IL GARZONE

di Giuseppe d'Errico

Antonio quasi non lo riconobbe quando don Filippo, accompagnato da don Felice, il suo avvocato, entrò nel salone dell'albergo in cui egli aveva accettato di riceverlo. Il fare altezzoso sino all'insolenza immotivata, aveva ceduto il posto ad una stanchezza opaca e sciatta, abulica e trasognata. Vestiva in modo dignitoso ma dimesso. I capelli erano diventati pochi e grigi; la fronte non ne risultava, però, più ampia e spaziosa ma restava bassa e sfuggente con rughe precoci che la segnavano di ombre. Le guance flaccide e giallognole erano coperte da un velo di barba biondiccia come i capelli. Sul panciotto spiccava ancora la catena d'oro dell'orologio, ma la pancia sporgente accresceva il senso di una obesa debolezza, quasi ostentata più che nascosta o combattuta. Solo gli occhi, di un azzurro chiaro d'acqua marina, erano rimasti gli stessi, segnati, però, da un velo di malinconia e di taciute delusioni.

- Eccoci qua! - disse don Felice, sorridente, tendendo la mano ad Antonio.

Antonio gliela strinse e, disinvolto, fece lo stesso con quella che don Filippo esitante gli porgeva. Li invitò poi a sedersi e chiese loro con garbo cosa gradissero dopo un viaggio così lungo. I due accettarono un caffè mentre si accomodavano su due poltroncine intorno ad un tavolo che era stato riservato per essi.

Dalla vetrata luminosa del salone si poteva ammirare un bel panorama: la vallata del Fredane con gli alberi in fiore il cui profumo saliva fin lassù, più in là la valle d' Ansanto con la mefite cantata da Virgilio nel VII libro dell' Eneide, il passo di Acerno che mena a Salerno, il monte Accellica dove nasce il fiume Calore e la sua valle con le ondeggianti colline coperte di grano che si innalzano su fino alla catena degli Appennini Picentini con la vetta del Terminio, il caratteristico Monte Tuoro a forma di parentesi graffa capovolta, il monte Partenio che ospita il santuario di Montevergine, il monte Taburno e tutti i paesi che si stagliano alla luce del sole Guardia Lombardi, Frigento, Sant' Angelo dei Lombardi, Villamaina, Torella dei Lombardi, Nusco, Cassano Irpino, Bagnoli Irpino, Montemarano, Castelvetere, Paternopoli, San Mango sul Calore, Taurasi, Lapio, Montemiletto, Montefusco, Sant' Angelo All' Esca, molti dei quali furono feudi del principe Carlo Gesualdo.

Don Filippo a sua volta veniva scrutando Antonio, e ciò che notava in lui gli accresceva dentro una stizza amara e dolorosa. Non mostrava di avere quarant'anni, sembrava più giovane, alto ed aitante com'era un giorno, con i capelli ricci di un nero corvino e quegli occhi scuri ed insolenti che, al solo vederli, un volta gli facevano prudere le mani.

Era stato suo garzone, Antonio, figlio naturale di una serva, di padre ignoto, anche se tutti in paese ne conoscevano il nome. Insomma, razza di servi, destinato egli pure a servire per tutta la vita; ed invece, eccolo qua, ricco e sicuro di , pronto a prendersi la rivincita sul suo antico padrone.

Don Felice, lungo la strada, non si era stancato di raccomandargli la prudenza, perché dei soldi americani di Antonio avevano assoluto bisogno, per salvare il salvabile di un patrimonio che un giorno sembrava eterno ed immenso e si era ridotto, invece, al lumicino nel volgere di pochi anni, per tutta una serie di speculazioni sbagliate e per tante spese folli e capricciose. Se non fosse stato proprio necessario, don Filippo non sarebbe mai venuto a Gesualdo per incontrarlo, Antonio; ma, tant'è, c'era dovuto venire; ora, però, lasciava che parlasse don Felice per lui.

