“Il grido del castello”

Racconto su Carlo Gesualdo di Gerardo PICARDO

E’ notte quando il freddo coglie Carlo sulle mura possenti della sua città irpina, tra montagne di promesse, che il verde custodisce e porta lontano, nel vento dei ricordi che gli trafiggono l’anima di chiodi e passioni da cui, solo per breve tempo, la musica lo salva, donandogli quella pace che brama con febbre acuta più della vita stessa. E’ solo il Principe. Solo con la notte, coi suoi pensieri malinconici che, come le sponde dell’Ade, gli invadono l’esile corpo, nato per le note di quei clavicembali e liuti che sono il suo tormento e la sua gioia. Guarda il cielo stellato, mentre alza il capo dubbioso, e il colletto bianco gli pende come zavorra per quell’infinito volo della fantasia che gli percorre le vene, gli stana i sentimenti, le inconfessabili passioni che vorrebbe lanciare al fitto bosco che mira da lontano. Vede le case della sua gente, dei suoi contadini, l’ultima preghiera dei conventi da lui fondati e ai quali ha assicurato pane e fuoco per l’inverno incipiente. E’ autunno sul grande castello di Gesualdo; le foglie gialle, portate dal vento, compongono nell’aria una sinfonia leggera che gli rapisce i sensi, mentre gli occhi luccicano lontani pensando all’unica vera donna che ha sempre amato, Maria, la sua sposa che oggi l’accompagna dalle ombre, e gli fa ricercare quel sottile spazio dell’anima per cui solo una notte parla alle porte di un uomo, e un mendicante non oserebbe bussare per pietà della sua afflizione. Sono muti i portoni notturni della strade, e le grandi fontane di pietra massiccia bogiardata che dalla piazza illuminano il contado di fresche armonie per la promessa del nuovo giorno, per il velluto dei contadini che guardano incuriositi quel mecenate malinconico e misterioso, che consuma il suo tempo fra tenebre e passioni, preghiere e lacrime, componimenti e colloqui pieni d’umanità con gli amici di sempre: il Tasso, pochi servi fedeli, le forti cavalcate fino a Calitri, alle colline di Ariano, giù poi per Taurasi, dove solo il vino di una terra fiera gli serba premura e scende nelle viscere come le speranze della fede. Solo con la notte, solo col buio, Carlo è fermo a pensare. Il suo cuore va ai tendaggi di una casa napoletana dove la sua Maria, bella come il sole, percorre nelle risate di gioia i corridoi consumati di serenità, vede la frutta fresca nelle guantiere d’argento, il suono della musica dolce, il sorriso tenero e pietoso dei vecchi mendicanti che affollano il portone all’ora del desco, sicuri del pane del Principe buono. Tace Carlo, assorto in cupi pensieri, freddi come la notte che taglia il velluto dei suoi abiti, abbandonati al destino. Può un Principe invidiare la sorte dell’ultimo dei suoi servi, il calore del suo focolare affumato, le languide, frugali gioie di donne del popolo che di notte diventano amanti di uomini nati per portare la soma? No, non è invidia quella che lo assale. Ha un sapore strano, amaramente ricco di evocazioni, di rimandi ad altro, di segni imperscrutabili da un estraneo. E’ nostalgia, una lama sottile che taglia la carne, e impedisce il respiro e costringe al silenzio, alla fuga della mente verso altri ricordi che si fermino ad un tempo che non porti dolore. La pietra delle torri gli fa compagnia, possente silenzio di costruzioni perdute e ora adoperate come bastioni di un castello che più che difendersi vuole incontrare, aprire le porte, danzare con la vita e mischiarsi all’erba, al grano, al muschio del fiume vicino dove l’acqua che scorre sorniona è segno di una stagione che è signora anche dei dolori e trascinerà forse a valle i detriti di un cuore che non trova requie. Quelle mura normanne lo ascoltano e comprendono, testimoni mute di uno strazio che non ha confini. - «Perché tu notte, avida e possente mi spregi l’anima ritirando l’esile gioia nel cuore stanco di lotte e di corse? Dove abita la Verità, nei roghi atroci di ciò che ci portiamo dentro, tra