Raccontar(si)  4 -   Prato, Villa Fiorelli, 28 agosto-4 settembre 2004

 

Raccontar(si) 3

Laboratorio di mediazione interculturale
 
sul tema

“Genere, diversità, culture”

 

Nel profondo dell'inverno     imprigionata  dentro          la terra imprigionata     ci fu un salto una sfida     a ogni legge eterna     a ogni costante.

Sotto la terra gelata     avvenne come uno spacco di volontà interiore una torsione dal sentiero tracciato

un improvviso scoppio     per cause ignote.

E poi in primavera      si aprì:     giallo limone

in un campo rosso schietto.

 

 

 

Le nostre parole negano la semplice bellezza

l'energia selvaggia dell'evento. Anomalo

deviante   mutante   ci insegnano sempre

come se questo mondo   fosse un luogo compiuto

e noi gli ottusi guardiani   delle sue perfette forme.

La nostra vita affonda radici in simili parole.

 

 

Irena Klepfisz

 

 

“Questo viaggio ci renderà più simili e più diversi, e la grande babele delle culture e dei linguaggi si trasformerà in un laboratorio collettivo di culture nuove, di nuovi linguaggi….

Ad una globalizzazione esclusivamente finanziaria

e devastante per il Sud del mondo opponiamo un’altra globalizzazione, fondata sullo sviluppo

 

delle potenzialità della specie umana.  E sul terreno complesso del multiculturalismo intendiamo sviluppare processi attivi di valorizzazione delle differenze, perché anche la diversità è un diritto di cittadinanza.”

 

Dal Secondo Manifesto di Porto Franco

 

Nei vocabolari italiani prevale --  per diversità --  l’accezione  relativa all’essere né uguale né simile, quindi il contrario dell’identico. Il problema del diverso risale al mondo antico con la distinzione fra civile (greco o romano) e barbaro. Nei significati più recenti, indica la condizione di chi è – o considera se stesso, o è considerato da altri – diverso, con riferimento agli handicappati, omosessuali, emarginati, ecc.  L’Altro, nella nostra cultura eurocentrica, è stato, di volta in volta, il primitivo, la donna, il pazzo, l’omosessuale, poi ora l’extracomunitario.   La logica del nemico e del capro espiatorio si traduce nell’esclusione – se non nella violenza – nei riguardi del diverso e dello straniero.

La diversità sembra esistere in relazione a un termine rispetto al quale può essere misurata e definita. Il “diverso” diventa l’oggetto di chi definisce l’Altro. 

Nella tradizione e nella cultura patriarcale il maschile rivendica per sé il principio buono e attivo,  assegnando al  femminile una posizione di alterità assimilata al caos, alle tenebre e al male, togliendo alle donne lo spazio politico.  Questo rapporto tra maschile e femminile è solo uno delle possibili rappresentazioni io/altro.  Non solo l’altro è presente come ombra, altro, male all’interno del sé, ma assume le forme dell’estraneo e del colonizzabile. La filosofia moderna  teorizza un Soggetto egemone determinato/limitato non solo da un “Altro” a lui irriducibile, ma anche da molteplici diversità.  

La diversità sembra essere inseparabile dal concetto di differenza che ha avuto un’importanza fondamentale nel pensiero postmoderno.  All’interno di alcune correnti femministe, la differenza è stata usata per significare non solo, idealisticamente, il porsi come soggetto capace di trasformare il mondo, ma come  nuova strategia della soggettività, applicata sia ai rapporti tra donne sia alla politica.  Superate le dicotomie, emerge il valore dello spazio-tra, fatto di una molteplicità di differenze che possiamo rileggere come luogo della diversità, della differenziazione.  Nel pensiero postcoloniale, l’inafferrabile différance si manifesta anche in percorsi diasporici, disseminazione di identità, nuovi nazionalismi.  

            In tale cornice il riconoscimento delle diversità culturali si differenzia dalla nuova destra (Alain de Benoist, Marcello Veneziani).  Questa esalta le differenze fra culture nazionali in quanto sistemi chiusi, ontologicamente separati, che non intaccano la “purezza” di una tradizione, e non hanno l’utopia di una umanità libera da frontiere e confini. Il differenzialismo della nuova destra, nell’esaltare le diversità del mondo, accetta la realtà e aderisce allo stato di fatto senza ricercare né l’uguaglianza, perché appiattisce, né una società “multitradizionale”, perché è cosmopolita.   

Nella nostra accezione di diversità, invece, teorizziamo soggetti politici complessi, ma non per questo meno titolari di spazi, storia e  diritti umani. Nella diversità e nella complessità si radica il progetto di un mondo diverso dove le diversità si incontrano, oppongono, accordano e producono una im/prevedibile poetica della relazione tra multiversi culturali (Glissant). 

Accogliendo l’invito alla possibilità dell’astrazione, possiamo dire che siamo tutte uguali e tutte diverse.  Da una parte dobbiamo considerarci tutte “diverse” ed estranee a noi stesse, perché come dice Irena Klepfisz  non può esserci una norma che stabilisca la normalità.  D’altra parte va salvaguardata la diversità come diritto alla singolarità in una dimensione relazionale, specie nella fase odierna  di globalizzazione.  

