere, di dare importanza prioritaria alla vite e quindi, prima dell'olivo, alla coltivazione dei salici per produrre i vimini necessari per le legature dei tralci.

Nel periodo compreso tra Catone e Plinio il Giovane (61-113 d.C.) la vitivinicoltura raggiunse livelli molto elevati ed il vino era consumato anche in locali pubblici di vendita (thermopolia). Molto rilevante era l'esportazione, tanto che il porto di Ostia divenne un vero emporio vinario.

Agli inizi dell'età imperiale la viticoltura era molto estesa ed era praticata anche in terreni fertili per ottenere più elevate produzioni, necessarie per soddisfare l’esportazione e l’aumento del consumo interno. La conseguente riduzione di altre coltivazioni, quali quella dei cereali, secondo quanto riferisce Svetonio nel De vita Caesarum, indusse Domiziano a vietare nel 92 la costituzione di nuovi vigneti e ad imporre lo spiantamento della metà delle vigne esistenti nelle "provinciae" romane (le attuali normative sul blocco degli impianti dimostrano che "nulla è nuovo sotto il sole"!).

La coltivazione della vite forniva redditi in genere maggiori di altre colture, come risulta fra l’altro dal fatto che all'epoca di Diocleziano, ai fini della tassazione, la superficie di vigneto per comporre un jugum o caput millena era la più bassa di tutte le colture (tab. 1).

Il progresso tecnico vitivinicolo venne illustrato e favorito anche da un'ampia letteratura, la quale, arricchita dalle conoscenze ed esperienze di altri popoli del Bacino Mediterraneo, raggiunse livelli significativi con importanti opere, quali quelle di Marco Porcio Catone - De agricultura , di Marco Terenzio Varrone - Res rusticae - di Publio Virgilio Marone - Georgica - e, soprattutto, di Lucio Moderato Columella - De re rustica -, in cui sono esposti anche concetti biologici e direttive tecniche tuttora validi ed interessanti.

Notevole era anche il patrimonio varietale, suddiviso in vitigni da tavola e da vino, quest'ultimi distinti in tre classi a seconda della qualità del vino ottenibile. Columella indicava 58 vitigni, di cui 12 da tavola; Plinio il Vecchio ne elencava 80 e riferiva che nel mondo ne esistevano 190.

L'industria enologica era praticata anche separatamente dall'azienda agraria, come dimostrato da varie notizie di vendita all'asta di uve pendenti. Nel territorio dei municipia di Arretium e di Cortona sono state trovate vasche per la pigiatura dell'uva, in muratura e monòliti, di notevole capacità e, quindi, destinate ad un impiego industriale.

Nei Paesi del Mediterraneo, tra la fine della Repubblica e l'inizio dell'Impero erano prodotti numerosi vini come risulta dalla Geographica di Strabone e dalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, il quale ricorda 50 diversi tipi di vini pregiati.

Il vino era utilizzato anche in molteplici ricette della cucina romana. Esistevano, inoltre, vini particolari, variamente profumati ed aromatizzati, ottenuti con l'infusione di varie specie di piante e con l’aggiunta di particolari sostanze, a taluni dei quali erano attribuiti specifici effetti, quali indurre l'aborto, rendere feconde le donne, determinare impotenza negli uomini. Esisteva anche un vinum murratum, che veniva dato ai condannati a morte per annebbiare la loro coscienza prima dell'esecuzione. Si potrebbe pensare che fosse questo la "mistura di vino e fiele" (Mt 27, 34) o il "vino con mirra" (Mr 15, 23), o il "vino aspro" (Lc 23, 36) che venne offerto a Gesù nel suo supplizio?

Nel III-IV secolo d.C., con la crisi dell'Impero iniziò anche il declino della viticoltura. Il latifondo, l'affidamento del lavoro agli schiavi, la crisi monetaria, le lotte interne, le invasioni dei barbari, il disordine politico e amministrativo, l'insicurezza pubblica, soprattutto nelle campagne, crearono condizioni sfavorevoli all'agricoltura e in particolare alla viticoltura. Molti agricoltori, inoltre, estirpavano i vigneti per non subire le forti tasse cui erano assoggettati, tanto che nel IV secolo l'imperatore Teodosio, per frenare questo fenomeno, decise la pena di morte per chi - sacrilega falce - tagliava le viti.

Verso la fine dell’impero romano di Occidente, la superficie viticola aveva subíto una sensibile riduzione, mantenendosi in prevalenza nelle aree vicine alle città e meglio collegate alle coste, dove più intensi e più facili erano gli scambi commerciali.

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