E don Felice iniziò la conversazione ricordando l'amicizia antica, le vicende remote del paese, volti e storie conosciuti, e infine di come, dopo generazioni e generazioni di suoi antenati, che ne erano stati proprietari e fondatori, don Filippo avesse deciso di vendere l'antico pastificio, rinomato in tutto il circondario, perché le sue condizioni di salute non gli consentivano di attendervi più.

Don Felice iniziò subito dopo a narrare la storia ed i pregi del pastificio dilungandosi in mille particolari, come se Antonio, diventato ora don Antonio, non li conoscesse per avervi lavorato dall'età di sei anni e fino a quando ne aveva avuti quasi venti.

Antonio non diceva una parola e sembrava ascoltasse con grande attenzione. In verità, egli veniva ricordando gli anni lontani della sua fanciullezza, sua madre sempre stanca ma sorridente, dalle lunghe trecce nere fermate in cercine sul capo da forcine di metallo dorato, per poggiarvi su i grossi vasi di rame, con i quali trasportava al pastificio l'acqua dalla fontana comunale, ed i sacchi di farina dal mulino.

E vicino al volto di sua madre buon'anima, ecco il volto di lei, Luisa, la fanciulla esile e bionda, aristocratica e gentile, anche se povera come lui, che egli aveva tanto amato. E rivedeva quel giorno del mese di maggio di venti anni prima, lo riviveva, anzi, in ogni istante e ne soffriva oggi come allora, e forse oggi anche di più.

Luisa a tredici anni sembrava un angelo, delicata e fragile com'era. Addetta a stendere la pasta sui bastoni dell'asciugatoio, silenziosa e sorridente lavorava dalla mattina alla sera per portare la paga settimanale a sua madre vedova ed aiutarla così a dar da mangiare ai tre fratellini.

Luisa non si lamentava mai, eppure sì che doveva essere stanca, lavorando come tutti gli altri operai fino a sedici ore al giorno.

Egli aveva imparato ad amarla così, modesta e silenziosa nel suo vestitino un po' stinto e rammendato, e con gli zoccoletti di legno che solo lei sapeva far non risuonare pur muovendosi di continuo. Se ne era innamorato ma non glielo aveva detto, perché se ne vergognava: era povero lui pure e lei poi era tanto giovane ancora, quasi una bambina.

Ma di Luisa pure il figlio unico del padrone si era accorto e si interessava. Don Filippo era elegante e spavaldo. Quando entrava nel pastificio con il suo frustino, dopo aver lasciato il suo calesse personale davanti all'ingresso principale perché altri provvedessero poi a sistemarlo in un angolo del cortile o nelle stalle, sembrava un principe e tutti quelli su cui posava lo sguardo gli erano servi.

Antonio temeva che pure Luisa si invaghisse di lui; ma si accorse, invece, che lo temeva soltanto, forse più di quanto lo temessero tutti gli altri.

Quel giorno di marzo del 1908, di venti anni prima, Luisa attendeva al suo lavoro come al solito quando entrò don Filippo, più sicuro ed altezzoso che mai. Fece finta di interessarsi al lavoro e rimproverò qua e là qualcuno. Poi, passandole vicino, carezzò Luisa sui capelli. La fanciulla arrossì violentemente e si allontanò per prendere la pasta da stendere. Don Filippo invece non si allontanò dallo stenditoio e l'attese. Quando Luisa tornò, profittando del fatto che aveva le braccia cariche di pasta, tentò di abbracciarla. Luisa indietreggiò atterrita e volse in giro uno sguardo come a chiedere aiuto. Allora egli, Antonio, che non li perdeva di vista un momento, si avventò contro il padroncino, -gridandogli in volto: - Sei un porco, disgraziato!

Sì, aveva detto proprio così. Don Filippo l'aveva allora colpito sul volto con il frustino facendogli sanguinare il naso; ma avrebbe avuto la peggio perché Antonio era più alto e più forte di lui se gli altri lavoranti non li avessero divisi.