le fascine del dubbio e i legami spinati del rimorso che consuma le ossa di struggimento e cala sempre amarezza su ogni cosa bella della nostra esistenza? Può una persona che ha sbagliato, o notte mia, essere perdonato dall’Altissimo fattore di ogni astro, dal vero Compositore di ogni nota che empie l’universo? Può trovare consolazione chi ha peccato contro la Vita tanto da toglierla a colei che amo e da condannarsi così a un supplizio che nullo homo avrebbe preferito vivere scegliendo mille volte lugubri amplessi con putrefatti cadaveri? Dove è il tuo termine o notte? E Isaia, quel saggio ebreo, non grida forse di una sentinella che conta la notte, contro le tue mura piene d’odio? Cos’è l’errore se non il cuore che ci rimprovera di non aver amato ciò che abbiamo creduto giusto?». Nulla rispose la notte all’insonne Carlo e alle sue domande. Le fontane sembravano quasi tacere al pianto del madrigalista, che consumava infreddolito un tempo di sfingea certezza e di ineguagliabile dolore. Eppure lui, il vecchio Principe, il compositore dolce di pentagrammi di preghiera a tutto un Paradiso convocato nelle scale del castello, non teme di guardare l’ultimo fuoco che brilla nelle campagne, verso il convento dei cappuccini. Gli occhi percorrono una distanza che misura il dolore lungo la strada e si fa polvere, vento, roccia che forte riempie lo spazio e bussa e buca la vecchia pietra dei portali e le scope di saggina lasciate sull’uscio, accanto ai dolori della povera gente. E come ogni notte insonne, il buon vecchio servo sale le scale, reca un mantello, invita il Principe ad entrare nel castello, in quella stanza color del cielo dove riposano le corde dei suoi strumenti e la carta piena di note sa di inchiostro che stenta a seguire il genio della composizione, e sbava per qualcosa di più che non riesce ad afferrare, a registrare e che rimane come un fuoco di brace nel cuore di Carlo, un demonio che aspetta le tenebre per colpire ancora, per uscire e rigare la storia. «Principe, benedetto Iddio. La notte già ha lottato col sole. E’ tempo di portare almeno il corpo innanzi al fuoco. E’ tempo di vino, mio signore, non di ricordi». «Vecchio amico, come puoi capire le mie cicatrici sparse nell’anima, sanguinolente di dubbi che nulla può risanare? Come vorrei abbracciare il Cardinale mio Zio, e rivelargli questa tempesta che spazza la mia mente, il fuoco che divora le mie pupille in attesa di un balsamo che il cielo stenta a donarmi? No, vecchio mio, neanche il fuoco della tua legna amorosa può recare risposta al mio squarciare il buio con dardi di domande che non raggiungono il bersaglio. E la mia mira è stanca di fendere il buio. Le fiammelle del tuo prezioso fuoco non farebbero altro che portarmi ancora più dolore e lontano volgerebbero i miei ricordi, al fianco di colei che in quella dannata notte io ho venduto all’onore, alla stupida legge di quegli uomini che nei salotti amano pavoneggiarsi di aver affondato una lama al collo di sangue innocente. Lasciami solo con i miei pensieri, ti prego…». La mano del Principe fa cenno al servo di allontanarsi. Trema Carlo, anche dinanzi agli occhi di compassione del vecchio attendente. Mentre il vecchio a malincuore, fa risuonare i suoi passi prudenti sugli scalini di marmo, Carlo lo raggiunge, ormai rauco: «Prega per me il tuo Dio, perché ascolti il dolore di questa notte, delle mie mille notti di domande e mandi un angelo a parlarmi di Maria che fu ed è la mia passione e la mia luce. E all’alba chiamami i frati cappuccini. Quei santi padri sono pietosi con la mia anima. Voglio donare loro il mio tormento, per tutti i secoli, finché ritornerà Iddio. Sarà una pala d’altare e parlerà della mia storia…». «Sarà fatto mio signore. Che Iddio vi doni pace!» «Anche a te la notte sia lieve e propizia di nuova umanità, vecchio e saggio amico. Le tue parole sono così cariche di affetto per me che se la vita non mi avesse dato questo temperamento schivo e malinconico, ti avrei