v Il predominio austriaco
² Avvenimenti politici e militari in Italia dal
1713 al 1748
Con la pace di Utrecht l'Austria aveva sostituito la Spagna
quale potenza dominante in Italia, assicurandosi il Milanese, la Sardegna, il
Napoletano e lo Stato dei Presidi, mentre Vittorio Amedeo II di Savoia, che
aveva mirato alla conquista del Milanese, dovette accontentarsi del Monferrato
e della Sicilia col titolo di re. Un estremo tentativo di ripresa da parte
spagnola si ebbe dopo il matrimonio di Filippo V con Elisabetta Farnese, nipote
del duca di Parma. Artefice del matrimonio era stato Giulio Alberoni,
diplomatico dei Farnese alla corte spagnola; divenuto in seguito cardinale,
egli fu il rappresentante delle aspirazioni di rivincita della Spagna,
rinfocolate dal desiderio di Elisabetta di trovare in Italia un'eredità ai
propri figli, esclusi dalla successione al trono dai figli di primo letto di
Filippo V. Contro la Spagna si formò presto una coalizione
anglo-franco-olandese, a cui si aggiunse, dopo la pace di Passarowitz (1718),
anche l'imperatore Carlo VI (Quadruplice alleanza). Nel 1717 l'Alberoni aveva
fatto occupare la Sicilia e la Sardegna; ma i Franco-Inglesi attaccarono
l'Impero coloniale spagnolo, mentre la flotta spagnola era distrutta a capo
Pachino (capo Passero) [1718] da quella britannica e l'Austria riconquistava
Sicilia e Sardegna. Costretto ad allontanare l'Alberoni nel 1719, Filippo V
firmò l'anno successivo la pace dell'Aia, con cui ottenne, quale re di Spagna,
il riconoscimento (fino allora negato) da parte dell'imperatore; ma dovette
restituire la Sicilia, che Vittorio Amedeo II scambiò con la Sardegna,
cedendola all'Austria (v. COCKPIT [trattato di]); a Carlo, figlio di Elisabetta, fu
promessa la successione di Parma e di Toscana, con la sua rinuncia ai diritti
al trono spagnolo.
Con la guerra di Successione polacca (1733-1738) l'Italia
tornò a essere teatro delle operazioni di guerra: le truppe della Francia e del
regno di Sardegna, alleati con la Spagna, occuparono la Lombardia, Parma e
Guastalla, mentre Carlo occupava il regno di Napoli. La pace di Vienna (1738),
segnò un'ulteriore modificazione della situazione dinastica in Italia: le
condizioni di pace prevedevano il riconoscimento di Federico Augusto III quale
re di Polonia e l'indennizzo del candidato francese, Stanislao Leszczynski, con
la Lorena, che veniva con ciò sottratta a Francesco Stefano, marito di Maria
Teresa d'Absburgo; a questi venne perciò data la Toscana, dove l'ultimo dei
Medici, Gian Gastone, era morto (1737) senza discendenti; Carlo di Borbone,
figlio di Elisabetta, era riconosciuto sovrano di Napoli col nome di Carlo VII,
mentre l'Austria annetteva al Milanese Parma e Piacenza dove la dinastia dei
Farnese si era estinta nel 1731. Il re di Sardegna, Carlo Emanuele III, otteneva
poi l'annessione delle Langhe, di Tortona e di Novara, modesti compensi in
cambio della Lombardia promessagli da Francia e Spagna. Nonostante le sue
aspirazioni sul Milanese, Carlo Emanuele III, nel corso della guerra di
Successione austriaca che si aprì di lì a poco (1740), si schierò con l'Austria
per il timore di un'egemonia borbonica nella penisola. Nel corso del conflitto
il re di Napoli stroncò un tentativo austriaco di riconquistare il Mezzogiorno
(battaglia di Velletri, 1744); successivamente gli Austro-Sardi occuparono
Genova, alleata ai Franco- Spagnoli, ma ne vennero cacciati da un'insurrezione
popolare (che sarebbe stata iniziata, secondo la tradizione, da Balilla, nel
dicembre 1746). Fallì di conseguenza anche il tentativo di invadere la Provenza;
ma l'anno seguente l'attacco francese al Piemonte, nell'intento di invaderlo,
fu fermato da Carlo Emanuele III con la battaglia dell'Assietta. Con la pace di
Aquisgrana (1748), la situazione subiva nuove, anche se lievi, variazioni: i
