Cardiologia


Lezione del 18/10/2000
prof. Percoco

 

 

Laboratorio di emodinamica: la Coronarografia e l'Angioplastica

Il cuore è una pompa, che lavora sempre, e ha bisogna di energia continua. E’ dotato di un sistema arterioso che porta il sangue e di un sistema venoso che drena il sangue dal cuore, e questo sistema è costituito dalle coronarie, la coronaria dx e la coronaria sx.

Le coronarie iniziano dai lembi valvolari aortici, e poi si distribuiscono su tutte le pareti del cuore:

  1. ramo per il margine del ventricolo dx
  2. ramo per la parte posteriore del ventricolo dx

Cosa succede durante l’infarto?

Che uno di questi condotti si ammala, e la malattia delle coronarie fa parte del grosso capitolo delle malattie aterosclerotiche coronariche. I fattori di rischio li studierete e sono tantissimi. Fondamentalmente ad un certo punto, uno di questi condotti può ammalarsi in qualsiasi parte del suo percorso, si può ostruire completamente e abbiamo l’infarto, (sapete che il cuore non può restare senza irrorazione per più di 20 minuti) e inizia la citonecrosi miocardica, cioè la morte cellulare che libera alcuni enzimi cardiaci, che sono quelli che ci permettono di verificare, oltre all’ecg, che in quel momento c’è un’assenza di perfusione della zona interessata.

Naturalmente l’infarto è tanto più esteso quanto più grande è la coronaria interessata: se la coronaria è periferica, la zona infartuata è piccola, se invece la coronaria è ad esempio la discendente anteriore, tutta la zona che dipende da essa va in crisi e può andare in necrosi.

E’ importante cercare di preservare queste coronarie, intanto con la prevenzione, ma una volta che si verifica la malattia bisogna cercare di ripristinare nel più breve tempo possibile un flusso adeguato che consenta per lo meno la morte cellulare limitata. E questo può essere fatto farmacologicamente, con la trombolisi.

Cos’è la trombolisi? La malattia coronarica intanto si stabilisce nel tempo, non è mai un evento acuto, già alla nascita c’è un processo aterosclerotico progressivo, soprattutto dove ci sono le biforcazioni, dove ci sono i vortici per la spinta del sangue a 100/1200 mmHg. Quindi più le diramazioni sono ad angolo acuto, più naturalmente c’è una evoluzione dell’aterosclerosi, che con la vecchiaia aumenta e in più dobbiamo sommare i fattori di rischio. La malattia deve essere clinicamente evidente, perché una stenosi coronarica al 70% può comunque essere asintomatica, perché il cuore riesce a fare il suo lavoro senza dare segni clinici di malattia.

La malattia si manifesta perché la stenosi coronarica ha raggiunto un certo grado e in genere può manifestarsi sia sotto sforzo che a riposo. L’angina da sforzo non e’ altro che un sintomo della malattia; se le coronarie sono ammalate, si crea una discrepanza tra le esigenze del cuore che lavora e il flusso che non arriva.

Quindi l’angina è un sintomo clinico di una situazione anatomica.

L’infarto si ha quando su questa malattia coronarica si instaura un trombo acuto che occlude improvvisamente l’arteria, e tutto il distretto dipendente dall’arteria va soggetto all’ischemia; se l’ischemia dura 5/10/15 minuti e quindi si ha una riapertura anche spontanea del vaso (perché la trombolisi spontanea nel momento stesso in cui si forma, mette in atto dei meccanismi di trombolisi) e non si arriva all’infarto, ma si ha un episodio anginoso prolungato con il ripristino del flusso per preservare la vita delle cellule ma non la funzione completa delle cellule.

Se invece l’occlusione dura più di 20/30minuti andiamo verso la citonecrosi.

