QUEL GIORNO DI OTTOBRE ...

di GIUSEPPE d'ERRICO

Gesualdo, sabato 10 ottobre dell'anno di grazia 1914.

Il sole inonda di luce gli scalini della chiesa di S. Antonino martire e ne vena di ombre tremolanti le sconnessure polverose.

Gli scalini formano come un piedistallo su cui sembra ritrarsi il portone di legno corroso dal tempo. La strada che scorre davanti la chiesa è grigia di pietre minute. Se vi passa un carro, le si sente scricchiolare sotto le ruote come se si macinassero.

Sull'ultimo scalino, quello più vicino al portone, è seduta una bimba, in questo pomeriggio di ottobre dell'anno 1914. La veste lunga sin quasi ai piedi, un po' sbiadita e spiegazzata, sfiora gli stivaletti dai bottoni lucidi ma scoloriti. Giuseppina si chiama la bambina. Abita poco lontano, in una casa posta quasi dirimpetto alla chiesa. Giuseppina è molto triste, oggi. Le scuole si sono riaperte da poco e ci vogliono anche i quaderni per andarci. Donna Rosaria, la signora maestra, lo ripete tutti i santi giorni; ma Antonio, il pad re di Giuseppina, ripete egli pure sempre la stessa storia: che un quaderno solo basta, che ci sono tanti fogli in un quaderno che hai voglia a scrivere numeri e parole, temi, esercizi e problemi: tutto, insomma, anche i disegni ci puoi fare. E poi, un quaderno costa, anche un solo quaderno, e chi te li da i soldi? Dio solo sa quanti sacrifici ci vogliono, di questi tempi, per guadagnarsi un soldo. E ce ne vogliono di soldi per mangiare, per vestirsi, per dormire, per nascere e per morire a questo mondo.

Ma Giuseppina farebbe volentieri a meno anche di mangiare, non vuole vestiti nuovi, di tutto si accontenta, non chiede mai niente. I quaderni si, però - le ha detto dopo pranzo mamma Angiolina a cui li aveva chiesti ancora una volta; ed ha aggiunto con un sospiro: "figlia mia, pure con i quaderni bisogna arrangiarsi".

- Ma come faccio ad arrangiarmi? Li invento io i quaderni? Eh? - ha ribattuto Giuseppina, rossa in viso per la collera, ed ha pestato coi piedi il pavimento.

- Brutta screanzata! le ha detto allora la mamma; - Che ci vai a fare a scuola se non vi impari l'educazione ed il rispetto per i genitori? - E poi, come parlando tra sé, ha soggiunto: - Gesù, non ci sono i soldi per i quaderni e questa non lo vuole capire. Gesù , Giuseppe e Maria, siate la salvezza dell'anima mia! Che cosa bisogna sopportare di questi tempi... Se non ci sono i soldi...

Giuseppina è corsa via piangendo, per non sentirla ancora predicare, e si è seduta sui gradini della chiesa, che non vuole vedere e sentire nessuno.Lo sa che forse i quaderni li avrò, magari dopo che avrò pianto ancora e si sarò disperata. E' una storia, questa, che si ripete sempre, ogni volta che un quaderno è stato usato fino all'ultimo rigo. E lei vi scrive sempre con accortezza, badando bene a non sprecare spazio con macchie o correzioni.

Questa volta, però , ha pianto più di tutte le altre volte ed è tanto triste. Domani è domenica, non si va a scuola, quante cose potrebbe scrivere, e invece non potrò continuare neppure il tema giò iniziato.

- Bastano du e pagine! - le hanno detto in casa. - Quanto lo devi fare lungo questo discorso? Uno si stanca pure a leggere, poi...

Ma Giuseppina sa che non bastano due pagine per scrivere tutto quello che ha in cuore, i tanti pensieri che le passano per la testa.

- Voi non mi capite! Nessuna mi capisce! Me ne vado da Armida! - ha strillato, ed è corsa via, invece, sugli scalini della chiesa.

Ora è sola, rannicchiata come una poverella nell'angolo che fa lo stipite del muro con la porta.

Il sole, nonostante giò volga al tramonto, pure la fascia di un tepore soave. Giuseppina china il capo sulle braccia incrociate sui ginocchi e sogna di essere sdraiata su di un morbido divano, per riposarsi, come fa la sua amica Armida che di divani ne ha tre, di colori diversi, in tre d iverse stanze.

Ad Armida non mancano mai i quaderni, ma non sa cosa scriverci. A volte Giuseppina ha avuto dei fogli da lei, in cambio di pensieri. - Ma come fai a pensare tanto? - le ha chiesto stamattina l'amica; ed ha aggiunto: - Beata te! -

- Si, proprio beata! - pensa Giuseppina; a che le servono i pensieri se non può scriverli? Non li conoscerò mai nessuno i suoi pensieri. Le passano per il capo, vengono e vanno via. Nessuno li ferma, come le rondini che in questi giorni passati hanno lasciato il nido e non sanno se lo ritroveranno mai quando torneranno a primavera. Sarebbe bello essere come le rondini: un frullo d'ali e via! Per l'immenso cielo! Chissò se le rondini parlano tra loro e se, a modo loro, scrivono nel vento le loro storie. Storie d'azzurro, come il cielo, e di aria serena.