Savoia ottenevano Vigevano, l'Oltrepò pavese e l'alto Novarese; Parma e
Piacenza passavano al figlio minore di Elisabetta Farnese, don Filippo di
Borbone. Tale assetto territoriale e dinastico doveva rimanere immutato per il
resto del secolo, fino alle guerre della Rivoluzione francese, e la penisola
restò sostanzialmente estranea anche al grande perturbamento della guerra dei
Sette anni (1756- 1763): nel corso di questa Carlo VII di Napoli scambiò il
trono con quello di Spagna, assumendo il nome di Carlo III (1759). Il solo
spostamento territoriale di rilievo riguardò la Corsica, ceduta nel 1768 alla
Francia dalla repubblica di Genova, incapace di sostenere più a lungo la
situazione di rivolta endemica in cui l'isola versava; anche la Francia dovette
imporsi con la forza delle armi contro Pasquale Paoli (1769, battaglia di
Pontenuovo).
² Economia e società nell'Italia
del Settecento
A partire dalla pace di Aquisgrana (1748) l'Italia godette,
fino all'aprirsi delle guerre della Rivoluzione francese, di un assetto
territoriale stabile, dovuto soprattutto alla formazione dell'alleanza franco-absburgica
(sorta dal “rovesciamento delle alleanze” avvenuto con la guerra dei Sette
anni, 1756-1763), che eliminava le occasioni di attrito fra le due potenze
maggiormente interessate alla situazione della penisola. Le guerre della prima
metà del Settecento avevano del resto avuto conseguenze in buona parte positive
per l'Italia, sostituendo a quella della Spagna l'egemonia dell'Austria, i cui
possessi diretti si limitavano però alla Lombardia. Tanto gli Austriaci a
Milano, quanto i Lorena insediatisi in Toscana nel 1737 e le nuove dinastie
borboniche nel Mezzogiorno e a Parma si mostrarono solleciti, in misura più o
meno ampia, nei confronti delle esigenze dei nuovi possedimenti. La Lombardia
austriaca (comprendente le odierne province di Milano, Como, Varese, Cremona
senza Crema, possesso veneziano, Mantova e Pavia senza l'Oltrepò) ricevette un
notevole impulso dal riformismo absburgico e fu, con la Toscana, quello tra gli
Stati italiani in cui fu maggiore l'efficacia del movimento illuministico e in cui
i processi di trasformazione economica a cui era avviata la penisola si
manifestarono nei loro aspetti più positivi. L'aumento dei prezzi, soprattutto
del grano, caratteristico dell'economia europea a partire dal XVI sec., aveva spinto infatti le classi
dominanti a investire nelle terre i propri capitali; ma solo nel XVIII sec. venne iniziato un processo diretto
a modificare i rapporti di produzione e a ottenere un più alto rendimento;
contemporaneamente, a seguito anche del grave declino del ruolo esercitato nel
commercio internazionale dalle città italiane, gli Stati regionali subivano una
trasformazione della loro struttura, che riduceva fortemente il peso
predominante esercitato dalle città capitali nei confronti della campagna;
stimolati dalla crescente richiesta di derrate agricole si formavano così
mercati interni, più vasti, il che portava i ceti dirigenti a un interessamento
sempre più attivo verso l'agricoltura, allo studio dei problemi tecnici e a
spingere in direzione dell'abolizione dei provvedimenti annonari e della
libertà del commercio dei cereali. In Lombardia queste trasformazioni ebbero il
loro fondamento nel nuovo “censimento generale” (il catasto iniziato da Carlo
VI nel 1718, ripreso nel 1749 sotto la direzione di Pompeo Neri e compiuto nel
1759), che contribuì a limitare le sperequazioni tributarie e a stimolare
l'ammodernamento delle colture; il miglioramento delle vie di comunicazione (la
strada del Brennero e quella dell'Abetone, rispondenti anche a necessità
strategiche) diede grande impulso alla libertà del commercio dei cereali
(concessa nel 1776; nel 1786 la liberalizzazione fu estesa all'esportazione.