Se ragioniamo in  termini di apertura del concetto di diversità, possiamo  parlare  di indifferenziazione, di monoculture della mente, di dis/identificazione del soggetto.  Secondo Serge Latouche, l’indifferenziazione degli esseri umani su scala planetaria è quasi la realizzazione del vecchio sogno dell’imperialismo coloniale. E secondo Vandana Shiva – dal suo punto di vista di uso della terra -- le monoculture della mente cancellano sia la percezione della (bio)diversità sia la diversità stessa. Da qui l’importanza di tenere in vita forme alternative di produzione, legate a saperi locali diversi.  La diversità è un’alternativa alla monocultura, all’uniformità, all’omologazione. 

Anche il Soggetto si costruisce attraverso narrazioni  che esplicitano la dinamica tra identità e diversità (Paul Ricoeur) secondo processi di dis/identificazione, come avevamo cercato di mostrare anche discutendo di scritture migranti a Raccontar(si) 2003 e nella nostra raccolta, Visioni in/sostenibili. In questo senso, il  “genere” diventa allora una figura di lettura nelle storie di donne e di uomini; prende forma nel loro personale nodo di esistenza tra tradizione, quotidiano e voglia di futuro, e nella narrazione della differenza dei corpi e delle pratiche sessuali, e della diversità delle culture. 

Nel mondo anglosassone fioriscono corsi sulla diversità, influenzati da due importanti innovazioni nel campo della pedagogia: l’enfasi accordata a forme di sapere “collegate” o “relazionali”; e l’enfasi sull’apprendimento non solo analitico ma “esperienziale”.  I corsi attingono a una decennale pratica femminista che riguarda l’autonarrazione, il concetto di pedagogia come incontro culturale, l’apprendimento attraverso il volontariato, e il coinvolgimento nell’ambito di comunità.  Le principali finalità di questi studi portano a riconoscere il ruolo della diversità nella vita civile e politica; a praticare la comunicazione interculturale e la risoluzione di problemi e conflitti; a sviluppare un’etica della responsabilità nella convivenza. 

Oltre a queste suggestioni, a noi interessano i passaggi dalla politica dell’identità a quella della protesta contro le discriminazioni, tesa alla ricerca di uguaglianza, di parità, di “valore comparato” (politiche del comparable worth). Vorremmo esplorare uno spazio reale e simbolico in cui essere insieme (inter-esse, come dice Hannah Arendt) per una politica altra.  Nella polis che immaginiamo, ci si incontra tra uguali, riconoscendo la propria diversità, e si dà vita a nuove cittadinanze che accettano il dis-ordine, sostituendo al concetto semplificato e cristallizzato di ordine un più complesso concetto dell’essere insieme nell’agire culturale e politico. 

Il concetto di  diversità va allargato alla diversità culturale in tutte le sue forme, tenendo indicativamente conto della mantra delle differenze di razza, classe, genere, età, preferenza sessuale, disabilità, religione, ecc. Questo si realizza nel nostro Laboratorio anche rispecchiandoci in storie di minoranze etniche e razziali, intrecciate con prospettive politiche, culturali, socio-economiche: leggere un testo senza conoscerne il contesto, avverte Gayatri Spivak, non suscita politica.

 

Il discorso  che abbiamo ora delineato ci suscita una serie di tematiche da indagare, di interrogativi da porre e da porci.  Eccone alcuni. 

Dobbiamo chiederci cosa opprime le donne in condizioni, luoghi e paesi diversi: come vivono? cosa vogliono? quali incroci esistono tra razza, classe, pratiche sessuali? che genere di relazione etica io, donna occidentale, stabilisco con la “subalterna”, la “diversa”, quella col velo…? cosa sto cercando nel corpo di questa figura? Sto ascoltando veramente o percepisco solo l’eco delle mie fantasie? quando coloro che risiedono nelle nazioni più ricche vogliono costruire un dialogo coi meno privilegiati, dobbiamo chiederci come può il Nord avvicinarsi al Sud? (Nirmal Nuwar)             

Esiste veramente una “sorellanza globale”, come ha sostenuto certo femminismo occidentale? è una questione di parità uomo-donna? o non è anche piuttosto una questione di parità locale-globale fra di noi? come abbiamo guadagnato le nostre 500 ghinee? (Spivak)

 

Multicultura, policultura, o intercultura?  Quali diversità, quali retoriche? Intercultura come comparazione? Quale differenza tra la comparazione letteraria & teorica, e il comparativismo impegnato, praticato, sul campo? 

Come capire e accogliere la diversità delle donne nelle loro culture di appartenenza, diversità che può non essere negoziabile, ma che non elude il pensare insieme inalienabili diritti  umani? 

Devenir femme….? Diventare nativa in un paese “altro”? Per Spivak significa sia entrare responsabilmente in una comunità di altri, sia adempiere al compito immaginativo di muoverci fuori da noi stesse con manovre sorprendenti e inaspettate dirette verso la collettività.  

In che modo noi Fiorelle ci sentiamo di appartenere a una “genealogia della globalizzazione”?


 

 

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