A vederlo dall'alto il mondo, come fanno le rondini, quanto dev'essere più bello! I campi arati di fresco, scuri e fumanti; i casolari sparsi, dai tetti rossastri; i valloni e, laggiù in fondo, i ruscelli tremolanti di a cque tra l'ombria dei rami e il verde dell'erba.

Essere come una rondine e volar via, lontano: ecco quello che Giuseppina chiederebbe ad una fata, se le fate esistessero. Forse, invece, esistono solo gli orchi cattivi. Su questa terra ci accade più spesso di piangere che di ridere; e colui a cui tocca oggi in sorte di ridere, non vuole veder piangere. Ma perché non ci amiamo di più, noi uomini, tutti quanti insieme? Ognuno pensa a se stesso, invece, soltanto a se stesso. Solamente Dio pensa a tutti; ma Egli sta in Cielo.

Certo, "queste cose non bisogna neppure pensarle", direbbe don Attilio; "Gesù è sempre con noi, soprattutto con i più infelici, con chi piange, con chi soffre". Giuseppina lo sa, ed è confusa per aver pensato diversamente, sia pure solo per un attimo. Ma don Attilio, i quaderni lui ce li ha, quanti ne vuole. E può pure sporcarli, stracciarli, spezzarli, proprio come lei fa ora con quei pochi fili d'erba nati tra le fessure degli scalini e di cui forse nessuno si è mai accorto, che nessuno ha mai seminato perché non portano frutti, ed anzi bisogna estirparli perché non danneggino i muri e, se sono in un campo seminato, non soffochino il grano che cresce. Sono figli di nessuno e tutti possono schiacciarli, strapparli, farli a pezzi, senza riceve re rimproveri. "I fili d'erba sono come me", pensa Giuseppina; "ma non hanno bisogno di quaderni. E' questa l'unica differenza..."

A questo punto, però , sorride di se stessa e stende la mano a carezzare quei pochi steli che le sono davanti ai piedi. Pensa: "Sono come me, sono miei fratelli". E li sente, sotto le dita, fragili e vellutati. \par - Che fai? Cerchi le formiche?

A queste parole Giuseppina leva il capo e scorge vicino a lei don Attilio che ha le mani nelle tasche della tonaca e stenta a trovarvi la chiave per aprire il portone della chiesa.

Lo sguardo della bimba scende dal volto del prete sino ai lembi estremi dei pantaloni che esce al di sotto della tonaca, sino alle sue scarpe, lucide e grandi come due barchette verniciate da poco, come sono disegnate nel libro di lettura.

- Chissà mai perché i preti vestono da uomini e da donne contemporaneamente -, si chiede; ma non sa trovare risposta. Del resto una risposta non la chiederebbe a nessuno, perché sarebbe sconveniente. Di queste cose una bambina non deve parlare. Perci ò lei le pensa soltanto. Don Attilio è un prete buono e timido, un po' impacciato nel camminare, che sembra una chioccia sazia che si muove sull'aia. E' signorile nel portamento e dal sorriso mite, ma che pure tradisce a tratti una diver tita astuzia, sulle labbra esangui. Dietro gli occhiali di tartaruga socchiude sovente gli occhi come per vedere meglio o, forse, per cogliere il segreto piacere della luce che è un dono meraviglioso di Dio. Allora il viso gli si rischiara tutto di una co mpiaciuta letizia. Ha una voce tremula, don Attilio, una voce che tende al falsetto, come se stesse sempre sul punto di cominciare a cantare, come fa sull'altare, la domenica, nella messa solenne delle undici.

Ora le sorride, indulgente ed ammiccante al tempo stesso, come sa fare lui, alzando i sopraccigli e corrugando la fronte, tra l'innocente e il furbesco.

- " Adesso comincia a far fresco. Il sole sta per tramontare. Tua madre farebbe cattivi pensieri per te se tu tardassi a tornare. Va, va a casa. Fa la brava bambina".

E poiché Giuseppina non si muove ma china il capo accigliata, aggiunge: - "Il buon Dio non ama i figli che fanno i monelli e non obbediscono ai genitori".

- "Ma il buon Dio ama i genitori che non comprano i quaderni ai loro figli? - " sca tta su a dire Giuseppina; e la sua voce tradisce una collera che è diventata ormai stizza e stanchezza insieme. Don Attilio sorride:

- "Tutto qua? Ti sei arrabbiata per i quaderni? Li avrai; ma non devi sciuparli, però".

- "Io non li ho mai sciupati. Ma se ci scrivo sopra, si consumano; che ci posso fare?"

- "Ho capito tutto, Giuseppina. Parlerò io ad Antonio, a tuo padre. Tutto si aggiusterò, vedrai. Tu sei brava a scuola, e i quaderni li meriti ".