dallo Stato dei cereali stessi). Queste riforme favorirono la formazione di una
proprietà borghese libera e facilmente commerciabile, mentre le grandi
proprietà ecclesiastiche e nobiliari, private delle antiche immunità, erano
spesso cedute in conduzione a grandi affittuari borghesi forniti di cospicui
capitali (specie nella regione della “bassa”). Nel campo industriale, sotto la
spinta della concorrenza straniera, che aveva gettato in una crisi gravissima
l'industria laniera, si ebbe il sorgere di imprese, spesso protette dal
governo, a carattere industriale capitalistico per la tessitura della lana, del
cotone e di sete speciali. La politica riformatrice austriaca investì anche il
settore ecclesiastico, con la limitazione del numero dei conventi e della
manomorta, l'abolizione dell'Inquisizione e del diritto d'asilo,
l'assoggettamento degli ecclesiastici ai tribunali laici, ecc. Milano, che nel
1790 contava 131.000 ab. contro i 114.000 del 1714, era centro di una vivace
attività illuministica; all'opera riformatrice collaborarono elementi lombardi,
come il Verri e il Beccaria, e di altre regioni, come il toscano P. Neri e
l'istriano G. R. Carli; gli illuministi condussero anche una più vasta opera di
rinnovamento culturale, attraverso Il Caffè (1764-1766) e le numerose
opere di economia, finanza, storia, scienze naturali di cui arricchirono la
cultura italiana; né vanno dimenticati i fermenti dei gruppi giansenisti,
riuniti a Pavia attorno a Pietro Tamburini e Giuseppe Zola, che concorsero alle
profonde e vaste riforme giurisdizionaliste dei sovrani absburgici, Maria
Teresa e Giuseppe II. Tale collaborazione, frutto di una coincidenza di
interessi tra la Corona e la nuova borghesia o l'aristocrazia imborghesita,
venne però a esaurirsi rapidamente dopo il 1790. Già con Giuseppe II il
riformismo absburgico aveva assunto caratteri sempre più centralisti e
burocratici; alla sua morte, il contraccolpo della Rivoluzione francese e il
contrasto con le aspirazioni di autogoverno locale fecero sì che la
collaborazione si spezzasse.