La maniera per affrontare questa situazione e ripristinare il flusso della coronaria può essere:

farmacologica (ricovero paziente in unita’ coronarica) con somministrazione di un farmaco in grado di sciogliere il trombo anche se non vuol dire ripristinare la coronaria come era prima, ma solo togliere il trombo, mentre la malattia di fondo, cioè la stenosi coronarica resta, dunque c’è il ripristino del flusso lasciando la stenosi. Questo e’ possibile nel 60% dei casi, dipende molto dai tempi che intercorrono fra l’evento acuto (l’occlusione) e la somministrazione del farmaco trombolitico. Dipende anche da tanti altri fattori, come la situazione clinica del paziente al momento, perché se il paziente ha un grosso infarto ed e’ ipoteso, siccome il farmaco deve arrivare attraverso la via venosa alla coronarie, ha bisogno di una pressione di perfusione, ma se il paziente va in shock cardiogeno il farmaco non arriva e non è in grado di funzionare. Anche se arriva, e funziona, non sempre riesce a sciogliere il trombo, ma noi facciamo conto che ci riesca e il trombo sia sciolto. Il danno che né deriva dipende dai tempi e dalla sede dell’occlusione, dopo di che il paziente ha il suo decorso normale in unita’ coronarica, e poi si pone il problema di cosa fare di questo paziente? E’ un paziente che ha già avuto un evento importante, voi sapete che l’infarto acuto è importante e pericoloso non solo perché fa un danno diretto sulla meccanica del cuore, una parte della pompa è morta e non è più in grado di fare il lavoro di espulsione, e l’altra parte si sovraccarica di lavoro di mantenere il circolo, perché il circolo va mantenuto comunque, al di la’ di come siano le condizioni del cuore.

Se si ripristina il flusso, una parte del cuore può salvarsi, e a questo punto, una volta fatto il suo decorso, si pone il problema di verificare quale è la malattia di fondo che ha provocato l’infarto o l’angina instabile, e come si fa?

Abbiamo diversi mezzi incruenti: l’ecocardiografia non ci da’ nessuna informazione sull’anatomia delle coronarie; la prova da sforzo, dopo una fase acuta dell’infarto è eseguita dopo 6/7 giorni dall’evento, e non è mai la prova da sforzo massimale in grado di verificare al 100% se è rimasta una stenosi che può dare il rischio di un nuovo infarto del miocardio.

 

 

L’UNICA METODICA in grado di darci l’anatomia coronarica è LA CORONAROGRAFIA, che ci indica anche la sede della lesione coronarica.

 

Per fare una coronarografia, tecnicamente, è un intervento in anestesia locale, e le vie di accesso sono arteriose e sono o le due arterie femorali, o brachiali, oppure omerali, o radiali. Si introduce una sonda con una guida, un tubicino attraverso cui passano i cateteri, cioè quelli che vanno a imboccare direttamente le coronarie e attraverso i quali noi iniettiamo il mezzo di contrasto per visualizzare le coronarie. I cateteri sono di varie forme e dimensioni, perché l’anatomia coronarica è molto diversa. Il catetere deve arrivare alla coronaria, ed essere inserito direttamente nell’ostio coronarico, non nell’aorta. Esistono cateteri preformati oppure dei cateteri che bisogna spingere con delle manovre particolari dentro gli osti coronarici. Queste manovre sono traumatiche e comportano dei rischi, perché la parete aortica può avere delle placche ateromasiche, e mentre si manovra con le guide e i cateteri si può avere un distacco di materiale che può embolizzare.

Questo fa parte di quello che è il rischio della coronarografia, ma è un rischio di morte contenuto (0,002%), però non è una procedura metodica priva di rischi per il paziente. D’altra parte in medicina il rischio e’ sempre valutato non in senso assoluto: in una persona sana, anche un rischio dello 0,002% non è giustificato, sarebbe inutile; ma in una persona che invece ha avuto un infarto e che presumibilmente ha una malattia coronarica importante, il rischio dell’esame è giustificato.

Per la coronaria sx esistono dei cateteri preformati, perché è più facile introdurli con la guida nell’ostio coronarico sx. Poi, con questi cateteri, noi iniettiamo del mezzo di contrasto iodato nella coronaria e si fa un cd-rom, con diverse proiezioni, perché noi non vediamo il vaso coronarico in 3d, ma lo dobbiamo ricostruire facendo delle proiezioni particolari, sia dove non c’è niente che dove c’è la stenosi.

