Immigrazione ed emigrazione
Intervista a Carmine Abate  
a cura della Redazione

La cultura arbëreshë è poco conosciuta, nonostante siano circa 200.000 gli italiani di origine albanese che vivono nel nostro paese. Ch i sono gli Arbëreshë?

  Gli Arbëreshë sono i discendenti di popolazioni albanesi che a partire dalla metà del 1400, a ondate, cominciano ad approdare nell’Italia meridionale per non sottostare all’impero ottomano che aveva invaso i Balcani. L’ultimo paese, Villa Badessa,  venne fondato nel 1744 in Abruzzo. Ancora oggi in ben 50 comuni e frazioni dislocati in tutte le regioni meridionali si continua a parlare la lingua arbëreshë, cioè l’albanese antico.

Sono riusciti a conservare nel corso della storia la propria identità culturale?

  Sono riusciti a mantenere la lingua, il che ha già del miracoloso, se si considerino la scolarizzazione esclusivamente in italiano, la forte emigrazione e l’impatto dei mass media, in particolare della televisione. Parlare invece di conservazione dell’identità culturale è sempre difficile, soprattutto perché gli arbëreshë non sono emigrati all’interno della stessa area mediterranea di cui facevano parte e col tempo la loro storia e la loro identità si sono intrecciate strettamente con quelle delle popolazioni meridionali. Comunque non sottovaluterei come forte elemento di differenziazione culturale la lingua arbëreshë, perché la lingua, com’è noto, non è solo un mezzo di comunicazione, ma anche un diverso codice di organizzazione della realtà.

 Esistono dei rapporti tra gli arbëreshë e gli albanesi arrivati in Italia con le recenti ondate migratorie?

  I profughi albanesi di oggi si sono diretti soprattutto nei grandi centri urbani italiani, anche se non mancano le eccezioni: in molti paesi arbëreshë vivono famiglie di albanesi, che da quello che mi risulta si sono integrate molto bene e parlano un ottimo arbëresh.

  In un’intervista ti definisci “un transfuga linguistico”, cioè uno scrittore che scrive in una lingua diversa da quella che ha imparato dalla voce della propria madre. Qual è il tuo rapporto con la lingua italiana?

  Pur essendo laureato in Lettere, per me l’italiano resta una lingua straniera, che mi ha fatto penare da bambino (non dimenticherò mai il primo giorno di scuola con il maestro che parlava in italiano e io che lo ascoltavo a bocca aperta senza capirci un’acca) e ora in qualche modo padroneggio: è l’unica lingua che so scrivere correttamente o quasi e che mi si è imposta come lingua letteraria. Una lingua-distanza che mi ritorna utile per scrivere su temi come l’emigrazione, altrimenti rischierei in ogni pagina di scadere nella retorica e nei piagnistei.

  A proposito di emigrazione, molti italiani mostrano verso gli stranieri gli stessi atteggiamenti di intolleranza e di ostilità che in tempi non recenti furono riservati ai nostri connazionali all’estero. Come spieghi questo fenomeno?

  Avendo noi alle spalle una lunga storia di emigrazioni (che a me non sembra ancora finita del tutto), dovremmo essere più solidali con chi viene da fuori. Ma sta proprio qui la spina. Chi viene da fuori ci ricorda troppo chi eravamo, chi erano i nostri padri, i nostri nonni. E noi invece vorremmo dimenticarlo. Forse se riuscissimo a rivalutare la nostra emigrazione e i nostri emigranti, a vederne gli aspetti positivi, il nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri in Italia cambierebbe. Detto questo,  va da sé che il discorso meriterebbe un’approfondita trattazione socio-antropologica. E politica.

 In questi ultimi anni sono state pubblicate in Italia numerose opere di immigrati, che scrivono direttamente nella nostra lingua. In molti di questi testi  si avverte la nostalgia della propria terra, ma allo stesso tempo la voglia di integrarsi nella realtà italiana. Non trovi qualche affinità con i tuoi “germanesi”?

  Le affinità, soprattutto di contenuti, sono tantissime. Anni fa ho curato un’antologia dal titolo “In questa terra altrove” che raccoglieva testi letterari di emigrati italiani in Germania, i germanesi appunto. I temi sono gli stessi che trattano gli stranieri in Italia: le esperienze di vita in terra straniera, il ritorno, la ricerca dell’identità, la voglia dell’integrazione e il razzismo. Mancava il tema del pianto e del lamento, tipico di una certa letteratura dell’emigrazione del passato e che è presente anche in alcuni testi degli scrittori stranieri in Italia. In Germania, queste scorie del passato sono state filtrate quando gli autori italiani hanno cominciato a collaborare con gli autori di altre nazionalità e ad usare il tedesco, scritto direttamente o in traduzione, come lingua veicolare. Io stesso ho fatto parte negli anni Ottanta di un’associazione di scrittori e artisti stranieri che si chiamava PoLiKunst e che nel momento di maggiore diffusione raggruppava ben 17 nazionalità.

  Qual è il tuo giudizio sulla “letteratura dell’immigrazione”?

  Ho seguito questa letteratura fin dalla nascita e devo dire che col tempo sto scoprendo degli autori che hanno davvero molto da dirci e lo dicono sempre meglio. Oggi è stata superata la fase che Armando Gnisci, appassionato esperto di questa letteratura,  aveva definito efficacemente “carsica”, cioè “resa invisibile dall’industria culturale”.  Autori come Yunis Tawfik, Muin Masri, Momhse Melliti, Christina de Caldas Brito, Mabiala Jadelin Gangbo, Ron Hubati, Gezim Hajdari, per citare qualche nome, o scrittori come Dante Liano, Jarmila Ockajovà, Alice Oxman, che scrivono in italiano, ma non (ancora) sui temi dell’immigrazione, hanno conquistato uno spazio importante nel panorama letterario italiano. A me sembra che anche in Italia cominci a prendere forma una letteratura che ha alla base il dialogo, affiorino i primi tentativi di incrocio e ibridazione di modelli letterari, di lingue, di storie, si creino i presupposti di quella che dovremmo cominciare  a chiamare letteratura multiculturale. Una letteratura fatta dallo sguardo plurimo e ibrido sul mondo, di cui è portatore chi parte e vive altrove.

 

   


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