I fenomeni e le trasformazioni che avevano avuto luogo
nella Lombardia si ripeterono d'altra parte, se pure in forme meno accentuate e
meno positive, anche nelle altre regioni italiane, giungendo parimenti a una
crisi negli anni attorno al 1790. Lo Stato sabaudo era diviso in due parti ben
distinte: il Piemonte, per quanto più arretrato sul piano economico e sociale della
Lombardia, conobbe sotto Vittorio Amedeo II (regnante fino al 1730) un'energica
azione per limitare i privilegi feudali ed ecclesiastici; con Carlo Emanuele
III (1730-1773) e Vittorio Amedeo III (1773-1796) gli aspetti burocratici e
accentratori si accentuarono, il clima culturale si fece più chiuso, tanto che
numerosi illuministi e uomini di cultura (A. Radicati di Passerano, Carlo
Denina, Giuseppe Baretti, Vittorio Alfieri) finirono con l'emigrare;
sopravvisse una corrente di cultura legata alle tradizioni del paese che
accoglieva alcune esigenze illuministiche, riunita attorno a G. B. L. Bogino
(C. A. Galeani Napione e Prospero Balbo). Profondamente diversa la Sardegna,
poco popolata e con un'economia basata essenzialmente sulla pastorizia e
l'agricoltura estensiva, che conobbe però, per breve tempo, l'opera
riformatrice del Bogino (1749-1773). La repubblica di Venezia, la cui economia
si basava nei domini di terraferma su un'agricoltura meno progredita di quella
lombarda (anche per le difficoltà tecniche che s'opponevano alle bonifiche),
era governata da un patriziato che si disinteressava sostanzialmente della
conduzione delle sue terre; né d'altra parte Venezia, che aveva cessato di
essere un grande emporio internazionale, accennava ad aprirsi al commercio
agricolo regionale (come avveniva invece per Milano), ma manteneva intatte le
strutture tradizionali dello Stato cittadino, riservandosi i privilegi politici
ed economici; non mancavano tendenze innovatrici (le Accademie agrarie diffuse
dopo il 1768), ma esse non incidevano sulla struttura sociale, che rimaneva
statica. Ciononostante assunse nuovo sviluppo la coltura del gelso e del baco
da seta (come avveniva in genere per tutta l'alta Italia), si estesero alcune
industrie (fabbriche di telerie di lino e cotone nel Friuli, a Tolmezzo,
Cividale, Schio), mentre a Bergamo e a Brescia assunsero rilievo
rispettivamente l'industria serica e quella delle armi. La repubblica di
Genova, che conservò carattere cittadino e oligarchico, conobbe una reviviscenza
dell'attività creditizia con la guerra di Successione austriaca; ma con questo
si legò fortemente agli Stati europei, ai cui investimenti pubblici i banchieri
genovesi si rivolgevano, cosicché il crollo dell'Ancien régime segnò una
crisi irrimediabile per l'antica Repubblica. Si diffusero, al di fuori del ceto
dominante, fermenti e idee nuove, che portarono la borghesia mercantile ed
elementi della nobiltà ad aspirare alla partecipazione al governo, mentre
gruppi del clero erano influenzati dalle dottrine gianseniste (Degola) e
propugnavano una riforma morale e organizzativa della Chiesa. I ducati di Parma
e di Modena risentirono fortemente del peso delle influenze straniere, a cui
dovevano peraltro la loro esistenza, anche nella politica interna, su cui incise
in maniera determinante la volontà dei principi, soprattutto perché la loro
limitata dimensione ne sottolineava il carattere patrimoniale e di proprietà
principesca. Le risorse economiche continuarono a fondarsi sull'agricoltura e
sull'allevamento (bovini e suini), mentre l'industria rimaneva a livello
artigianale, legata, nelle città capitali, alle richieste della corte. Nel
ducato di Parma e Piacenza (ingrandito poi del ducato di Guastalla) emerse la
figura del du Tillot, ministro con Filippo di Borbone (1748-1765) e durante la
minorità di Ferdinando (1765-1802): du Tillot promosse una legislazione
giurisdizionalista (fu abolita l'Inquisizione), ridusse la proprietà
ecclesiastica mediante la restrizione della manomorta, favorì il propagarsi di
una cultura illuministica (a Parma venne il Condillac, e molti Francesi