Quindi è importante fare un certo n° di proiezioni per evidenziare la stenosi coronarica; ci sono delle proiezioni standard che si fanno sempre, proprio per vedere da più angoli visivi la coronaria e vedere che non ci siano stenosi.

 

Come possiamo intervenire su questo sistema per ripristinare il flusso coronarico?

Con l’angioplastica, che e’ un metodo per ottenere una riperfusione coronarica non chirurgico in un paziente con una malattia coronarica.

La procedura tecnica dell’angioplastica è simile al cateterismo, cioè alla coronarografia. Anche per l’angioplastica le vie di accesso sono quelle delle arterie periferiche, ma a differenza della coronarografia noi abbiamo bisogno intanto di un catetere più ampio, perché’ i cateteri per la diagnostica permettono l’esplorazione, ma non consentono di lavorarci, perché’ per fare un’angioplastica abbiamo bisogno di portare dentro alla coronaria tutto un sistema. Per cui il primo punto è che i cateteri dal punto di vista morfologico sono simili tra loro, ma lavoriamo con diametri più grossi, con un lume interno molto ampio.

Perché’ abbiamo bisogno di un lume interno ampio? Perché’ attraverso quel catetere noi dobbiamo essere in grado di visualizzare costantemente la coronaria, e in più dobbiamo portare dentro un filo guida, che deve poi attraversare il punto stenotico nella coronaria malata ( il calibro e’ di 0,014 mm). Una volta portata la guida a valle della stenosi, va posizionata nel ramo periferico perché’ deve dare un supporto a quello che e’ il vero "attore" della procedura, che e’ il palloncino.

Queste guide sono in acciaio, rivestite da silicone per renderle scivolose; e’ chiaro che quando si manovra una guida di 0,014 mm, hanno una punta sottile che si infila dappertutto, quindi noi dobbiamo essere sempre sicuri di essere nel lume vero del vaso, perché’ passando con questa guida possiamo andare sotto la parete e perforare la coronaria dissecandola. Per questo motivo, mentre usiamo la guida, dobbiamo iniettare del mezzo di contrasto.

Una volta portato il filo guida, dobbiamo portare il palloncino. Il palloncino dell’angioplastica è fatto di materiali diversi, le lunghezze variano in base alla lunghezza della stenosi coronarica, e in genere ci sono due marker radio opachi all’inizio e alla fine del palloncino, che ci consentono di posizionarlo all’inizio e alla fine della stenosi. E in più ci indica la lunghezza della lesione.

Il palloncino si infila sulla guida, lateralmente, sempre dentro il catetere, ecco perché il lume del catetere deve essere ampio (all’interno ci devono passare il filo guida e il palloncino). Il palloncino fa lo stesso percorso della guida e usa la guida come "carrucola", e la guida fa da "binario" al palloncino.

Una volta che abbiamo portato il palloncino a livello della lesione, lo sovrapponiamo al punto stenotico, e lo gonfiamo. Le atmosfere che si possono raggiungere arrivano fino a 28 atm, vi rendete conto della pressione che noi esercitiamo all’interno della coronaria ( una ruota di camion è 2,5 atm), ecco perché’ durante la procedura può succedere di rompere la coronaria, e perciò si fanno col cardiochirurgo sempre presente, in "standby" cardiochirurgica attiva, perché se succede qualcosa, il chirurgo deve intervenire immediatamente.

Quindi, portiamo il palloncino sulla lesione, lo gonfiamo, naturalmente se quel distretto è vitale, noi quando gonfiamo il palloncino, togliamo il flusso e il paziente può "sperimentare" gli stessi disturbi che ha durante l’infarto acuto come dolore al petto, bradicardia.

