LA VIA PIU' BELLA

di GIUSEPPE d'ERRICO

Quando passavo lungo il tuo tracciato, o via amica che da Frigento meni a Gesualdo, seguendo un antico tratturo serpeggiante tra declivi rocciosi e verdi pianori, nell'aria che sapeva di cieli luminosi, si levavano le nostre voci di fanciulli innamorati della vita e ricchi solo di sogni. Si erano riaperte le scuole e noi alunni muovevamo ogni mattina da Gesualdo per frequentarle a Frigento. Scuole medie. 1944. Era d'autunno, di ottobre.

Affrontavamo a frotte, la via silente, vocianti, lieti ancora dell'estate il cui splendore durava nelle foglie fruscianti sui rami degli alberi sparsi alla campagna, ma con un brivido di pena ai primi soffi di un vento più nuovo e più fresco della brezza estiva. L'erba sui cigli era ancora ricca e vellutata nei tepori del meriggio, ma nelle luci del mattino ci appariva bagnata e come avvizzita.

Ti percorrevamo in salita, ma senza affanno, ed a tratti giocavamo ad inerpicarci tra i tuoi sassi come le greggi che i pastori guidavano al pascolo, guardandoci di lontano con un misto di invidia e di derisione. Eravamo per essi dei perditempo viziati e fortunati mangia a sbafo, cui era toccato in sorte di poter fare sempre festa. Perché era una festa fare lunghe passeggiate, ben vestiti, come a loro pareva, e con il solo peso dei libri. Ma noi non davamo loro retta e giocavamo ad inseguirci rossi in viso, e con i libri serrati negli zaini legati sulle spalle.

A tratti, con un frullo d'ali, uccelli si levavano in volo, leggeri, da nidi nascosti, e correvano via, sfrecciando sui campi dalle porche nerastre e fumanti al primo sole del mattino. Pure i nostri cuori erano leggeri nei loro voli segreti verso orizzonti lontani; ma lassù, in cima al colle dove piccole e bianche scorgevamo le case di Frigento, ci attendeva la scuola, e ... guai a giungervi con ritardo!

Affrontavamo perciò con rinnovata lena, anche se stanchi, le ultime salite, senza più indugiare improvvisando soste e giuochi, e varcavamo infine il portone della scuola. Al ritorno, sciamavamo per la discesa, impazienti di giungere a casa dove ci attendeva il pranzo che ritenevamo di aver meritato stando a scuola.

Poi venivano le prime piogge d'autunno. Il cielo cinerino volgeva ad orizzonti indefiniti nelle nebbie sottili che li velavano, a tratti celandoli, a tratti facendoli intravedere in una loro sempre nuova e remota lontananza.

Avevamo aperti gli ombrelli ed eravamo destri nel volgerli contro le folate improvvise del vento che ci bagnava i cappotti, i mantelli, le sciarpe, e quasi ci abbracciava in un suo giuoco monello ed estroso. Se poi qualche ombrello si rovesciava o si rompeva, l'incauto o lo sfortunato levava la sua voce a maledire il tempo maligno. Noi compagni ridevamo delle sue parole, ma non lo lasciavamo solo, e lo accoglievamo con noi.

In due, sotto un solo ombrello, ci pareva di avere sul capo una capannina leggera sul cui tetto trasparente di tela le gocce schizzavano liete, prima di scorrere vie serpeggiando lungo le stecche. Eravamo comunque felici perché un nonnulla ci bast ava a fugare le improvvise tristezze, e nella voce dei compagni vicini udivamo sempre un arcano messaggio di gioia e di speranza, quelle stesse che nutrivamo nel nostro cuore.. E veniva l'inverno. Ponevamo sempre più di frequente i piedi sui mucchi di foglie ingiallite macerantisi nella fanghiglia che ti ricopriva, o via antica e amica.

L'argilla bagnata ci attanagliava le scarpe e quasi minacciava di togliercele dai piedi.\line Ci muovevamo a fatica e balzavamo di sasso in sasso, dove era possibile farlo, come p asserotti spauriti, per non sporcarci troppo, ma rischiando sempre di cadere ed inzaccherarci tutti. Preferivamo le giornate di neve. Le precedeva di solito una tramontana pungente che arrossava il volto, gelandoci il naso e le mani che non ricoprivamo coi guanti per poter meglio muovere le dita. Quando, però, non c'era la tormenta, la neve veniva giù lieve e fitta. La sentivamo amica.