abbracciato come si fa con i pari in dignità di spirito. E tu lo sei, credimi, vecchio balsamo per le mie ossa consunte». Il servo si allontana, e con lui gli ultimi bagliori di pensieri affettuosi di cera raccolti per Carlo. E torna il silenzio sulla pietra, un silenzio senza uguali. Il mattino lo coglie così, con ali di vento a sussurrargli motivi, a fargli credere di non pensare al cancro che lo divora, all’immoto tarlo che gli rode le viscere. Va allora col braccio teso alla tomba di pietra della sua d’Avalos. Ha conosciuto altre donne da allora, senza approfittare di alcuna. In ognuna di esse ha rivisto un tratto di quella bellezza che un giorno non seppe vivere a causa dell’ombratile desiderio di isolarsi con i suoi madrigali. Sta progettando un’altra opera da giorni. Vuole si chiami “assassinio a cinque voci” e vuole consegnarla al dio assente che invoca con tutte le fibre del suo essere. E’ per il Dio della croce questo canto di resurrezione dalle proprie miserie, per il figlio Emanuele, il frugoletto biondo che giocava sulle ginocchia materne, bello come i d’Avalos, ed altrettanto fiero. Ora è lontano da lui e il padre non può neanche consolarsi con il presagio di una sua venuta. Sono muti anche gli aruspici a Gesualdo. Da lungo tempo. E quelli che ci sono, sembrano rabdomanti incollati alle pietre del cimitero, per scorgere nell’immota apatia, un istante di verità che illumini a fiaccola il nuovo giorno dei campi. Si rianima la corte con mille premure e segreti, le faccende dei cortigiani, il risveglio del circolo di musici e poeti che occupano l’affollato castello di sapienza umana e vera, di note che dicano l’assurdo e l’Eterno nel cuore degli uomini. Gli occhi di Carlo, gonfi dall’insonne veglia, incontrano gli astanti. - «Buon giorno amici. Che il cielo vi dia pace». - «Salute a te grande Principe. I cavalli già fremono nella stalla e i tuoi falconi sono desti per la caccia. Già ansimano i cani pensando agli arbusti e alla selvaggina da stanare in fretta. Ordina ai tuoi servi di preparare il tuo destriero». «La caccia, sì. E’ vero. Stanare una preda e rincorrerla e dargli fiato da correre. Forse è questo ciò che può portare lontano i miei pensieri e avvicinarli a quella gioia che ho sempre rincorso, e infuturarmi nell’ultimo giorno con brividi di sudore, a vergare una schiena che volle troncare un amore e non le chiacchiere dei gesuiti che mi avevano abbindolato. Sellate il mio cavallo. Che si parta subito. Cerchiamo il vento, amici, facciamo correre i cavalli fino alla bava, su per le coste di Villamagna e Santo Angelo, scendiamo alla Mefite, perché respiri la morte che mi accompagna sempre con braccia ossute e irragionevoli, beviamo alla Locanda del Passatore a Torella e poi… poi ce lo dirà la strada… Un uomo che corre è già un uomo che vive. E vivere significa spesso smettere di ricordare, di alzare sacelli eterni nel proprio intimo ai grandi errori che ne hanno segnato il cammino e che ci spingono come Sisifo a rotolare massi di illusione per stornare il contatto con ciò che abbiamo perso e che non ci cammina più accanto». Suona la tromba nel castello, all’alba. Le voci dei cavalieri echeggiano nell’atrio dove il grande pozzo stilizzato raccoglie storie e dolori con la certezza antica dell’acqua che scorre. Il miele delle serve rallegra gli astanti per un giorno di velluto che corra più forte degli zoccoli sulle strade di pietra. Nel bosco, Carlo si ferma ad una stele posta accanto al fiume, una vecchia lapide di marmo che dice impietosa: “Custodisci il fuoco che c’è in te”. Quante volte queste parole ritornano alla mente del Principe, lo fanno andare agli anni trascorsi, alla sua giovinezza, gli rammentano Venosa e Ferrara, le corti e gli uomini incontrati, gli suggeriscono melodie che vorrebbe dettare, più che comporre, richieste di misericordia ad anime pazienti di domenicani e cappuccini che raccolgono nell’incenso i segreti degli uomini e le loro ansie, per i graffi del tempo