I tempi di gonfiaggio dipendono proprio dalla tolleranza del paziente, cioè se il paziente ha scarsa tolleranza si fanno gonfiaggi brevi e ripetuti (20/30 sec.); quando il paziente lo tollera è meglio fare dei gonfiaggi lunghi (2/3 min.) perché’ l’azione del palloncino sulla lesione e sulla parete è più efficace. Però questo dipende sia dalla tolleranza del paziente, sia dalla situazione clinica dello stesso, perché se quella coronaria che andiamo a trattare è l’unico vaso pervio, e tutto dipende da quel sistema, chiudendolo tutto il cuore va in tilt; quindi non si può tenere il cuore in crisi per troppo tempo, allora si fanno dei gonfiaggi brevi e ripetuti.

Si gonfia, si sgonfia, e si ricontrolla col mezzo di contrasto iodato, e si vede il risultato: il risultato può essere buono e accettabile con una stenosi residua a fine procedura sotto al 50% (supponiamo fosse del 90%).

Domanda: < ma il palloncino rompe la placca ? >

Risposta: sì, la placca si frattura, il problema è che fratturando la placca del materiale può embolizzare, normalmente però è come uno "spiaccicamento" della placca sulla parete e quando si chiude la coronaria, la placca è già fratturata anzi l’occlusione trombotica è legata alla frattura della placca e su quella frattura si forma la trombosi. Perché se è una stenosi stabile, non da’ una sindrome instabile (infarto o angina instabile) ma può dare un’angina da sforzo.

Ecco perché il gonfiaggio lungo è preferibile. Il risultato è accettabile fino a una stenosi del 50%, però si preferirebbe sempre avere una stenosi residua il più bassa possibile; e la tecnologia è venuta incontro a queste esigenze, anche perché sempre da tenere in conto la possibilità della ri-stenosi.

Agli inizi l’angioplastica si faceva solo col palloncino, e la ri-stenosi angiografica era più frequente (30/35% dei casi trattati), poi se questa stenosi andava ritrattata o meno dipendeva dalla esplicazione clinica: cioè se dava angina non andava trattata, se invece dava ischemia allora andava trattata.

La tecnologia comunque e’ venuta incontro alle esigenze di migliorare i risultati in acuto e per migliorare poi anche i risultati a distanza, fondamentalmente con l’utilizzo di macchinari come l’aterotomo ???? , che è una fresa, e sempre utilizzando la guida, si porta nella placca (gira a 6000/7000 giri al min.) e cerca di pulire la parete. La procedura normale non prevede l’utilizzo di questi macchinari, che si usano solo in casi molto particolari.

Quello che invece è diventato di uso quasi comune, tornando alla procedura di Angioplastica, è lo STENT. Lo stent cos’é? E’ una protesi endovascolare, formata da maglie metalliche che sono o premontate direttamente sul palloncino, per cui noi li prendiamo già fissati sul palloncino, oppure lo montiamo noi sul palloncino.

Quando si usa lo stent? Fondamentalmente lo stent era nato per riparare le situazioni create proprio durante l’angioplastica, ad es.: una dissecazione della parete. Prima non era trattabile senza lo stent, e si andava dal chirurgo, e, infatti, la frequenza di bypass prima dello stent, durante le angioplastiche era del 4/6%, adesso è diventato dello 0,2/2%. Perché? Perché lo stent e’ in grado di riparare quella frattura, cioè questa maglia che si porta dentro la coronaria, sul palloncino, viene gonfiata sulla parete e forma un "armatura" sulla parete del vaso.

E quindi ci garantisce, se si e’ creta una frattura sulla parete per la alta pressione di gonfiaggio, di ripararla.

Questo era lo scopo dello stent. Negli anni si è esteso sempre di più l’uso perché è molto comodo, perché un’angioplastica che da’ una stenosi residua del 40% si può portare al 5/6%, perché la struttura metallica applicata alla parete da’ un risultato immediato certamente migliore della sola angioplastica.