A sentirsi dire "brava", Giuseppina arrossisce tutta e sor ride. Si leva lentamente in piedi e rimane appoggiata allo stipite del portone.

Don Attilio ha finalmente trovato quella benedetta chiave e si accinge ad aprire.

- "Prima di andare a casa, però , posso entrare in Chiesa con voi?" - chiede Giuseppina.

- "Certo, entra pure, ma non ti trattenere troppo. Tua madre, a non vederti rincasare, farebbe cattivi pensieri, giò te l'ho detto".

Giuseppina fa cenno di si col capo. Entrano.

Nella penombra dorata dell'ultimo pomeriggio la chiesa sembra invasa da un polverio luminoso che sfuma i contorni delle nicchie, delle statue, delle pareti, intessendo trine di ombre e di splendori smorenti in chete soavitò di riflessi e di echi.

La vita del paese, le voci della strada giungono ovattate come se provenissero da un altro mondo e da altri tempi, l'uno e gli altri passati ma non morti.

A Giuseppina la chiesa ha fatto sempre questo effetto, che in essa le sembra di rinascere, di essere una innocente creatura che si abbandona alla pace del Cielo e non ha più niente da temere e forse anche da ricordare.

La chiesa è la casa del Signore, e poiché il Signore sta in Paradiso, la chiesa è giò Paradiso. E in Paradiso non c'è bisogno di quaderni o, forse, ce ne sono tanti che non è necessario nemmeno chiederli, basta tendere la mano e pr enderne quanti se ne vuole. In chiesa, però, qua sulla terra, anche in chiesa, non ce ne sono, si dice Giuseppina, e sospira.

Don Attilio si è recato in sacrestia; se ne ode lo stropiccio dei piedi. Mette in ordine tutto quanto è necessario per la funzione di stasera, pensa Giuseppina, ed anche per domani che è domenica, il giorno del Signore.

Ad un tratto le campane si destano improvvise e cantano felici come se giò fosse l'alba; ma esse l'annunziano e questo forse è anche più bello.

Giuseppina si desta dal lieve abbandono in cui si sentiva sommersa e del quale era felice.

- Andiamo, ora - si dice, ed esce lentamente, volgendo di tratto in tratto il capo a guardare il Crocifisso grande che sta sull'altare. Un ultimo raggio di sole Lo illumina dall'alto. A Giuseppina sembra che Gesù le sorrida. Sorride lei pure ed esce. Scende gli scalini, attraversa la strada.

Giovanni stutalanterne passa fischiettando, con in mano la pertica che gli serve pure da bastone; ma le lanterne a petrolio le accende, ora, non le st uta. Brillano in alto, oscillanti alla catena che le lega ai bracci di ferro infissi nei muri delle case, e sembrerebbero doversi spegnere alla prima folata di vento; ma questo non accade quasi mai.

Com'è felice Giovanni per ogni lampada che accende! E tut ti quelli che lo incontrano o che lo vedono, lo salutano. Sono voci ora stanche ora soddisfatte, ora tristi ora felici; ma a tutte egli risponde con tono ilare e scanzonato, come si usa con amici che si ha sempre piacere di rivedere.

I bambini lo seguono in frotta fino a che le mamme, affacciate sugli usci, li richiamano ad alta voce.

- "Pasqual\'ec! Carmel\'ec! Peppiniè! Presto, a casa!

- "No, non voglio venire...

- Adesso vengo, ancora un poco...

- Se ti prendo...

- Non mi fare arrabbiare...

A questi dialoghi altri se ne intrecciano, a voce più bassa, tra le vicine di casa che si attardano a scambiarsi le ultime notizie e confidenze, ad augurarsi la buona sera.

E' un dolce vociare, amico, familiare. Tutto il paese è una sola famiglia.

Queste voci sembrano a Giuseppina una canzone dolce di paese e di amore. Alza il capo. In cielo si è accesa la prima stella, ed una falce di luna si disegna evanescente, senza splendori. Le manda un bacio col pensiero. Poi affretta il passo. Casa sua non è lontana. Vi arriva in un attimo. Ne spinge l'uscio. Vi entra.

 

RICORDANDO E RIFLETTENDO

Nella tua vita, hai mai avuto momenti di tristezza in cui ti sei sentito solo ed incompreso? Prova a ricordare e narrare.

Come si offre ai tuoi occhi, in una serata di ottobre o comunque di au tunno, il tuo paese o la tua cittò o il tuo quartiere?

Descrivilo e cerca di coglierne gli aspetti più segreti e sconosciuti, ricorrendo, se vuoi, anche al disegno.

Parla di qualche sacerdote che conosci, illustrandone l'aspetto fisico e le doti morali.

Quando entri in una chiesa, quali pensieri ti nascono in cuore o cosa vedi che interessa?

Parla di qualche personaggio tipico o caratteristico dei tuo paese o cittò o quartiere.

Giuseppe d' Errico .

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A cura dell'ing. Zarrella Michele