sulle anime pure. Ma è solo una sosta, dovuta ai ricordi. Subito si balza in groppa ai cavalli e si corre, lasciandosi dietro il tempo e la vecchia insegna dell’ora che scorre, verso la cattura dei pini, dei cipressi, delle nocciole, dei vigneti di Taurasi che si alzano al sole strappando raggi per frutti di passione. E’ mezzogiorno quando giungono trafelati alla Locanda del Cigno, da dove odori di uccelletti alla fiamma riscaldano il ventre di avventori e mercanti di vita e di morte. La bella taverniera, Argenta, cura gli ospiti con accoglienza benedettina, premurosa e geniale, a seconda dei caratteri. Si sente la dea di quei boschi di passaggio, una sosta obbligata, come una strada per uomini in cerca di scudi e avventure. I suoi tavoli di legno hanno ascoltato più storie di una cattedrale, ma lei ha fatto il callo ai racconti, al diluirsi della vita su schiene di contadini, stanchi di terra. Tavoli densi d’artigli i suoi, con al centro un grande camino che campeggiava la stanza e tiene al caldo uomini e cose dalla minaccia del gelo e della nebbia, che non di rado avvolge quelle terre col sapore del rischio. «Il mio Principe - gridò vedendo Carlo- ora sì che posso sfrenarmi a preparare piatti degni di un re!» «Sei sempre ammaliatrice e dolce, Argenta, e i boschi non hanno consumato il rosso delle tue gote né la tua sapienza, che nasce dalla strada. Tu sai, come ogni donna, quando è tempo di trattenere e di lasciare andare. Dote preziosa, amica mia». «Io conosco solo il bene che tutto il contado vi riserva illustre Principe, e la vostra bontà non manca di seminare speranza. Siamo abituati a vedere re e governatori solo per una notte, e poi ci lasciano al freddo, nelle mani di gente che avendo un po’ di potere, spadroneggia sul gregge come un salice che tiene strette ma raccoglie il dolore delle piante». «Per Dio, Argenta. Mi toccherà farti incoronare!». Grosse risate echeggiano nella locanda di legno, custodite dalle calde movenze di Argenta, che prepara lini e tovaglie bianche per il desco del principe. Poi, quando il Signore è a tavola, la buona donna evita di illuminargli il volto con il braccio di candele. Sa che preferisce l’ombra il suo Principe, e da lì ama vedere gli altri contenti. In ogni taverna c’è il suo menestrello, un vecchio cencioso che suona il clavicembalo e sputa sentenze su quegli uomini di passaggio nella storia. - «Cantaci qualcosa vecchio, aggiunse la comitiva. Qualcosa di vero però. Siamo stanchi delle macine di pietra sul grano fresco!». - «Cantarvi qualcosa, - rispose il menestrello -, come se la vita, rozzi bifolchi, fosse davvero una canzone da organetto da ascoltare col vino, in compagnia degli amici. La vita è altro, è la gioia di un focolare che raccoglie le sere e le domande, è l’abbraccio di una donna. Gioie minute rispetto ai vostri sogni di gloria, ma importanti. Vi canterò la canzone del cercatore. Possa esservi d’aiuto, figli perduti!». Le dita scorsero lo strumento con sapienza consumata, con parole che sapevano d’antico. Il cantastorie mise in scena la vicenda di Argippo, un contadino del luogo. Carlo stava in silenzio, con la sua truppa, ad ascoltare. Il vecchio allora suonò dicendo: “Quando si ha una storia come questa, occorre che facciate del vostro cuore una cesta, per pensare a ciò che resta,/un legno che raccolga sangue e sudore e scacciare il tarlo del buonumore./Tacete amici e ascoltate, questo buon vecchio frate,/ che dirada le ombre del camino, camminando a voi sempre vicino./ Argippo era un uomo di altri tempi, che volle vivere sapendosi grande,/ che studiò coi preti e coi lampi, indossò tre tuniche e poi si fece fante./ Parlava da dio e dal cuore, e fu sempre d’umanità signore./ S’avversò alfine col potere avito, che intender non volea ciò che è partito,/e riprese la strada del faggio, per contare con la sua terra il moggio./ Incontrò persone e cose, di tutti gli amori vogliose e pensose/ e al fin della sua ricerca trovò un portone, dove c’era scritto “hai vissuto da sciattone”./ Smise quei panni e si diede al bosco/ I suoi amici a dirgli “non ti conosco”./ Fende ora con spade l’aria rifritta, di chi pensa a lui con mano dritta./ Incontrò una donna e le disse del suo cuore/ La lasciò vegliare sul suo insonne amore./Asciugò il pianto e fu contento, la vita in fondo è sosta di un tormento./Si ubriacò con lo sciocco, e rise dello stolto./Piantò grano e raccolse pietre./Poi, ricordò una Croce di alla fine dei suoi giorni”. - «Maledetto vecchio gridò la banda. E’ così che allevi il cuore di chi pranza?». Allora Argenta, dalle cucine fumanti, scoppiò a ridere: «L’asino vecchio vuol morire dal suo padrone. Questo Argippo scoprì troppo tardi quanto è bella la sera. E non vi fece ritorno». Carlo aveva ascoltato in silenzio pensoso le note del cantastorie. Quante volte le avrà ripetute? Quale era il messaggio che non si comprende tra il vino e l’agnello? Forse quelle parole avevano bisogno di altra luce e chiese al vecchio si seguirlo al maniero di Gesualdo. «Maestà, rispose il vecchio, le mura del Vostro castello sono lontane da me come il mare per queste terre. Sono nato coi boschi, e non mi dispiacerà troppo morire nella sera d’inverno, con la neve che ricopre le storie sulla verde distesa in attesa di speranza. Solo per pochi attimi il destino mi fa incontrare gli uomini, ma il ricordo delle mie parole forse sopravviverà agli eventi e di me si narrerà come dell’uomo che lottò con l’angelo, nella notte che porta la febbre all’anca. Non ci sono erbe per il cuore, mio Principe, c’è solo ortica e gramigna, accanto alle nocciole. La questione è prendere queste e lasciare le prime. Ma è difficile notare le differenze». - «Diavolo d’un menestrello aggiunse lo scudiero. Ora fai anche il filosofo dei poveri…». - «No buon signore. Il mio è solo un racconto che si perde col vino, l’attimo di una sera di ricordi. Non abbiate a temerne. Ecco, altra legna la bella Argenta aggiunge alla cenere, e di quella nessuno più si ricorda. Che la notte che avanza non vi sia grave Amici». Carlo si alzò di scatto, abbracciò l’uomo, poi si diresse alla porta dove la fredda aria dell’incipiente sera stava entrando nella mente del principe come annuncio di altre storie che il tempo portava col respiro del vento. La comitiva lo raggiunse, dopo aver dato a turno un buffetto al vecchio e poggiato sulle curve umide di Argenta un contatto di carne che sapeva di saluto fugace e di promessa di ritorno. Alcuni scudi volarono sulla tavola, mentre altri riempirono la sdrucita pelle di cuoio del menestrello, che quella sera aveva suonato per i signori. Il ritorno al castello fu sommesso. Carlo pensava alle sue musiche, qualcuno della sua compagnia rimpiangeva Argenta e le sue grazie di donna, sognandone l’intimità ad altri, presti passaggi. Dinanzi alla porta del maniero avito, un frate attendeva il Principe. «Maestà, è accaduta una grave disgrazia, disse il monaco rattoppato di marrone. Il figlio del mugnaio, il vostro angelo biondo, è caduto da un albero e ora la madre lo veglia con candele e preghiere». Il volto di Carlo si oscurò. Un altro dolore gli bussava nell’anima. Corse alle casine di pietra sotto il castello, e vi trovò la Morte. Pianse allora Carlo, pianse della miseria dei suoi sudditi, della loro vita semplice. Si ricordò di una lettura dal greco che diceva come la morte non sia altro che un servo sciocco che corre al mercato a fare la spesa, e compra la cosa che costa di meno e che si trova con più facilità. Alzò il corpicino del bimbo e sentì la musica scoppiargli nelle vene del dolore, come un canto che nessun orecchio avrebbe potuto ascoltare ma solo quel Dio assente che già aveva pianto per suo Figlio sul Golgota di Gerusalemme. Diede ordine di far pulire il corpo del morticino e di farlo vegliare. Commissionò messe in suffragio e convocò monaci d’ogni convento perché l’aiutassero a passare il confine. Indi, stremato, tornò mesto al castello e si buttò sul letto a