Luisa piangeva in un canto, ma nessuno dei presenti osò prenderne le difese perché un pezzo di pane essi non volevano perderlo.

E così nessuno si ribellò quando Antonio fu licenziato, senza dargli neppure un soldo e badando a ripetergli che ringraziasse Iddio perché non lo si faceva arrestare, e questo solo per quella povera donna di sua madre che, saputo l'accaduto, non faceva altro che piangere.

Egli, Antonio, se ne era andato perciò dal paese e aveva fatto lo sguattero, il cameriere, mille mestieri per pagarsi il biglietto per l'America. E giunto qua, vi aveva fatto fortuna.

Erano passati venti anni da allora e dai paesani che via via lo avevano raggiunto in America aveva appreso della morte di sua madre e di Luisa che s'era ammalata di tubercolosi e dopo pochi anni era morta essa pure; ma prima s'era sposata con Carlino, il ragazzo del bar, e ne aveva avuto un figlio che ora doveva avere quindici anni e lavorava nel pastificio. Si chiamava Antonio egli pure, e Antonio scorgeva in questo nome un ultimo, segreto e sublime messaggio d'amore, come un giuramento che Luisa gli aveva voluto mandare di lontano.

E proprio per questo ragazzo egli era tornato. Suo padre non navigava certo nell'oro, anzi stentava la vita, ed egli, invece, don Antonio, ne aveva tanti di soldi.

Questi pensieri don Felice e don Filippo non potevano indovinarli, e poiché Antonio non diceva una parola, già temevano di aver perso il viaggio, quando invece egli li interruppe per dire con fare sbrigativo: - Lo compro io il pastificio. Quanto volete? Quanto vale?

Don Filippo e don Felice si guardarono negli occhi e proposero una cifra; e quale non fu la loro meraviglia quando Antonio, senza patteggiare, l'accettò e propose di stendere entro poche ore l'atto di vendita. Ad una condizione, però, che del pastificio divenisse proprietario il figlio di Luisa.

I due "signori" accettarono senza obiettare e di lì a poco uscirono per recarsi dal notaio che Antonio aveva prescelto e presso il cui studio li avrebbe raggiunti.

Rimasto solo, Antonio si avvicinò alla vetrata e gli sembrò di vedere, tra un velo di lagrime, in lontananze sconosciute, Luisa che gli sorrideva, bella come sempre, fanciulla gentile e felice. Il suo Antonio era venuto dall'America per farle un dono meraviglioso, egli che non le aveva regalato mai neppure un fiore, perché se ne vergognava.

E come una certezza, più che un desiderio o una speranza, Antonio sentì che non l' aveva mai perduta e che un giorno si sarebbero ritrovati, per sempre.

Giuseppe d' Errico

 

OSSERVANDO E RIFLETTENDO

A) Che cosa sai dell'emigrazione e dei problemi che la caratterizzarono nel passato e la distinguono oggi?

B) Illustra, opportunamente riassumendone le fasi e le cause, l'emigrazione italiana dopo la raggiunta unità nazionale, nel secolo XIX od in quello successivo.

C) Illustra le condizioni di vita nella provincia italiana nei primi decenni del secolo che sta per concludersi, traendo occasione per parlare pure della cosiddetta Questione Meridionale.

D) I rapporti tra le varie classi sociali e le loro condizioni di vita ieri ed oggi.

CONVERSANDO CON L' ALUNNO

Cosa hai provato quando sei andato fuori della tua città o paese ed hai temuto di non avere più amici e di essere rimasto solo? Come pensi che siano vissuti e vivano anche oggi gli emigranti? Se tu facessi un giorno fortuna, come useresti le tue sostanze? Hai mai subito una offesa o violenza e come vi hai reagito? Sei capace di perdonare? Come giudichi il perdono? Quante riflessioni può suggerirti questo brano!

 

 

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A cura dell'ing. Michele Zarrella