insegnarono all'università di Parma e al collegio Alberoni di Piacenza); dopo
il suo licenziamento (1771), però, l'attività riformatrice, non sostenuta da
forze locali, si arrestò e nel 1786 fu ristabilita l'Inquisizione. A Modena le
riforme di Francesco III (1737-1780) [che visse a lungo in Lombardia come
governatore] furono più limitate, e sboccarono in provvedimenti finanziari e
nell'emanazione del nuovo codice civile (1771). Il granducato di Toscana
(comprendente tutta la regione, salvo la repubblica oligarchica di Lucca, i
principati di Piombino e di Massa e Carrara e lo Stato dei Presidi) fu, dopo la
Lombardia, lo Stato italiano che maggiormente godette dei benefici del
dispotismo illuminato: sotto Francesco II (1737-1765) esso venne governato
prevalentemente dal consiglio di reggenza e fu strettamente legato all'Austria;
con Pietro Leopoldo (1765-1790) le riforme già iniziate vennero portate avanti
con grande energia. Tra il 1757 e il 1775 fu attuata la libertà di commercio
per i cereali, e nel 1783 vennero soppressi tutti i dazi interni e fu istituita
una tariffa unica ai confini dello Stato; fu favorita la libera commerciabilità
dei beni immobili e si tentò di creare, accanto a quello largamente prevalente
dei mezzadri, un ceto di piccoli proprietari o possessori contadini, alienando
o concedendo a livello i beni ducali, quelli dell'ordine di Santo
Stefano e di enti privilegiati; nel 1774 si procedette a un rinnovamento del
sistema delle amministrazioni locali (riforma comunitativa), basato su una
certa autonomia municipale. In campo ecclesiastico l'opera di Pietro Leopoldo
si indirizzò verso una riforma della Chiesa, che fu appoggiata dal clero
giansenista, capeggiato dal vescovo Scipione de' Ricci; ma la sua azione si
scontrò con la decisa opposizione della maggioranza del clero. Appoggiato da
valenti collaboratori (P. Neri e B. Tanucci), formatisi per lo più
all'università di Pisa, il granduca giunse a far elaborare da F. M. Gianni (1781)
un progetto che avrebbe dovuto trasformare lo Stato in una sorta di monarchia
costituzionale temperata; ma il tentativo rimase inattuato per l'assenteismo
dei grandi proprietari chiamati a collaborare col sovrano; tuttavia la cultura
toscana, imbevuta di influenze francesi (l'Enciclopedia fu stampata a
Lucca nel 1758 e a Livorno nel 1770), fornì ottimi funzionari al governo (S. A.
Bandini, A. Tavanti, F. Paoletti, ecc.) ed ebbe in G. M. Lampredi un insigne
giurista. Lo Stato Pontificio risentì in modo assai limitato del clima
illuministico: nel Lazio, scarsamente popolato da contadini immiseriti,
predominava la grande proprietà assenteista, che affidava la conduzione delle
sue tenute al ceto borghese dei “mercanti di campagna”, che praticavano
l'allevamento brado e l'agricoltura estensiva; le condizioni dell'Umbria, delle
Marche e delle Legazioni (nella cui agricoltura prevaleva la mezzadria), per
quanto meno infelici, erano anch'esse caratterizzate da un sostanziale
immobilismo. Roma era una capitale a carattere cosmopolitico, in cui risiedeva
l'aristocrazia laica ed ecclesiastica (grandi famiglie di origine feudale,
Colonna, Orsini, Caetani, o famiglie di papi e cardinali dei secc. XVI-XVIII, Borghese, Barberini, Chigi, ecc.);
essa rifletteva l'arretratezza del territorio circostante e della classe
politica che la dominava. All'interno del ceto di governo si riscontravano
fluttuazioni frequenti, legate al rapido succedersi dei papi, senza che però vi
fossero cambiamenti sociali di fondo: il sistema assolutistico aveva portato al
concentramento del potere nelle mani della nobiltà, che dominava anche la vita
economica e finanziaria. Nella seconda metà del secolo, tuttavia, il movimento
innovatore toccò anche gli Stati della Chiesa: Pio VI promosse la bonifica
delle Paludi pontine, che andò però in parte fallita soprattutto perché non si
accompagnò a un'opera di colonizzazione; nel 1777 fu iniziato il nuovo catasto,
che naufragò per l'opposizione dei grandi proprietari.