catafalco, avvolto nel tormentato mantello. Fu la pietà del sonno che allora l’avvinse. Un sonno non umano, un appello della sua mente a dimenticare tutto, a lasciar passare solo una notte sulle sue carni stanche di contare avversità. La vita che non fa sconti a nessuno quella sera aveva preso tra le mani il suo giovane amico e lo portava al freddo di una pietra che sentiva ora la sua lacerazione e gridava il perché della sua storia. Una serva mise fine all’agonia delle candele nella stanza del Principe e scese la notte sul castello, una quiete di chi beve fino alla fine, per stordirsi e pregare con gli occhi. La visita del Tasso, la mattina, portò al Principe l’amore dei suoi amici ed il loro conforto che sapeva d’umano silenzio. Carlo era già rapito dalle sue note e visioni quando la madre del fanciullo salì al castello per portargli un pugno di terra e del grano in un vaso di terracotta. Era il ricordo del figlio che avrebbe vegliato sulla vita del Principe dei Musici. Lo lasciò nell’atrio, consegnandolo alle serve perché lo donassero al Principe che, malinconico e tristo, alla finestra cercava nel paesaggio la voce del piccolo che ricordava con note di morte bagnate di pietà sui fogli consunti della sua camera. Si ricordò di Protagora, per il quale era peccato calpestare una piantina di fave. E di nuovo si abbandonò al pianto. Altri giorni trascorsero senza la caccia. Carlo riempiva la sua attesa di silenzio e preghiera. L’accesso alla sua stanza era consentito solo al frate della misericordia che gli parlava del dolore di Dio per Adamo, della sapienza perduta, di quella vita senza il sudore della ricerca affannosa di un pezzo di pane. La vita riprese a Gesualdo. Riprende sempre in quei luoghi dove solo la pietra sembra ricordare le ali di vite spezzate sul crinale dei pozzi. Ritornò il mercato e le sue grida, i carri del grano e dell’olio che portavano notizie di altri luoghi dove la vita non scorreva meno diversamente. La Verità, nelle stradine del Principe si perde col tempo, si ode negli intrecci di paglia, nel lavoro dei campi e dei fabbri, soprattutto nella voglia degli scalpellini di lasciare un sentiero, un’orma profonda di vita, ché parli alla neve. La pietra è il segreto di questa terra e sulla pietra parla la musica di Carlo, le sue armonie quasi divine, i suoi slanci impietosi per orecchi poco avvezzi, le sue infinite scale di passione e visioni che rendono le scene di un’avventura interiore che anela ad un porto sicuro, senza trovarlo. Tra i procellosi venti del cuore di Carlo, abita il ricordo e l’attesa, la smania del nuovo, la febbre lacerante dell’interrogazione inesausta di cose ed eventi, la consumata Bibbia, che nei Salmi gli offre consolazione e attenua il respiro, ansimante, di strette dell’anima. Solo un Dio che passa nell’attimo, un ultimo Dio, potrà dargli risposta al momento della morte, agognato incontro di uno spirito imprigionato nei vincoli terreni che non ne hanno frenato la grandezza del sentire. Cade la scena sul vecchio Principe, sui suoi dolci e struggenti ricordi, e il suo maniero è testimone unico di musiche non ancora scritte, quelle note della sua verità, dei suoi colloqui intimi con la Vita, alla quale si arrischiò a donare un cuore di uomo. C’è solo il vento ora a fargli compagnia, quel vento forte che soffia a Gesualdo come in tutta l’Irpinia, terra di passioni e tramonti, e si imprime sulla pietra di troppi ricordi, senza spazzarli. Vento pietoso e bugiardo, che sembra portare lontano e invece chiama e stringe i petti per avventure ancora non consumate, mentre suona la vecchia campana del Rosario e dei suoi frati, che, soli, possono avvertire il grido, silenzioso, del castello in agonia, mentre scendono, nella legna dei possenti camini, altre storie, lacerate nella pietra, che vanno in fumo portando verità alle sere.

 

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A cura dell'ing. Zarrella Michele
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