Nell'aria umida il nostro alito disegnava bizzarre nuvolette di vapore che sparivano come per magia. Affondavamo i piedi e lasciavamo orme nerastre. Le nostre voci non avevano echi e si spegnevano ovattate nel silenzio ampio del sentiero.. La cima su cui si serra Frigento, non si scorgeva di lontano, e ci sembrava di venire camminando, senza un perché, verso un cielo sconosciuto e silenzioso.\line Pure, quando potevamo indugiare almeno un poco, giocavamo a palle di neve, ci rotolavamo nel candido, soffice tappeto che i fiocchi bianchi avevano formato, ci inseguivamo ridendo sulla giostra incantata della nostra fanciullezza serena.

Poi la neve gelava ed una lastra di ghiaccio copriva il sentiero nelle ultime salite verso la cima. Allora ci improvvisavamo scalatori, non sempre fortunati invero.

Ci succedeva, infatti, non di rado, di scivolare all'indietro e di dover ricominciare l'erta, stanchi e sudati, senza poterci concedere sosta. Ci sentivamo smarriti e talora disperati.. Ed era finalmente primavera. Ce ne accorgevamo dalle prime, timide mammole che scorgevamo sui cigli, o via amica, dalle prime gemme sui rami, dal misterioso fremito della terra: lo sentivamo scorrerci nel sangue con un segreto trasalimento di tutti i sensi, con improvvisi languori arrisi da uno struggente desiderio di dolci abbandoni, con un rinascere spontaneo di desideri sconosciuti e di speranze senza volto e senza mete.

Tornavano le rondini e s'inseguivano nel volo felici. Tornavamo noi pure a volare, ignari del nido e della sera.. Ci confessavamo sogni d'amore, come per giuoco, ed eravamo felici pur nella pena di una delusione o di un tradimento.

Aprile ci rideva in cuore ed eravamo signori del mondo.

Poi le giornate divenivano sempre più lunghe e luminose. A maggio non c'era più fango lungo la via, ma polvere ingrigiva i ciuffi d'erba vicini, velandone il verde splendente.

I rami degli alberi erano ricchi di fogli e e tra di esse occhieggiavano i frutti che al sole venivano maturando.. Non ci accorgevamo di essere cambiati né sentivamo che era passato per sempre un anno della nostra vita. Eravamo un po' tristi, però, al pensiero di doverci lasciare, ma non lo confess avamo nemmeno a noi stessi, e, per dimenticarlo o almeno fingere al cuore di esserci riusciti, pensavamo alle vacanze vicine, e fantasticavano su di esse, riprogrammandole di continuo e vivendole cos\'ec, senza accorgercene, prima ancora che arrivassero.

Alcuni di noi dovevano affrontare gli esami, per gli altri i risultati finali sarebbero stati resi noti tra poco. Ci sarebbe stato chi sarebbe dovuto tornare a settembre per gli esami di riparazione, e perciò , dopo una breve pausa, avrebbe dovuto continuare a studiare; ma pure chi fosse stato promosso, avrebbe studiato ugualmente per prepararsi meglio per il prossimo anno.. Il mare era lontano, quasi un miraggio, per noi che vivevamo sulle verdi colline d'Irpinia, mentre i monti erano lì, vicini, amici da sempre . Con loro avremmo continuato a vivere l'estate. Poi sarebbe tornato l'autunno, e con l'autunno, la scuola avrebbe riaperto i battenti. Alcuni di noi non si sarebbero più seduti in quelle aule, ma altri, nuovi, vi sarebbero venuti. E tutto sarebbe ricominciato.

Quanti anni sono passati da allora.

Tu pure, o via antica , sei cambiata. In qualche tratto sei quasi sparita, e solo il ricordo ti ridisegna e ti fa rivivere nel cuore.

Delle nostre voci di allora l'eco si è spento, ma nell'aria che sa di cielo ancora passa il vento.. Sulle ali del ricordo, a te io ritorno e ti ripercorro. Non sono solo. I compagni di allora, da lontano, essi pure ritornano e mi sono vicini.

Tante vie diverse nel mondo abbiamo percorso, da quei giorni passati, ma nel giuoco grande e misterioso della vita, tu sei rimasta la via più bella e più cara compagna della nostra fanciullezza, testimone di sogni e amarezze, confidente affettuosa delle nostre taciturne speranze.

Niente potrà cancellarti nel nostro cuore. Noi continuiamo a percorrerti come allora.

Sperimentiamo e viviamo così una nuova ingenua e felice eternità che sa di primavera...

Giuseppe d' Errico .

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A cura dell'ing. Zarrella Michele