Quindi nel 70/80% dei casi la procedura dell’angioplastica viene finita con l’applicazione dello stent; addirittura, spesso, si fa lo stentino primario, cosa vuol dire? Che noi abbiamo la stenosi coronaria all’80%, con un lume residuo di 0,6mm, e il profilo del palloncino ha un lume inferiore a 0,6mm, mettiamo direttamente lo stent, e ciò garantisce minor tempo di procedura, minor esposizione radiologica, miglior risultato. Questo pero’ e’ possibile quando l’anatomia lo consente, perché nella coronaria deve passare un filo guida + palloncino + stent, che per quanto abbiano diametri bassi, hanno un loro profilo e una loro rigidità. Allora, se l’anatomia delle coronarie ha delle curve dolci, non tortuose e non calcifiche, è facile far passare lo stent; ma se ci sono diramazioni ad angolo acuto, può essere difficoltoso portare lo stent. Perché lo stent è una maglia traforata, e non può essere un tubo continuo?

Perché quando noi mettiamo lo stent, ormai usiamo stent di 10 mm/30 mm in una coronaria, il percorso è molto lungo, e ci sono delle diramazioni che si potrebbero chiudere se lo stent fosse pieno. Se noi avessimo un tubo pieno, chiuderemmo noi quelle diramazioni, invece avendo quelle fessure, manteniamo pervie le comunicazioni fra le collaterali. Ecco allora che se si forma una stenosi perché una parte della maglia metallica copre la parete, siamo in grado di rientrare con il filo guida attraverso la maglia dello stent, posizionarlo dentro al vaso periferico, e dilatare la maglia dello stent per permettere la pervietà del vaso collaterale. Soprattutto se e’ un vaso collaterale importante, se sono vasi piccolini e lo stelt si perde, ha poca importanza.

Questo grossomodo e’ la procedura di angioplastica, lo scopo è di ripristinare un flusso e di annullare la malattia senza un intervento chirurgico. L’alternativa è fare il bypass a cuore aperto.

Il palloncino si gonfia a varie pressioni, dipende dalla consistenza della stenosi; il valore medio è di 6 atm., e più in alto andiamo, più corriamo il rischio di fare una dissecazione. Dobbiamo ottenere un risultato a prezzo di qualcosa.

Abbiamo diversi tipi di stent: li possiamo avere liberi e siamo noi che lo mettiamo sul palloncino, facciamo l’angioplastica solo col palloncino, vediamo che il risultato non va bene, prendiamo lo stent e lo attacchiamo sul palloncino tenendo conto dei due marker che sono molto utili anche per posizionare lo stent (raramente gli stent sono radio opachi ). Si prende questa protesina, si passa sul palloncino e la si schiaccia contro di esso. Bisogna stare attenti che sia ben piantato, altrimenti lo possiamo perdere nel viaggio, si può staccare la protesi, proprio perché la coronaria non è sempre liscia e dritta (quasi mai) ma e’ un tubo storto. Inoltre il fissaggio dello stent deve essere fatto bene e senza scalini, perché potrebbero farlo fermare o perderlo. Se si perde uno stent può andare nel cervello, e cerchiamo allora di portarlo in periferia.

Prima erano tutti stent da fissare, adesso la maggior parte degli stent sono forniti dalle ditte già crimpati??? sul palloncino a caldo, quasi fusi con esso. E con dei sistemi di protezione che dovrebbero impedire lo sfilamento dello stent, ma non e’ detto che sia così perché dipende dall’anatomia delle coronarie.

Questo grossomodo è quello che si fa nel laboratorio di emodinamica.

I vantaggi di una riperfusione meccanica, rispetto a una riperfusione farmacologica sono enormi, soprattutto in acuto, perché i pazienti trattati con angioplastica hanno sicuramente un guadagno in termini di meccanica ventricolare, cioè si salva una maggiore quantità di cuore, hanno minori episodi di angina, minor bisogno di essere rivascolarizzati. La trombolisi invece è una procedura di riperfusione di tipo farmacologico. L’angioplastica è una procedura di riperfusione di tipo meccanico non chirurgico, poi c’è la riperfusione meccanica chirurgica, che è il bypass.

L’obiettivo è sempre lo stesso: ripristinare il flusso in una coronaria perché il cuore o la zona di cuore priva di flusso muore e la situazione è prognosticamente sfavorevole per la vita del paziente. Quindi l’obiettivo è sempre quello, i mezzi per farlo sono differenti, una di questi è l’angioplastica.

 

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