Il regno di Napoli e il regno di Sicilia, indipendenti e
uniti sotto lo stesso sovrano dal 1734, conservavano forti differenze tra la
parte insulare e quella continentale. Nel Napoletano la situazione era
caratterizzata dal tentativo, operato sia dalla potente feudalità baronale sia
dai primi nuclei di una nuova borghesia terriera, di impadronirsi dei demani
universali (delle comunità); ne nasceva una lotta tra le comunità contadine, la
feudalità baronale, minacciata dall'aumento costante dei prezzi, e la nuova
borghesia: i tre elementi erano in contrasto reciproco, ma la lotta si
risolveva di fatto in un tentativo della borghesia, appoggiata in questo dal
potere statale, di limitare giuridicamente le prerogative feudali; mancava
invece uno stimolo al miglioramento della produzione e delle condizioni dei
contadini, ridotti in generale in uno stato di estrema miseria. In questo
contesto si inseriva una forte tendenza giurisdizionalista: l'anticurialismo
napoletano, che trovava una spinta nel fatto che il papa considerava il regno
ancora come un feudo e concedeva frequentemente a stranieri i benefici
ecclesiastici, ebbe appoggi tanto presso la feudalità quanto presso la
borghesia; esso, forte fin dai tempi del viceregno austriaco, si sviluppò con
Carlo VII di Borbone (1734-1759) e ancor più sotto Ferdinando IV (1759-1825),
fino al licenziamento del ministro B. Tanucci (1777); col concordato del 1741
l'immunità fiscale dei beni ecclesiastici fu limitata e venne abolita
l'Inquisizione; nel 1788 infine fu abolito l'omaggio feudale dei re di Napoli
alla Santa Sede (la chinea). L'Illuminismo napoletano, benché qualitativamente
molto elevato (A. Genovesi, F. Galiani, G. Filangieri, G. Palmieri, M. Pagano,
M. Delfico), ottenne risultati pratici ben minori che quello toscano o
lombardo, e la sua collaborazione fu attiva soprattutto prima che su Ferdinando
IV prevalessero le influenze della regina Maria Carolina e di lord Acton.
Le condizioni della Sicilia (in cui sussisteva ancora
l'antico parlamento) risentivano fortemente del predominio assoluto esercitato
dalla nobiltà, che dai viceré spagnoli era stata rafforzata con appoggi e
privilegi d'ogni genere; anche la Sicilia conobbe tuttavia una certa attività
riformatrice, soprattutto dopo l'arrivo (1781) del viceré marchese Domenico
Caracciolo, deciso sostenitore delle idee illuministiche. (Fu appunto lui,
qualche anno dopo, a far abolire l'omaggio della chinea.)
La situazione economico-sociale dell'Italia settecentesca
alla vigilia della Rivoluzione francese era quindi largamente caratterizzata
dalla presenza di una borghesia dedita all'attività agraria e mercantile,
interessata a favorire una politica riformatrice antifeudale; il contrasto tra
nobiltà e borghesia d'altra parte era nella penisola assai meno violento che
altrove, in quanto entrambe le classi traevano i loro proventi soprattutto
dalla proprietà terriera; sia l'una sia l'altra erano però favorevoli alla
lotta antiecclesiastica, per poter così approfittare dei beni della Chiesa.
Tuttavia, nonostante questa atmosfera favorevole a un'opera di rinnovamento economico-politico,
sia pur condizionata alla situazione particolare dei vari Stati, l'Italia della
fine del Settecento era travagliata da un'acuta crisi sociale, rappresentata in
particolare dalla crescente miseria delle popolazioni contadine, su cui si innestava
la crisi della politica riformatrice, che nasceva dal contrasto tra
l'autoritarismo dei sovrani e la debolezza delle forze innovatrici; inoltre
quasi tutti gli Stati italiani si trovavano in difficoltà finanziarie. Su
questa situazione doveva influire potentemente la Rivoluzione francese, le cui
idee trovavano un terreno particolarmente adatto nei gruppi più vivi dei ceti
intellettuali italiani, specie tra i più giovani, che dall'Illuminismo avevano
ricevuto un'educazione ispirata alle idee di libertà e di uguaglianza, di
sovranità popolare e dei diritti dell'uomo.